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Autore: Ink Voice    28/11/2015    0 recensioni
Come reagireste alla scoperta dell’esistenza di un mondo celato agli occhi della “gente comune”? Eleonora, credendosi parte di questa moltitudine indistinta di persone senza volto e senza destino, si domanderà per molto tempo il motivo per il quale sia stata catapultata in una realtà totalmente sconosciuta e anche piuttosto intimidatoria, che inizialmente le starà stretta e con la quale non saprà relazionarsi. Riuscirà a farci l’abitudine insieme alla sua compagna Chiara, che vivrà con lei quest’avventura, ma la ragazza non saprà di nascondere un segreto che va oltre la sua immaginazione e che la rende parte fondamentale di quest’universo nascosto e pieno di segreti. Ecco a voi l’inizio di tutto: la prima parte della serie Not the same story.
[RISTESURA+REVISIONE - Not the same story 1.2/3]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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XVI
La sfortuna di poter ricordare

Passò una manciata di secondi e l’ansia si stava già trasformando in impazienza. Contai lentamente fino a dieci ma dalla villetta non provenivano segni di vita. Suonai nuovamente il campanello e mi ripetei un piao di volte: il risultato non variò.
«Non ci voglio credere» borbottai tra me e me, contrariata. «Vuoi vedere che sono arrivata proprio mentre loro sono a farsi un giro chissà dove? Che poi, siamo anche nell’ultima settimana di giugno… in genere partivamo sempre per le vacanze in questi giorni. No, non posso crederci!»
Se i miei genitori fossero stati davvero in vacanza, avrei aspettato seduta davanti al portone fino al loro ritorno, senza preoccuparmi di quali metodi avrebbero dovuto adottare Bianca, Bellocchio e la loro compagnia per farmi schiodare e farmi smettere di fare la muffa là davanti. Abbandonai per terra lo zaino, che come d’abitudine tenevo su una sola spalla: riprovai un’ultima volta a suonare il campanello. Non che mi aspettassi un risultato differente dal silenzio che avevo ottenuto fino ad allora in risposta ai miei tentativi.
La strada era deserta e il fatto era un po’ inquietante. Rabbrividii: non ero nemmeno più abituata alla rigida estate di Nevepoli e ringraziavo Bianca per aver insistito a lungo per non farmi rinunciare alla giacca. Mi sfregai le mani, un po’ fredde, e presi a svolgere qualche azione quasi rituale per passare il tempo: toccai una per una le sei Balls attaccate alla cintura nascosta sotto al giacchetto, controllai che nello zaino ci fossero quelle poche cose che mi ero portata appresso giusto per non tenerlo vuoto, mi riavviai sistemai i capelli più e più volte.
Mi allontanai per qualche minuto dal portone. Quando tornai non ero la sola sulla strada: una persona, anziana a giudicare dall’incedere lento dei passi e dalla postura non propriamente eretta, mi stava venendo incontro. Senza badarci, ripresi a suonare il campanello. Iniziavo ad irritarmi un po’. “Non possono farmi questo! Che rottura!”
«Stai cercando qualcuno, tesoro?»
Mi voltai di scatto verso la voce flebile ma simpatica che mi si era rivolta. Era la figura che avevo notato mentre tornavo a tormentare il campanello, che si dimostrò essere una vecchina dall’espressione gentile e un po’ ingenua - Chiara l’avrebbe certamente definita “svampita”. Aveva un’aria familiare. Probabilmente doveva abitare nei dintorni e io l’avevo incontrata più di una volta, prima di andarmene: forse anche lei non mi aveva trovata perfettamente sconosciuta e aveva deciso di parlarmi.
«Oh… sì, è da prima che suono il campanello ma non risponde nessuno.»
«Ma infatti, perché suoni qui?»
«Eh?» Inarcai lievemente le sopracciglia, un po’ sorpresa.
«Qui non ci vive nessuno, cara; la casa è in vendita da parecchi mesi. Prima ci abitava una coppia, non ricordo bene, ma credo si sia trasferita non so dove dopo molti anni…»
Il cuore mancò un battito, sulle prime, e credetti alle parole dell’anziana. Ma mi tranquillizzai quasi subito: lei continuava a chiacchierare imperterrita e già quello mi fece pensare che fosse la classica vecchietta pettegola, che a forza di ficcare il naso nelle faccende di tutti si stava confondendo tra i miei genitori e la storia di un’altra coppia. Gettai un’occhiata alla casa e guardai un po’ nelle vicinanze, ma non trovai nemmeno un cartello “vendesi”, cosa che fece dissolvere i miei sospetti iniziali.
«… E quindi penso proprio che tu abbia sbagliato civico, cara…»
«Può darsi» decisi di chiudere il prima possibile la conversazione. «Mi avranno dato l’indirizzo sbagliato.»
La vecchina assentì numerose volte e ci volle un altro minuto buono perché si decidesse a continuare per la sua strada. Sbuffai, piuttosto seccata per quell’intervento, che sulle prime mi aveva allarmata. Eppure un dubbio lo avevo ancora: non capivo come mai l’anziana si fosse interessata così tanto e credesse di sapere tanto bene quello che era successo in quella villa. Certo, potevo spiegarmelo senza difficoltà continuandola a reputare la zitella perennemente a caccia di pettegolezzi e novità dal quartiere, non sarebbe stato un cliché scontato. Ma non riuscivo a capire perché avesse perso tempo a rivolgermi la parola e ad informarmi su qualcosa - qualcosa di falso.
