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Autore: Koa__    29/11/2015    6 recensioni
Un cadavere scomparso. Un fazzolettino ricamato e sul quale una mano ignota ha scritto una strana filastrocca. Una copia del libro: "Il giardino segreto" vecchia di anni, recante diciture confuse e incomprensibili. Misteriosi personaggi dai segreti inconfessabili, si muovono in un minuscolo paesino dello Yorkshire. In tutto questo, Sherlock Holmes, venuto assieme al suo fidato amico John Watson per far luce su di un curioso mistero, si comporta in una maniera assai strana.
[Blandamente ispirata al romanzo di Frances Hodgson Burnett: "Il giardino segreto"]
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti di un giardino segreto'
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Capitolo ventunesimo



 

 
 [...] che era stato costante inconsciamente, anzi senza volerlo; 
che aveva voluto dimenticarla, e credeva d'averlo fatto.
Si era creduto indifferente mentre era soltanto adirato;
ed era stato ingiusto verso le sue virtù perché ne aveva sofferto.
-  dal libro 'Persuasione' di Jane Austen - 
 
 
 
 
 
Sebbene avesse trascorso delle ore a pensare e a ripensare all’immagine di sé stesso che prendeva a pugni quel qual certo consulente investigativo, John Watson aveva finito col dimenticarsi di ogni più piccola stilla di rabbia e dolore provati, nell’esatto istante in cui aveva varcato la soglia del soggiorno del 221b di Baker Street. Lo aveva trovato seduto in poltrona, vestito in camicia e vestaglia, teneva le gambe accavallate e ora se ne stava proteso in avanti verso il tavolinetto basso. Gli stava servendo del tè, si rese conto non appena riacquistò un barlume di lucidità. Un lampo d’improvvisa e sensata cognizione della realtà, che arrivò assieme alla consapevolezza del fatto che Holmes non avesse nemmeno bisogno di domandargli che cosa ci volesse, in quella dannatissima tazza. Si limitò infatti ad aggiungere qualche goccia di latte e a lasciar da parte lo zucchero, come se conoscesse con dovizia di particolari ogni gusto culinario del suo coinquilino. E forse era proprio così. Infine gli porse la tazza, con un ampio e largo sorriso ad accompagnare il tutto.
«Il tuo tè, John» mormorò Sherlock con tono piatto, quasi incurante. Pareva non fosse accaduto l’impossibile fra loro, che non si fossero lasciati a una stazione del treno, il cui solo scopo sembrava quello di spezzare le nebbie della brughiera, più che accogliere viaggiatori. Era davvero il vecchio amico di sempre, l’uomo che ora versava acqua calda in una tazzina di porcellana? No, non lo era affatto, comprese il dottore. Non lo era in quelle mani, i cui tremori erano malamente trattenuti. Non lo era negli occhi grandi, lucidi e liquidi che evitavano di posarsi su di lui per troppi istanti. Non lo era nelle gote arrossate, piuttosto che nel continuo, quanto preoccupante, torcersi delle labbra. Sherlock appariva come usualmente frenetico, sempre in movimento forse per l’agitazione insita da sempre in lui, o più probabilmente per il timore di riaprire quella ferita non ancora chiusa del tutto. John non si soffermò ulteriormente su di lui, anzi preferì badare più che altro a sé stesso. Già perché lui, al contrario, il mite e bonario dottor Watson, l’ex soldato che aveva sempre un sorriso per tutti ma che di tanto in tanto si lasciava dominare da certe ombre che ne rendevano i gesti troppo istintivi e brutali, era ancora ritto sulla soglia. Fermo e incredulo, con indosso la giacca e la valigia stretta in una mano. Non era tanto il comportamento di Holmes, a turbarlo. Non soltanto. Perché non poteva dire che fosse insolita tanta apparente indifferenza. John sapeva infatti che difficilmente, dentro di sé, Sherlock era altrettanto calmo. No, ciò che lo turbava di più era proprio quel soggiorno che, ora, di caotico e disordinato non aveva nulla. Certamente, il 221b sarebbe sempre stato lontano dall’essere dominato da un asettico e impersonale ordine. Ancora, infatti, v’era quel pulviscolo leggero al quale entrambi mai avrebbero rinunciato e che si faceva vedere soltanto grazie agli spruzzi di raggi solari, che filtravano da dietro le tende tirate. Tuttavia, ogni oggetto che John non ricordava avesse avuto mai una collocazione prima d’allora, era stato sistemato secondo uno stranissimo criterio. Il violino era stato riposto nella custodia, la quale era stata depositata a terra accanto alla finestra. Il leggio giaceva da una parte, carico di partiture mentre una matita pendeva da un lato, legata con un pezzetto di corda. Ogni foglio o appunto lasciato per metà su di un post-it giallo era stato riposto chissà dove, forse buttato, pensò. Il divano era privo di abiti, giacche o quant’altro gli si poteva gettar sopra. I muri erano spogli e sul tavolo si poteva trovare il portatile, aperto e acceso, e un portapenne dal quale straripava un mazzetto di matite perfettamente temperate. Anche la cucina era pulita, constatò occhieggiando il tavolo sgombro da provette e veleni. Era stato lui? Sherlock? Era questo che aveva fatto invece che riflettere sulla sua fuga? John non lo sapeva e si sentì quasi un idiota all’idea di farglielo notare. Pertanto rimase zitto e lasciando cadere in terra il borsone che ancora teneva in mano, si rese conto che anche il parquet era stato spazzato e lavato da poco e che sul tappeto era stato passato un batti polvere.
