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Autore: xiaq    27/11/2015    4 recensioni
Vorrebbe dire:
Se Pablo Neruda avesse visto i tuoi occhi avrebbe dedicato loro venti poemi d'amore ed uno di disperazione.
Ma non ci si aspetta che le persone dicano cose del genere. Quindi non lo fa.
Au:
John e' stato congedato anticipatamente dal servizio militare , sta lavorando all’ospedale quando Sherlock viene ricoverato al pronto soccorso.
Autrice: xiaq
Traduttrice: 86221_2097
Genere: Angst, Avventura, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Salve a tutti. Sono 86221_2097 e questo è il mio primo tentativo di traduzione. Si tratta di una storia che ho adorato. E' suddivisa in 24 capitoli, che tenterò di aggiornare settimanalmente. La storia è completa ed è collegata ad un'altra fanfiction che l'autrice ancora non ha completato: Phaedrus. Se questa fanfiction verrà apprezzata molto probabilmente inizierò a tradurre anche l'altra.
Questo è il link alla storia originale: http://archiveofourown.org/works/1442002/chapters/3033136
Per qualsiasi critica, consiglio, commento sulla mia traduzione e/o sulla storia non esitate a lasciare una recensione, sono sempre ben accette! Nel caso in cui vogliate far sapere il vostro parere sulla storia all'autrice vi basterà recensire e io farò in modo di farle ricevere i vostri commenti.
Buona lettura!

                                                                                                       Capitolo 1

C’è un orologio.

Sa che c’è un orologio perché puó sentirlo, più forte dei battiti del suo cuore. Rumoroso. Lento. Un’eternitá tra-ogni-solenne-ticchettio.
Troppo lento. Decisamente troppo lento. Sbagliato.

I ticchettii dell’orologio segnano i secondi. Pensa. Un ticchettio. Un secondo. Ma ci sono troppi secondi. L’orologio si sbaglia. No, realizza, io mi sbaglio. Per qualcuno che ha ragione cosí spesso è uno shock sgradevole.

Sherlock apre gli occhi- un ospedale dunque- e resiste all’infantile, ma oh cosí impellente impulso di lamentarsi.

Ospedale. Di nuovo. Il rumore della macchina che ronza si confonde con le luci rosse e verdi sul monitor. I colori fanno rumore nella sua testa. Come a Natale. Pensa. E poi: No, non come a Natale. Stupido.

Il ritmo del suo cuore è stabile. Bene. Ossigeno ma non respiratore artificiale. Bene.

La sua attenzione si sposta a piccoli tratti verso la curvatura pallida del suo gomito sinistro. Non si sofferma sulle giá esistenti tracce di aghi. Noioso. Ma ci sono due drenaggi endovenosi al posto dell’uno solito e la sua attenzione si sposta velocemente alle corrispondenti sacche appese.

Fluidi e sangue. Sangue? Sangue. Non bene.

Il familiare peso della Morfina gli sta rendendo difficile pensare.

Tutto è lento e rumoroso e accecante.

Sherlock chiude gli occhi di nuovo e respira profondamente. Fa male. Si ferma un momento per apprezzare la concisa chiarezza del pensiero che accompagna il dolore.

Costola rotta. Pensa. No-Costole? Respira di nuovo. Costole.

Prova a catalogare il resto del corpo ma non sembra trovarlo. Prova a ricordare cosa sia successo ma non riesce a fare neanche questo. Infine cede di nuovo al canto di sirena del sonno medico, pensando che forse il sapore del sangue nella sua bocca non dovrebbe risultargli cosí familiare.

***
Sherlock Holmes.

Sono passati 5 anni dall’ultima volta in cui John si è permesso di pronunciare ad alta voce il nome. Lo fa ora, cercando di analizzare le incomprensibili annotazioni sulla cartella clinica.

Non è stato lui ad accettarlo.

Non è stato lui a farsi prendere dal panico mentre uno straziato agglomerato di quello che era stato un uomo veniva trasportato per il pronto soccorso. Non era stato lui ad ordinare una trasfusione di sangue o a suturare la ghignante apertura di una ferita causata da un coltello che abbracciava la curva della sua costola destra. Non era stato lui a tirare fuori Sherlock da un arresto cardiaco quando il suo cuore era collassato in un affaticato arresto sotto il peso delle droghe e della perdita di sangue e della sua lotta senza fine per tenere il suo stupido, incredibilmente stupido padrone, vivo. Non era stato lui a curare le conseguenti bruciature sul suo petto. Perchè non l'aveva saputo.