«Ma è normale che i vecchi si mettano a parlare con chicchessia e a perder tempo» borbottai. «Non hanno niente di meglio da fare. Se quella avesse avuto un impegno non si sarebbe mica disturbata di dirmi che a casa mia non ci vive nessuno.» “E poi - continuai nella mia mente - se davvero l’avessi conosciuta prima di andare a Giubilopoli, si sarebbe ricordata di me. O almeno credo.” Ero un po’ indecisa e disorientata, ma in linea di massima ero molto più propensa a credere che l’anziana si fosse sbagliata. “Se si ricorda così bene di una coppia che si è trasferita chissà dove, allora dovrebbe sapere che qui ci vive una coppia sposata e che ha una figlia, no? Avrebbe dovuto capire che era proprio la figlia a litigare con il campanello…”
Iniziai ad avere qualche dubbio in più. Mi sembrava strano che mi avesse dato quell’informazione e allo stesso tempo era riuscita a farmi venire parecchi sospetti, avendomi rivolta la parola. Non avevo voglia di tornare da Bianca e Gold e andare a riprovare più tardi, magari i miei genitori erano in vacanza come avevo ipotizzato. Mi ci volle un secondo per capire cosa dovevo fare: andare a chiedere ai vicini.
Impiegai un po’ di più per riportare alla memoria i volti di chi abitava nelle ville adiacenti alla mia e se quelle persone si ricordassero di me. Ma tanto valeva provare, non avrei specificato chi fossi: se avessi iniziato a dire che ero la figlia della coppia della porta accanto e se quelli fossero già a conoscenza del fatto che me n’ero andata quasi un anno prima, sarebbe stato abbastanza sgradevole dovermi inventare una scusa per la mia lontananza da casa e il mio ritorno improvviso. Io non avevo mai legato con i vicini, anche perché non avevano figli della mia età o altri motivi per cui frequentarli; i miei genitori, invece, passavano spesso un po’ di tempo con loro.
Passai alla villa accanto. Lì non c’erano cancello né muretto a separare il giardino ben curato dal marciapiede. Percorsi il vialetto e suonai il campanello; mentre aspettavo una risposta, mi guardai un po’ intorno e individuai il sistema d’allarme che aveva permesso ai vicini di non premurarsi di avere un cancello.
Lo spioncino si aprì e trascorse un lungo secondo prima che la porta facesse lo stesso, tanto che temetti di non poter parlare con i signori. Poi però un uomo sulla sessantina si mostrò: me lo ricordavo abbastanza bene, era un personaggio un po’ burbero e riservato che non mi era mai piaciuto molto. A giudicare dalla sua espressione non simpatica mi parve di capire che non avesse idea di chi fossi. «Serve qualcosa?»
«Ehm, salve. Mi hanno dato un indirizzo, che è quello della villa accanto a questa, a sinistra, ma non mi apre nessuno. I proprietari sono in casa?»
L’uomo mi scrutò a lungo. Sembrava sempre più sospettoso e indisposto a parlare: mi aspettavo che da un momento all’altro mi dicesse di andarmene. «I proprietari se ne sono andati da mesi. La casa è in vendita.»
«Cosa?» ribattei subito.
«Non abita nessuno qui accanto.»
Non so dire quale espressione stessi esibendo in quel momento, ma spero di non aver esternato emozioni non convenienti davanti ad un praticamente perfetto sconosciuto. Non ricordo proprio quella parte: quanto tempo passò dopo la sua secca affermazione, come reagii sulle prime, cosa pensai - se pensai a qualcosa che non fosse estremamente confuso. Però riuscii a dire: «Allora mi hanno dato l’indirizzo sbagliato.»
Forse chiesi pure - addirittura, in quel momento! - scusa per il disturbo; l’uomo salutò e chiuse la porta.
Mossi meccanicamente i passi necessari per tornare sul marciapiede. Mi sentivo vuota e assolutamente incapace di provare qualsiasi emozione o di formulare dei pensieri di senso compiuto. Avevo sospeso ogni contatto con la realtà, senza capire bene dove me ne fossi andata con la testa. Sentivo, come in lontananza, un’agitazione crescente: non proveniva da me ma dai miei Pokémon, che con la sorta di contatto telepatico tra loro e l’Allenatore, attraverso le Poké Balls, si erano messi all’erta, come se ci fosse qualche pericolo da cui scappare.
L’unica cosa che fui in grado di fare, sempre nel silenzio completo sia della mente che del cuore, fu andarmene per ritrovare Bianca e ricevere una spiegazione. Guardai un’altra volta, pavida, con gli occhi sgranati per qualche ragione imputabile ad una strana paura, la villetta abbandonata che un tempo aveva ospitato un’intera famiglia, poi solo una coppia e infine era stata messa in vendita. Solo dando quello sguardo, affatto fugace, sentii una fitta al petto e automaticamente mi portai una mano ad esso; deglutii, sentendo il panico farsi strada in me, lento ma ben deciso a piegarmi. Perché mi sembrava di star avendo paura? Non c’era più nessuno in quella casa. I miei genitori se n’erano andati, per qualche motivo. Possibile che le Forze del Bene non avessero controllato e mi avessero lasciata partire? Perché non mi avevano spiegato la situazione?
Presto la camminata difficoltosa, che se fossi stata fortunata mi avrebbe portata a casa di Bianca il pomeriggio del giorno successivo, si sveltì fino ad evolversi in un febbricitante passo di corsa. Ero talmente veloce che parevo avere le ali ai piedi e un pericolo alle spalle; arrivai al quartiere nord in pochi minuti, un tempo invidiabile, ma non seppi spiegarmi quella corsa folle se non con la brutta notizia che avevo appena ricevuto. Non incappai in nessun Monte di Nevepoli che mi facesse esitare e dubitare dell’esistenza di un ingresso, forse grazie ad alcuni degli interventi operati all’Accademia che ci avevano donato il privilegio di vedere oltre le barriere. Dovetti fermarmi solo di fronte alla distesa candida - il cancello era semiaperto - che aveva sommerso l’intero quartiere senza che qualcuno si premurasse di riportare alla luce le strade. A che pro, d’altronde? Solo Bianca ci abitava.
Sola e nel silenzio più totale - l’unica compagnia che avevo era il fiato pesante ed ansimante, che era venuto a lamentarsi per lo sforzo inaudito appena fatto - sfidai la neve che mi separava dalla casa di Bianca. Ricordavo che, il primo settembre dell’anno precedente, una nebbia inquietante e grigiastra aleggiava sul paesaggio; quel giorno, invece, riuscivo a vedere senza difficoltà l’orizzonte boscoso e le rovine della Palestra e del Tempio. Il Sole splendeva raggiante. Forse fu la sua forza a rendere la neve meno ostica, perché ebbi la sensazione di starmi facendo strada con una facilità sorprendente, come se al mio passaggio quella si facesse da parte o si sciogliesse.
Altair si liberò dalla sua sfera ed emise il suo verso melodioso, palesemente preoccupata per me. A malapena feci caso alla sua entrata in scena: mi seguì, svolazzando, degnandosi almeno di non fare rumore. La casa di Bianca, vicina alla Palestra e al Tempio di Regigigas, divenne visibile. Mi parve di acquistare ulteriore velocità non appena ne distinsi i dettagli attraverso le chiome dei sempreverdi.
In un attimo, o così mi sembrò, mi ritrovai di fronte alla porta. Suonai il campanello: tremavo in una maniera spaventosa. Mi passai una mano sulla fronte mentre aspettavo, impaziente, che almeno allora qualcuno mi rispondesse. Sussultai: era bollente. Non esclusi la possibilità che mi stesse venendo la febbre per ciò che era successo. Ad essere sincera, non sapevo cosa pensare: avevo bisogno di chiarimenti, qualcuno doveva spiegarmi cosa stava succedendo. Perché se n’erano andati? Era possibile? Stavo sognando? Magari avevo già da un pezzo la febbre ed erano sopraggiunte addirittura le allucinazioni, facendomi dimenticare addirittura che stessi male e che non avrei dovuto andar lì… come fui ingenua per cercare di spiegarmi una realtà che non intendevo accettare!
«Bianca» dissi con voce flebile, avendo la sensazione di star aspettando da minuti interi. Dovevano essere passati pochi secondi, ma non ricevere una risposta istantaneamente, dopo quello che era successo, poteva diventare patologico. Avrei alzato la voce e strillato finché avessi avuto fiato a disposizione per far capire alla Capopalestra che se non si fosse sbrigata… oh, chissà cosa mi sarebbe successo se non avesse aperto la porta prima che avessi cominciato a gridare.
Inizialmente mi guardò stranita, non aspettandosi che fossi già di ritorno. Poi le mie condizioni, che dovevano essere a dir poco penose, la fecero sbiancare: quasi mi strattonò dentro. Sbatté la porta alle mie spalle: il rumore violento mi fece sobbalzare, dopo il silenzio quasi totale che c’era stato fino ad allora. Vidi Altair volare in cerca di qualcosa su cui appollaiarsi, autonomamente. Gold ci raggiunse e reagì esattamente allo stesso modo della parente quando mi aveva aperto la porta: prima fu circospetto, subito dopo si sbalordì - in senso negativo.
Bianca gli ordinò qualcosa che non riuscii a capire e mi condusse in soggiorno, esortandomi a sedermi e a spiegarle cosa fosse successo. Ci misi un po’ per trovare la forza per dire almeno qualcosa.
«Non c’era nessuno» bisbigliai. «La casa è in vendita. Se ne so… ss… s-sono…»
Dopo aver iniziato a balbettare, la voce mi morì in gola e non potei aggiungere altro. Bianca e Gold mi fissavano agitati e ansiosi, ma anche interrogativi. «Respira, Eleonora» disse lei piano. «Calmati. Spiegaci cosa ti è successo, appena te la senti.»
Gold mi porse un bicchiere d’acqua. Scossi impercettibilmente la testa per rifiutare, tenendo gli occhi, sgranati, fissi su ciò che aveva in mano ma senza vederlo realmente. Avevo la sensazione di aver smesso di respirare. Ero calmissima, altroché; ma, appena avessi avuto il coraggio di sfogarmi, le emozioni che stavano germogliando dentro di me, come fiori del male, sarebbero sbocciate con una violenza inaudita, ne ero sicura. Non mi era mai successo niente del genere, mi stava addirittura venendo la febbre per lo shock. Da un lato pensavo di sapere già cosa fosse successo e perché; dall’altro continuavo a cercare il motivo per cui i miei genitori se ne fossero andati.