John non riesce a decidere se sia una cosa buona o cattiva. Il fatto che non abbia saputo che Sherlock fosse qui, cercando di morire, qualche ora prima. Probabilmente buona, pensa. Buona per la sua sanità mentale, buona per il suo lavoro. Probabilmente. Ma questo stato di cose non lo fa sentire meno infuriato.

Sherlock.Lo dice di nuovo, solo perchè ora ha una scusa per farlo.

Il nome viene fuori suonando come una maledizione.

Sa che probabilmente dovrebbe chiamare la dottoressa Allen, dirle che non può seguire questo paziente. Dirle che hanno un passato. Ma questo implicherebbe poggiare la cartella clinica di Sherlock e lasciare la stanza e non essere in grado di osservare i suoi parametri vitali e continuare ad essere certo che, si, il suo cuore sta ancora battendo e, si, è ancora vivo. Quindi John non lo fa. E' già concentrato sui suoi altri pazienti. Ci sono quattro reduci delle passate settimane e uno ricoverato la notte scorsa, come Sherlock. Sa di avere quarantacinque minuti prima dei turni e sa che dovrebbe str bevendo la sua terza tazza di tè della mattina o star prendendo in mano il lavoro d'ufficio o star comprando in caffetteria qualcosa che potrebbe passare per un pasto, e sa anche che non farà nessuna di queste cose.

Al contrario, si siede sulla sedia dei visitatori nell'angolo e rilegge la cartella clinica di Sherlock per la quinta volta e prova a non guardarlo troppo o a non ricordare troppo o a non preoccuparsi troppo su cosa succederà quando si sveglierà.

Non ci riesce molto.

Ma non è il guardare o il preoccuparsi che causa il problema. E' il ricordare. Perchè come può non farlo? Sono passati cinque anni, e si, cinque anni sono un tempo dannatamente lungo, ma mentirebbe se dicesse che gli importa. Non con Sherlock. Quell'uomo è impossibile da dimenticare almeno quanto è esasperante. John ha ancora la stessa conflittuale urgenza di picchiarlo e abbracciarlo che aveva il giorno in cui era salito su quell'aereo mezzo decennio fa pensando che avrebbe rivisto Sherlock undici mesi dopo. Sherlock era ancora un ragazzo all'epoca. Come John del resto.

Lascia che il treno dei pensieri faccia dietrofront, riavvolgendo la pericolosa linea temporale fino a fermarsi su ricordi più sicuri, meno dolorosi, come il giorno in cui si sono conosciuti. Sherlock è così incredibilmente giovane nella bobina precipitosa dei fotogrammi nella sua testa. E' difficie conciliare il dodicenne Sherlock con la sua espressione altezzosa e i suoi occhi spaventati con la desolata realtà del diciottenne Sherlock nel letto d'ospedale di fronte a lui. Diciotto? No. Diciotto era la stima sulla sua cartella clinica ma non era esatta. Ne ha venti adesso, quasi ventuno. Cinque anni dall'ultima volta che l'ha visto. Otto da quando si sono incontrati. Più tempo da estranei di qualsiasi altra cosa.

John allunga la mano a dispetto di se stesso, le sue dita che trovano il battito del polso pallido. Può vedere i valori sul monitor, ma il bisogno di toccare Sherlock sovrasta la logica. Chiude gli occhi, conta i battiti e si perde nei ricordi.

John ha incontrato Sherlock per la prima volta davanti all'ufficio dello strizzacervelli; due settimane dopo il suo diciassettesimo compleanno e tre settimane dopo il suicidio di suo padre. Era un venerdì. Non il giorno in cui ha incontrato Sherlock, il giorno in cui suo padre si è ucciso. Era un venerdì e aveva usato la sua pistola 9mm. Jhon aveva gli allenamenti di football dopo la scuola e si era dimenticato i tacchetti e sapeva che l'allenatore sarebbe andato fuori di testa perchè era la seconda volta quel mese. Quindi tra la quarta e la quinta lezione era corso a casa a prenderli. Quello fu il momento in cui trovò suo padre. Venerdì. Pistola. Pavimento della cucina. John aveva saltato gli allenamenti di football quella sera.

John ha incontrato Sherlock per la prima volta davanti all'ufficio dello strizzacervelli dieci minuti prima della sua prima seduta. Sherlock sembrava entusiasta di essere lì almeno quanto lo era John. Che non lo era per niente. John era lì sotto costrizione. Pensava fosse abbastanza normale, viste le circostanze, che i suoi voti fossero calati vertiginosamente e che i suoi incubi comprendessero un'ampia gamma di urla, ma sua madre pensava che lui fosse depresso e che quache mese di terapia lo avrebbe guarito. Aveva acconsentito pur di farla smettere di piangere.