Iniziai a piangere. Non seppi dire se fu un bene o un male, ma lo feci a lungo e nel più completo silenzio. La vista mi si annebbiò velocemente, d’un tratto, e le lacrime sgorgarono una dopo l’altra, ininterrottamente, come se dovessi espellere ogni liquido corporeo. Gold sedette accanto a me ma non mi rivolse la parola: sarebbe stato inutile, e forse a lungo andare mi avrebbero dato fastidio, i tentativi dell’uno e dell’altra di farmi parlare. Bianca ci lasciò soli dicendo che avrebbe chiamato qualcuno dell’organizzazione. La possibilità che qualcuno potesse darmi spiegazioni non mi interessò. Piansi senza emettere suono per minuti interi, immersa in uno stato catatonico. La ex Capopalestra, in un’altra stanza, parlava a voce troppo bassa - sentii solo un “Salve, signor Wilson” pronunciato con un tono falsamente amichevole e tranquillo - perché potessimo sentirla, ma comunque non avevo più la forza di volontà per concentrarmi su niente o fare qualsiasi cosa che non fosse piangere.
Bianca tornò quasi subito: la conversazione al PokéGear dovette durare solo qualche minuto. Non aveva più l’espressione turbata di prima, era diventata afflitta e appariva in difficoltà. Cosa avrebbe dovuto spiegarmi? Sarei riuscita a risvegliarmi dalla specie di trance in cui ero caduta e reagire, o a malapena avrei capito quello che mi sarebbe stato detto? Quasi non feci caso al suo ritorno nel salotto, avrei impiegato chissà quanto per riprendere a ragionare. Sospirò: non era un bel modo per cominciare.
«Non mi è stato detto il perché, Eleonora, ma le Forze del Bene…» Si fermò subito. Poi, facendosi forza, riprese: «Le Forze del Bene hanno deciso, mesi fa, di rimuovere ogni ricordo di te dai tuoi genitori e da tutte le persone che un tempo ti sono state vicine. La tua partenza, be’… è stata uno sbaglio, non sono stati effettuati i dovuti controlli per ogni ragazzo. Non so nemmeno perché ci sia stata una svista così grave, ma…» Non terminò la frase. Proseguì: «Ti riaccompagnerò all’Accademia il prima possibile, anche in giornata, se te la senti. Il signor Wils… ehm, mi è stato detto che a te saranno date tutte le spiegazioni. Quindi, quando vuoi… andiamo» concluse semplicemente.
Trascorsero altri lunghi secondi perché riuscissi ad elaborare le parole di Bianca. Una volta afferrato il senso di ogni frase, annuii e sussurrai: «Andiamo.»

Bianca affidò a Gold il compito di ricevere Chiara non appena fosse tornata da casa sua. La donna mi misurò la febbre, prima di andare alla stazione di Nevepoli, e non fu affatto contenta di dovermi far partire in condizioni simili - il termometro segnò un paio di gradi di troppo rispetto alla normalità. Ma alla fine, un po’ perché sapeva che dovevamo tornare all’Accademia il prima possibile, un po’ perché io le dissi - sempre con una voce priva di intonazione - che non volevo aspettare ulteriormente, acconsentì ad andare.
Siccome le mie gambe non erano più affidabili, Bianca mi prestò un Aurorus che mi servì a mo’ di destriero: lo stesso fece lei con un gigantesco Mamoswine. Grazie ai Pokémon arrivammo presto alla stazione solo all’apparenza abbandonata: l’intera zona era all’interno di barriere, almeno fino ai confini settentrionali di Sinnoh.
Il treno era già in stazione e lo prendemmo immediatamente. Sarebbe stato un viaggio silenzioso. Nemmeno di quello m’importò qualcosa, non riuscivo ad essere dispiaciuta per Bianca, che sicuramente doveva essere a disagio. Non potevo farci niente e di certo la febbre improvvisa non mi stava aiutando. Ero diventata insensibile a tutto e apatica per difendermi da qualcosa di più grande di me, che mi avrebbe mandata in crisi? Era l’unica spiegazione che, in seguito, potei dare al mio comportamento. La mia compagna di viaggio non provò nemmeno a parlarmi. Pensai, con una vaghezza un po’ ingenua, che fosse carino da parte sua.
Arrivate a Giubilopoli, non ricordavo minimamente come fosse l’ambiente. Faceva caldo, meno della prima volta in cui ero scesa da quel treno e uscita dalla stazione ai confini - vicini al percorso 218 - della città: dal giorno in cui ero arrivata all’Accademia mi sembrava che fossero passate ere.
Avevo smesso di piangere più o meno quando avevamo preso il treno, ma le gambe mi dolevano a causa della febbre. Sentivo i muscoli fiacchi e inconsistenti e mi aspettavo di percepire le mie ossa sbriciolarsi. Eppure riuscii a seguire Bianca, facendolo meccanicamente, quasi inconsciamente, che si premurò di camminare piano. Impiegammo più tempo per entrare nel percorso 218, che era vicino al capolinea, di quanto ne avevamo messo per andare da Nevepoli all’altra stazione, dove il tragitto era più lungo e difficoltoso.
Il Lapras della Capopalestra traghettò entrambe fino all’isolotto che ospitava l’edificio dell’Accademia, che ci fu visibile non appena mettemmo piede sulla terraferma. Incontrai qualche difficoltà per scendere e riprendere i contatti con le mie gambe. Mi chiesi chi mi avrebbe dato spiegazioni, sicuramente qualcuno al vertice delle Forze del Bene che aveva dato ordine di cancellare la mia esistenza dai ricordi di tutti coloro che mi avevano conosciuta. Ma perché l’avevano fatto? Tanti ragazzi come me, che con i Pokémon non ci avevano mai avuto a che fare, non avevano subito il mio stesso destino: dopo aver detto addio alle loro vecchie vite avevano semplicemente tagliato i ponti. Non si era mai ricorsi a misure così drastiche, che io sapessi.