La sala d'attesa era piccola e bianca e pervasa di tutto ciò che uno possa figurarsi mentalmente quando sente le parole "sala d'attesa dell'ufficio dello strizzacervelli". C'era una libreria e un acquario e quattro sedie che sembravano molto scomode appoggiate al lungo muro. E lì è dove ha incontrato Sherlock.

Il ragazzo era seduto sulla sedia più lontana, una caviglia agganciata sull'altra, braccia incrociate dietro la testa, occhi chiusi. Se fosse stata eseguita da chiunque altro Jhon suppone la posizione sarebbe stata definita rilassata. In qualche modo riusciva a sembrare pericoloso, il che era assurdo, considerando che Sherlock all'epoca pobabilmente non pesava più di 30 kg. Con i suoi ricci neri e la sua pelle quasi traslucida sarebbe potuto benissimo essere una caricatura dell'innocenza infantile, ma c'era qualcosa di bestiale in lui, qualcosa di sbagliato. John si ricordò di una gita scolastica allo zoo, quando aveva pigiato i palmi sudati al vetro appannato e aveva sbirciato i gatti della giungla mentre camminavano all'interno delle loro recinzioni. Lui era così, aveva deciso John. Una specie di creatura da guardare-ma-non-toccare. Il tipo che avrebbe potuto lasciarsi accarezzare in un primo momento e decidere di mangiarti il momento dopo.

Quando John si era seduto, una sedia a dividerli, Sherlock aveva aperto gli occhi e per un attimo tutto era diventato un po' indefinito. Il ragazzo più giovane lo aveva esaminato con un'espressione che combaciava con il suo aspetto per ugual ferocia e, di nuovo, la mente di John venne ricondotta a palmi sudati e predatori che camminavano.

"Cosa c'è che non va con te, quindi?" la voce di Sherlock, quando aveva parlato, era stata sorprendentemente dolce.

"Niente." aveva risposto John istintivamente.

"Il dottor Sebring non si occupa di pazienti banali. Se sei qui ci deve essere qualcosa che non va in te."

Parlava come un adulto. Pronunciava ogni sillaba di ogni parola con precisione spaventosa. Aveva guardato John: senza battere le palpebre, come un gatto della giungla, fino a che John non era stato sgomento abbastanza da rispondere sinceramente.

"Mio padre si è suicidato. Sono stato io a trovarlo."

Nelle settimane passate John aveva notato che la maggior parte delle persone, una volta messe a parte dell'informazione, tendevano a scusarsi senza ragione, guardarlo con quello che aveva imparato a riconoscere come "lo sguardo di compassione" e poi, generalmente, a dare inizio a quache sorta di contatto fisico. Sherlock non aveva fatto nessuna di queste cose. L'unico movimento che aveva fatto era stato protendersi verso di lui leggermente, le mani poggiate sulla sedia che li separava. Aveva mani incredibilmente piccole, persino per uno della sua età.

"Come?" aveva detto Sherlock, riportando l'attenzione sulla sua faccia.

"Cosa?" aveva chiesto John.

"Come si è suicidato?" Sherlock era sembrato infastidito, come se non fosse abituato a ripetersi.

A John era venuto in mente che si sarebbe probabilmente dovuto risentire per quella reazione, ma l'aveva trovata rinfrescante abbastanza da non curarsene."Pistola" aveva risposto, picchiettandosi la tempia destra. "Una glock da 9 millimetri.".

Stava ancora attendendo le scuse e la compassione. Nuovamente, non arrivarono.

"Perchè?" aveva chiesto Sherlock, aggrottando leggermente le ciglia.

"Perchè si è suicidato?" aveva ribadito John.

"Si."

Non era riuscito ad evitare di ridere, ed era sembrato che Sherlock trovasse la cosa interessante.

"Mi piacerebbe saperlo," aveva risposto.

Sherlock si era seduto di nuovo sulla sua sedia, le braccia che si muovevano per incrociarsi dietro la sua testa. "Curioso," aveva detto, chiudendo nuovamente gli occhi.

"E tu invece?" aveva chiesto John, sentendo di doverne tirar fuori qualcosa da tutto ciò. "Perchè sei qui?".

"Disturbo antisociale di personalità." Lo aveva detto in modo chiaro e uniforme. Come se lo avesse detto mille altre volte prima. Come se fosse un fatto.

John aveva letto abbastanza nelle passate settimane della pagina di psicologia di Wikipedia per riconoscere il termine.

"Sei un sociopatico, quindi?"

Se il ragazzo più giovane era stato impressionato dalla sua conoscenza, non l'aveva dato a vedere. "Si." aveva risposto semplicemente.