Sentii una fitta al petto. Non era vero che c’erano tanti ragazzi come me. Io ero speciale, non potevo più cercare di confondermi in una folla di persone meravigliosamente normali. Ebbi la sicurezza che fosse quello il motivo per cui mi avevano cancellata dai ricordi delle mie vecchie conoscenze, quale poteva essere la ragione, altrimenti? Ripensai a Camille, la cui vita era stata rovinata proprio per la sua identità - i Victory per cercare di catturarla avevano dato fuoco alla sua casa e ucciso i suoi familiari più stretti. Poi mi tornò alla mente anche Gold, a cui era toccato sopportare più o meno la stessa cosa. Quanti altri come noi c’erano nelle Forze del Bene che, paradossalmente, mi avevano procurato una brutta ferita senza che io sospettassi nulla, ritenendole incapaci di un colpo così basso? Sembrava una cosa da Victory. Oppure era stata una necessità? Non riuscivo ad accettarlo.
Bianca mi accompagnò dentro, fino all’ufficio del preside. Non mi stupii più di tanto di trovarci Bellocchio. Non mi sarebbe piaciuto dover fare la conoscenza di un altro, sconosciuto “pezzo grosso” delle Forze del Bene per poi pensare che, forse, proprio la persona davanti a me aveva ordinato di cancellarmi, né più né meno. Abbandonai per terra lo zaino, che mi tenevo sulle spalle da quando ero arrivata a Nevepoli. Bellocchio era appoggiato ad una specie di cattedra; chiese alla mia accompagnatrice di uscire. Mi misi schiena al muro sulla porta chiusa.
Bellocchio fece per aprir bocca, ma non gli diedi il tempo di dire nulla. Con voce tremante e acuta, chiesi: «Perché lo avete fatto?»
Nonostante una risposta me la fossi già data, volevo avere la certezza di aver capito le intenzioni delle Forze del Bene con quella loro mossa, sperando di non brancolare nel buio dell’ignoranza. La mia ipotesi era giusta, me lo confermarono le parole dell’uomo: «È necessario che quelli come te vengano separati dalla realtà prettamente umana, Eleonora. Dobbiamo preservare l’esistenza di tutti voi nel mondo dei Pokémon, per evitare guai.»
«E perché? Quali guai?»
«Dopo essere sparita per venire qui all’Accademia, molte persone si sono accorte, a parte i tuoi genitori, della tua scomparsa. Un po’ per evitare che a loro venisse un esaurimento nervoso - dopo aver perso la propria figlia ci mancavano solo le domande di amici e parenti che chiedevano di te e peggiorassero la situazione, un po’ perché era necessario, abbiamo preso queste misure. È difficile da accettare, posso immaginarlo… ma inevitabile.»
Lo guardavo interrogativamente e capì di dover spiegare quella necessità di “tenermi rinchiusa” nella realtà dei Pokémon. «Non possiamo permettere che quelli come te lascino delle tracce dall’altra parte delle barriere. Potrebbe essere un ostacolo: se qualcuno ancora vi cercasse, ricordandosi di voi in continuazione, le conseguenze potrebbero diventare fastidiose, soprattutto per noi. Il Victory Team non si farebbe tanti scrupoli, Eleonora; sarebbe passato alle maniere forti e basta. Nonostante il dolore possa accecarti… e, te lo assicuro, è comprensibile… spero tu possa capire, almeno tra qualche tempo, che in questo modo quelli che ti hanno conosciuto ora sono al sicuro. Se riuscissi a tagliare del tutto i ponti con la tua vecchia vita, i nemici non avrebbero modo di farti del male, se non a te personalmente, senza sfruttare i tuoi vecchi contatti.»
Capivo la logica di Bellocchio e gli davo ragione; faceva male, ma in effetti quello poteva essere il solo modo per mettere al sicuro sia me che le mie vecchie conoscenze. «Però…» esordii, piuttosto insicura, «io non mi sono dimenticata, e non voglio che succeda, dei miei genitori e dei miei vecchi amici. Sono ancora vulnerabile, se i vostri intenti erano questi; i Victory potrebbero comunque attaccare le persone che mi sono care e a cui ho detto addio.»
«Sì, è vero, ma ci siamo preoccupati di rendere almeno i tuoi parenti più stretti irrintracciabili. I tuoi genitori si sono trasferiti da tutt’altra parte» ovviamente non mi disse dov’erano andati ad abitare, «e dubito che i Victory si metteranno a perder tempo con persone che non ricordano più niente di te, Eleonora. Non sono così sanguinari da provare piacere nel torturare innocenti già sapendo che non otterranno alcuna risposta. Ora, l’unico problema rimasto sei tu.»
«Vo… volete cancellarmi la memoria?!»
«No. A meno che tu non ce lo chieda, ma hai già detto di non voler perdere i tuoi ricordi, per quanto questa scelta, ti avviso, possa farti più male che scegliere di rimuovere parte della tua memoria. Ci sei affezionata ed è normale… ma allora devi promettere alle Forze del Bene, e a te stessa soprattutto, che ti impegnerai a fondo per renderti invulnerabile senza dover rinunciare ai tuoi ricordi. Il Victory Team potrebbe prendere i tuoi cari come ostaggi per chiederti di allearti con loro, e solo allora la loro vita sarà salva. Non si tratta di cercare informazioni su di te.» Fece una breve pausa. «Il tuo rapimento è stato un modo per giocare con noi, poi hanno iniziato a fare sul serio; ogni occasione, d’ora in poi, sarà buona per cercare di portarti dalla loro. Così come le Forze non temono queste azioni del Nemico, tu devi impedire alle tue emozioni di portarti in trappola. Vuoi tenerti il ricordo dei tuoi genitori? D’accordo. Ma se succederà loro qualcosa, non sarà ammissibile un tuo scatto emotivo o cose del genere.»
Ci misi un po’ per capire cosa Bellocchio intendesse dire: mi fu piuttosto difficile. Annuii senza rendermi conto appieno di cosa comportassero le sue previsioni e ammonizioni. L’uomo continuò: «Devo metterti ancora in guardia. Non è detto che la rimozione dei ricordi sia una scelta mille volte peggiore di tenerteli. Anzi, te lo dico per esperienza: dimenticare è molto più facile che cercare di combattere ogni giorno con i propri fantasmi. È brutto da dire, ma è una scorciatoia indolore e di enorme vantaggio. Abbiamo già deciso senza di te, tempo fa, di agire in questo modo senza che tu lo sapessi, e in effetti non avresti mai dovuto venirne a conoscenza. È stato commesso un errore. Ora lasciamo a te la decisione di cosa fare dei tuoi ricordi, dopo il brutto colpo preso stamattina; ma te ne prego, non scartare a priori qualcosa di molto più conveniente, per quanto inizialmente possa essere doloroso.»
Impiegai qualche secondo per rispondere, sperando di trovare delle parole efficaci. «Sarà sicuramente vero che dimenticare è più facile e conveniente, che dopo aver accettato di farmi rimuovere i ricordi non saprò nemmeno più quello che ho passato, quanto dolore ho provato per acconsentire a questa cosa… ma non ce la faccio proprio. Non voglio dimenticarmi dei miei genitori e della mia vecchia vita, sono cose a cui sono troppo legata per… per rinunciare, ecco. Mi impegnerò per rendermi invulnerabile come ha detto lei… signore.»
L’uomo annuì. Seguì qualche secondo di silenzio; pensai che di lì a poco avrebbe chiuso la questione, ma prima che mi congedasse gli domandai: «Perché mi avete lasciata partire?»
«Te l’ho detto, è stato un errore. In questo periodo gli impegni dell’organizzazione sono aumentati a dismisura. Sono in pochi quelli che sanno della tua identità e che controllano lo stato di quelli come te; ultimamente, mi spiace dirlo, sono tutti impegnati in faccende più importanti che nella gestione di quest’Accademia. Tra l’altro, dopo il rapimento avvenuto, non passerete ancora molto tempo qui: dovremo trovare un luogo in cui trasferirvi» aggiunse quasi con noncuranza. «La mia posizione è al vertice insieme ad alcuni miei colleghi, e le ultime cose di cui ci preoccupiamo personalmente sono le Accademie, che lasciamo ai piani più bassi dell’organizzazione. Non c’è stato sufficiente controllo. Avremmo dovuto trovare un modo per tenerti qui senza che, però, venissi a sapere di quello che era successo.» Dopo un po’, riprese: «Penserai che sia una cosa… mostruosa.»
Scrollai le spalle, scuotendo la testa. «Non so cosa pensare di nulla.»
«Comunque non sei rimasta sola, qui. Non tutti i ragazzi sono partiti.»
«Oh, bene.»
Dopodiché mi congedò. Ero sfinita, non avevo più voglia di vedere nessuno: l’ora di pranzo era passata da un pezzo ma quel giorno non sarebbe stato difficile rimanere digiuna. Uscita dalla stanza “del preside”, vidi Bianca e la salutai; la Capopalestra entrò nell’ufficio mentre io me ne andavo in camera mia. Feci identificare la mia impronta digitale allo schermino che fungeva da serratura; l’accesso mi fu consentito ed entrai. Abbandonai per la seconda volta lo zaino a terra, tolsi il giacchetto, le scarpe e la cintura con le Poké Balls e mi sdraiai sul letto.
I miei Pokémon si liberarono tutti autonomamente. Erano ore che aspettavano di farlo, era evidente. Altair mi si poggiò sulla pancia, permettendosi di farlo giusto perché era piccola; Pearl si acciambellò vicino a me prendendo a fare le fusa - se così si poteva dire di un Pokémon. Anche Diamond e June si misero sul letto, lo Staravia atterrandoci sopra e la Roserade sforzandosi per arrampicarsi. Aramis e Rocky, ovviamente, non potevano accomodarsi sul letto, anche perché lo spazio era bell’e finito. Mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Non riesco a credere che mi sia successo qualcosa del genere.»