"Deve essere bello."

"Cosa?" gli occhi di Sherlock si erano aperti di nuovo, aveva osservato John in una maniera tale da farlo sentire come una preda.

"Non provare emozioni," aveva mormorato John. "I sociopatici non sono in grado di provare emozioni, giusto? Deve essere bello."

Sherlock gli aveva lanciato uno sguardo nuovo, uno sguardo di considerazione, come se John lo avesse stupito, come se fosse stato un animale che improvvisamente aveva mostrato una propensione alla parola.

"Si," aveva concordato. "Si, lo è."

***
"Dottor Watson?"

John si alza con un rapido, meraviglioso movimento che gli lascia la sensazione di capogiro ed in un certo senso di imbarazzo, come se fosse stato beccato a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Devia lo sguardo dall'attuale figura di Sherlock al viso del dottor Stamford, un altro tirocinante al terzo anno, e sospira, sfregandosi il palmo della mano sulla fronte, tentando inconsciamente di rimuovere ricordi vecchi di otto anni, nascosti al di sotto di strati frustranti di pelle e ossa. L'altra mano ancora stringe la cartella clinica di Sherlock, le dite ancora colpevolmente poggiate ai suoi bordi, come se l'avesse trovata per caso e non l'avesse imparata a memoria qualche attimo prima.

Stamfors aggrotta le ciglia nella sua direzione, avanzando ulteriormente nella stanza. Abbassa la voce, gli occhi neri seri dietro gli occhiali sbilenchi.

"Stai bene, John?"

Mike Stamford è un amico, o la cosa più vicina ad un amico che abbia avuto da quando ha iniziato la scuola di medicina. Fanno i turni insieme, Escono per un drink una volta o due al mese e ogni tanto rubano i biscotti dall'armadio delle scorte quando dovrebbero essere a suturare. Ma Mike non sa di Sherlock e di tutto ciò che implica e John non ha nessuna intenzione di dirglielo.

"Sto bene. Sono solo stanco," risponde,"C'è la dottoressa Allen?"

"Si, è l'ora del giro di visite."

"Bene."

John si alza, accettando i raccoglitori dei due pazienti aggiuntivi che Mike gli porge. Li sistema automaticamente per fare in modo che quello di Sherlock sia in cima, e poi, infastidito con se stesso, mette di proposito quello di Sherlock al di sotto dell'altro.

Segue Mike nel corridoio, cercando di ascoltare il roco timbro della voce del collega, mentre allo stesso tempo prova ad ignorare il fatto di non poter più sentire il polso di Sherlock. Sposta la cartella clinica tra le braccia mentre Mike preme il pulsante dell'ascensore. Tocca il pollice con l'indice, tentando di ricorare la sensazione della gelida pelle di Sherlock fra di loro. Gelida. Aveva freddo? Forse aveva bisogno di un'altra coperta.

La porta dell'ascensore si apre e lui si riconnette velocemente a quello che sta dicendo l'altro tirocinante.

"La dottoressa Allen vuole iniziare con il signor Lawson al quarto piano, ci sta aspettando lì," Mike lancia un'occhiata ai raccoglitori che ha in mano mentre sale sull'ascensore, poi fa un cenno verso John. "Penso di averti dato Lawson."

"Ok."

John si ferma per un attimo, pensando ancora a pelle gelida e coperte e, stranamente, ad una gita da giovane allo zoo, e poi realizza che Mike lo sta fissando, le nocche pigiate sul pulsante "porte aperte". L'ascensore sta producendo un fastidioso ronzio.

"John, vieni?"

"Certo, si."

Entra dentro scusandosi con un alzata di spalle mentre l'altro dottore lo osserva con occhi preoccupati ed un po' troppo consapevoli.

"Sei sicuro di stare bene?"

"Scusami," borbotta John, sembrando appropriatamente imbarazzato. "Non dormo da un po'. Ero di turno la notte scorsa. Sai com'è."

Il suo amico geme, poggiando per un attimo la testa sulla superficie specchiata antistante. "Oh, si che lo so."

Successivamente l'altro dottore procede raccontando una storia riguardante una straziante settimana che aveva avuto a Luglio nella quale era andato avanti con sonnellini di 10 minuti e biscotti Jammie Dodgers per 52 ore filate, ma John lo sta ascoltando solo in parte. Il suo pollice, pelle secca e screpolata a causa del continuo uso di disinfettante per le mani, continua a muoversi contro il callo sul suo indice, tentando di richiamare il fantasma del peso di un pallido polso venato di blu, che giace rilassato e flessibile tra di loro.

 

   
 
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