Pearl borbottò in risposta al mio esordio. Presi Altair tra le mani, piccola com’era, e la sollevai sopra la testa; ben presto la vista mi andò fuori fuoco mentre le facevo i grattini sulle ali. Per lei era piacevolissimo anche quando lo facevo meccanicamente, come in quell’occasione. «Ho pianto un sacco… ma non mi sono sentita disperata o cose del genere. Non ho sentito nulla» dissi con un tono depresso e deprimente. «Accettare di abitare in una delle due realtà che esistono su questo mondo e dover entrare nell’altra… è stato durissimo e mi ci è voluto un sacco di tempo. Poi sto ancora facendo l’abitudine all’idea di essere speciale, come dicono sia i Victory che quelli del Bene. E ora… mi chiedo se succederà lo stesso con quello che è appena successo. Siccome sono speciale e vivo in un mondo speciale, devo rimanere qui per il resto della mia vita, e le Forze del Bene hanno cancellato tutti i legami che avevo con Nevepoli e il resto… è una crudeltà o sono io che non riesco ad accettarlo, ma dovrei farlo?»
Feci una pausa. Riportai Altair al suo posto e scambiai un’occhiata con Aramis. Il Gallade era serio, sembrava capire alla perfezione ciò che stavo dicendo. Mi chiesi se, oltre a comprendere il significato delle singole parole, sapesse pure il senso dell’intera faccenda e se potesse capire come mi sentivo.
«Da un lato, so bene cos’è successo e sono d’accordo con le Forze del Bene per quello che hanno fatto, perché è stato necessario. Da un altro, lo trovo inaccettabile… avrebbero dovuto farmelo sapere prima. Credo che sia sleale da parte loro: avevano addirittura intenzione di tenermi all’oscuro di tutto per sempre, se possibile!… E infine, se mi soffermo a pensarci, sto ancora sperando di tornare a Nevepoli, suonare il campanello di casa mia e vedere la porta che si apre, e mamma o papà impazzire di gioia nel vedermi.»
Mi morsi il labbro inferiore appena le lacrime si riaffacciarono ai miei occhi, visto il dolore che solo immaginare quella scena mi stringeva il cuore. «Ma una risposta l’ho ottenuta, no? I miei genitori non mi hanno scritto nessuna lettera… ovvio, non sanno più di averla, una figlia!» quasi singhiozzai, tirando su con il naso.
Mi misi a sedere sul letto quasi di scatto; Altair si spostò, sorpresa per il mio brusco movimento. Avevo voglia di richiamare tutti i miei Pokémon nelle loro sfere e starmene da sola, riprendere a piangere e forse non smettere più. Eccome se iniziavo a sentire il dolore lancinante della perdita; i ricordi facevano male quando non c’era più qualcun altro a condividerli, anche se lontano miglia e miglia!
Ma non feci niente del genere. Mi asciugai le prime lacrime che avevano cominciato la loro discesa lungo le mie guance. Inspirai ed espirai profondamente: già ero rimasta sola, non avendo più i miei genitori a vegliare su di me da lontano. Non potevo rifiutare anche la compagnia dei miei Pokémon, gli unici che potevano starmi vicini e non farmi disperare per l’apparente solitudine. Appena fossero tornati i miei amici più fortunati, come Chiara, Ilenia e Daniel, avrei avuto anche loro per sentirmi meglio; in loro compagnia avrei aspettato che quella profonda ferita si rimarginasse. Non avrei mai creduto le Forze del Bene capaci di qualcosa del genere, ma più ci pensavo più mi convincevo che avevo avuto una visione troppo ingenua delle cose. Non era roba da Victory, ciò che avevano fatto: era logica e inevitabilmente dolorosa, per me, ma molto meglio per i miei vecchi affetti.
«Va bene.» Mi sforzai di sorridere e feci qualche carezza a Pearl, che stava ancora accanto a me. «Mi ci abituerò, così come ho fatto finora con tutto. È normale, in una realtà come questa.»
E soprattutto, ma mi mancò la voce per dirlo, in quel modo i miei genitori e chi altri mi avesse conosciuta, in passato, era al sicuro dalla minaccia costante dei Victory. Se mi fossi resa invulnerabile, come aveva detto prima Bellocchio, non avrebbero avuto alcuna arma per minacciarmi e cercare di portarmi dalla loro.
I minuti passarono e si trasformarono in ore. Suonò la solita campanella che annunciava l’ora del pasto di turno e mi avviai verso la mensa per cena, aspettandomi di trovarla quasi deserta. Invece una dozzina abbondante di ragazzi occupava qualche tavolo, chiacchierando sommessamente. Non sembravano di cattivo umore, nonostante sapessi cosa voleva dire la loro presenza lì - non avevano nessuno da cui tornare. Fu un altro motivo per non star male e mi convinsi ulteriormente della validità della scelta che avevano fatto le Forze del Bene.
«Eleonora!»
Vidi un braccio agitarsi dalla parte opposta della stanza in cui mi trovavo. Mi avvicinai e sorrisi a Sara, un po’ interdetta di vederla lì, ma sperai di mostrare contentezza e non stupore. Non sapevo cosa dirle, chiederle cosa ci facesse lì sarebbe stato sicuramente indelicato; quindi la salutai soltanto con un: «Ehi, ciao!»
«Come stai? Non ti hanno fatta partire?»
«Ehm, no. Diciamo di no.»
Sara inarcò le sopracciglia, che sparirono sotto la frangetta bianca. Poi però si ricompose: «Oh, mi dispiace. Anche io sono rimasta qui.»
La ringraziai mille volte, dentro di me, per non avermi chiesto fin da subito il motivo per cui non fossi andata a Nevepoli; gliel’avrei spiegato più tardi, in quel momento non me la sentivo. Non sapevo, però, se interessarmi al perché anche lei fosse rimasta all’Accademia. Temevo di risultare indelicata e invadente.
«Come mai?» le chiesi infine.
Lei sorrise. «Non ho nessuno da cui tornare, semplicemente.»
Strinsi i pugni: mi parve di riuscire a percepire la sua malinconia, che traspariva da quel sorriso così timido, gentile ma profondamente triste. Era un’espressione particolare, la sua, che avevo decodificato solo in mesi interi di amicizia e che non avevo mai visto sul viso di qualcun altro: la caratterizzava.
«Neanche io, ormai» dissi, non sapendo cos’altro avrei potuto replicare.
Sara si stupì e mi domandò se avessi voglia di spiegarle il motivo. Fu la prima persona a cui raccontai, calma e controllata - almeno all’apparenza, cos’era successo quella mattina e le mie reazioni, senza risparmiare in dettagli. Le riportai pure la conversazione con Bellocchio e le mie opinioni contrastanti, che alla fine si erano accordate in una sola, riguardo alla decisione delle Forze del Bene. Però non le dissi della mia identità speciale neanche quella volta - la prima occasione c’era stata al ritorno dalla base Victory. Sperai che continuasse a non farsi domande e che accettasse il mio racconto così com’era, ovvero: i miei genitori, troppo irrequieti, potevano rappresentare un ostacolo per le Forze del Bene e un’arma per i Victory, perciò la nostra organizzazione aveva preso quella drastica decisione. Mi ci volle un buon quarto d’ora per raccontare; nel mentre mangiammo, occupando un tavolo intero.
«Ho capito. Cielo, dev’essere terribile… non sai quanto mi dispiaccia» mormorò, profondamente comprensiva.
“Se non hai nessuno da cui tornare, perché dici che ‘dev’essere terribile’?” mi domandai. «Ma tu non eri venuta qui all’Accademia insieme ad Angelica?» feci, ricordandomi la voce allegra dell’altra ragazza che spesso aveva accennato al loro arrivo nell‘edificio delle Forze del Bene. «Perché non sei andata con lei?»
Sara sorrise un’altra volta. «Perché non sono imparentata con lei. Si vede lontano un miglio, no?»
«Diciamo che già dai capelli si nota qualcosa…»
La ragazza ridacchiò. «Che ne dici di venire a stare in stanza con me, finché non tornano Angie e Chiara dalla loro vacanza? E poi, appena finiamo di cenare, se non ti è di disturbo… potrei raccontarti quello che mi è successo prima di conoscere Angelica. La mia storia, insomma. Penso che potrebbe farti star… farti piacere.»
Accettai con decisione, contenta della sua proposta e pure molto incuriosita: non mi aspettavo che mi facesse quella proposta formulandola in un modo che, tutto sommato, era piuttosto strano. Mi chiesi cos’avesse passato prima di arrivare all’Accademia insieme all’altra ragazza, e come si fossero conosciute ancor prima, visto che era ormai evidente che Sara fosse una perfetta estranea, biologicamente parlando, rispetto alla famiglia di Angelica.








Angolo ottuso di un’autrice ottusa
Haters on the left please.
No, va be’, quanti dei miei venticinque lettori [cit del Manzo] (ma magari fossero venticinque) mi odiano per quello che ho fatto? Avevo promesso una prima parte-remake quasi uguale, spensierata e leggera, alla prima versione… invece mi sa che ho fallito a partire dal minuto zero! A parte le riflessioni, comunque un po’ ingenue, che hanno spopolato in alcuni capitoli, già ho iniziato a rovinare la vita della protagonista… sono incorreggibile, ormai penso sia evidente! *arcobaleni e ponypanda - il cui manto è caratterizzato proprio dalle tinte dell’arcobaleno [si ringrazia lagunablu per l’accurata descrizione dei ponypanda*
Comunque, passando alle cose serie - perché le famiglie spezzate e rovinate sono robetta: gli interventi di cui parla Eleonora potrebbero essere di vario tipo, da microchip sottocutanei rilevatori di barriere ad altre cose sulla stessa lunghezza d’onda, ma lascio spazio alla vostra fantasia per immaginare quali possano essere stati. Però, se avrò modo, se avrò un’idea geniale e se me ne ricorderò,  ne parlerò nella terza parte.
Adesso vi saluto, ho già chiacchierato abbastanza; più sotto c’è una nota per chi ha già finito la seconda parte e sta leggendo questo remake perché sì (?); evitate di leggere se non avete mai letto TUTTA la seconda parte, please!
A presto!
Ink





*NON LEGGERE SE NON VOLETE SPOILER CHE POTREBBERO ROVINARVI L’ESISTENZA (?) - SOLO PER CHI HA GIA’ LETTO TUTTA LA SECONDA PARTE*
Pensavo quasi, avendo stravolto la situazione, di far intervenire Ho-Oh e il Legame in quest’occasione e non aspettare fino al, uhm, quartultimo capitolo della seconda parte? Più o meno stiamo là… ad ogni modo, ho cercato di lasciare qualche “indizio”, se così si può dire, all’interno del capitolo - la neve che sembra sciogliersi al suo passaggio e le ali ai piedi. Comunque, se avessi voluto farlo, la reazione della protagonista sarebbe stata sicuramente più violenta e burrascosa, perché sarebbe stata presa/impossessata dalle caratteristiche degli elementi di fuoco e aria. Ma poi vi immaginate rivedere pure tutta la seconda parte sotto questa nuova luce? Ho bocciato la mia proposta un secondo dopo averla fatta...
  
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