«Il tuo tè si fredda, John» rimarcò Holmes, lasciandosi cadere contro il cuscino disegnato a Union Jack, mentre prendeva a sorseggiare con eleganza. Dal canto suo, il dottor Watson si ritrovò ad annuire e di certo stordito dall’atmosfera irreale e quasi fiabesca di quell’odiosamente pulito salone, si levò la giacca e prese a camminare a passo lento verso la poltrona. Lì si fece cadere con un tonfo appesantito mentre, al suo fianco, il camino scoppiettava allegro. Doveva ammettere che l’atmosfera era piacevole, lui però non riusciva a far altro se non osservare con fare confuso la tazza fumante, la quale era stata delicatamente adagiata sul vassoietto in argento. Gli sembrava di ricordare di esser stato arrabbiato, ora però non aveva le idee perfettamente chiare.
«P-perché?» balbettò, senza che l’aria stranita lo abbandonasse e ancora, mentre fissava con particolare attenzione il latte e il tè che si mescolavano assieme in un binomio dai sapori raffinati.
«Perché sono già passate le quattro e mezza e tu sei stanco del viaggio» gli rispose Holmes, del tutto indifferente di quanto fosse riuscito a sbigottirlo, prima di riprendere a parlare. «Il che ritengo sia ovvio, dato che ti sei alzato molto tardi questa mattina, direi verso le undici a giudicare dallo stato della cervicale. Ma ritengo sia un fatto assolutamente normale, dato che non sei riuscito a dormire prima delle quattro o delle cinque. A colazione hai mangiato poco e forzatamente e, ad aggiungere ulteriore nervosismo, proprio quando eri certo di poter affrontare ogni cosa nel migliore dei modi, sei andato a villa Gilmore per ritirare l’assegno. Vedere come stava Mary Jane, ti ha fatto rendere conto di quanto la vita sia orrenda. Ed ecco che ora ti trovi qui, dopo un viaggio in treno di tre ore a fianco di una donna che aveva con sé un cagnolino odioso e lamentoso, e aver attraversato una Londra insolitamente fredda per questa stagione. Hai anche un po’ di mal di testa e vorresti fare un bagno caldo prima di andare a dormire. Oltretutto, sei stranito dall’ordine di cui io sono il responsabile. Ho ritenuto che il caos dell’appartamento avrebbe aggiunto ulteriore nervosismo. Come so tutto questo? Deduzione elementare, dott…» Non seppe esattamente che cosa fu a scuoterlo, probabilmente era stato il tono vagamente auto celebrativo con il quale Sherlock gli si era rivolto, a destarlo da quello stato di incoscienza e appena accennato torpore.
«No, non farlo» lo interruppe, con un gesto secco della mano. «Non t’azzardare a pavoneggiarti» riprese «o a tentare di far colpo su di me per farmi dimenticare quello che hai fatto stanotte. Perché non me lo sono scordato e non bastano due moine, un sorrisino e una tazza di tè per farmi rabbonire.»
«Io sono stato…»
«Uno stronzo!» Lo interruppe John, nuovamente, chiudendo la mano in un pugno che andò a impattare contro il bracciolo della poltrona. «Ascolta» aggiunse poi, con voce più pacata. «Posso capire che tu abbia paura, che non ti senta in grado di gestire i sentimenti o che tema che tra noi possa andare male. Lo capisco e ci riesco davvero perché ti conosco, e se questa cosa che c’è fra noi spaventa me che ho una certa esperienza, non oso pensare che effetto abbia su di te. Voglio che tu sappia che non ho intenzione di insegnarti a stare in un rapporto, non ti dirò che si deve fare così perché sì. Ma una cosa te la devo dire, Sherlock: i problemi si affrontano insieme. Questo non è un particolare da tralasciare e dimenticare chissà dove nel tuo Mind Palace, ma è fondamentale perché la nostra relazione abbia un futuro. Non esiste che tu prenda e faccia come accidenti ti pare e soprattutto non esiste che tu mi dici che mi ami e poi salga su un treno e te ne vada, lasciandomi come un cretino. Perché tu mi hai lasciato, dannato bastardo che non sei altro. Da solo. In mezzo al nulla. E non avresti dovuto farlo. Non avresti dovuto. Non avresti dovuto» concluse, in un sussurro e poco prima d'interrompersi. John serrò gli occhi con forza e voltò il viso da un lato, cercando di placare il fiammeggiare delle proprie emozioni che pareva gli volessero bruciare lo stomaco da tanto erano intense. Il dolore gli si stava dipingendo tutto in faccia, e lui non voleva. Non voleva che nessuno lo vedesse, tanto meno l'uomo seduto davanti a lui. Doveva scacciarlo, doveva riuscirci. Ma nonostante i buoni propositi, al ricordo di quel senso profondo di solitudine, sentì ugualmente gli angoli degli occhi pizzicare e un senso di vuoto pervadergli il petto. Non doveva piangere. No. Era un uomo adulto e aveva fatto la guerra, aveva visto la gente morire e non aveva mai versato una lacrima. E allora perché quel nodo gli s’aggrovigliava in gola? E perché si sentiva così dannatamente male, quasi non riuscisse a respirare? Era l’amore, a far male. Gliel’aveva detto sua madre, anni e anni prima quando ancora bambino, le domandava del matrimonio e dei sentimenti. Mai come in questo momento si ritrovò a ricordarla e a darle ragione, in un modo che gli fece sussultare il cuore.
 
La vista gli si era annebbiata, tanto da non essere perfettamente nitida l’immagine di Holmes. Tentò di placarsi, ma invano. Perché tremava, John Watson. Tremava e vibrava. Che aveva paura, lo sapeva. Ma era anche incazzato da morire. Perché doveva essere sempre tutto così difficile con Sherlock Holmes? Perché… No, forse non era arrabbiato con lui. Piuttosto lo era con sé stesso e con quello stupido amore che lo aveva colpito a tradimento, che gli faceva adorare alla follia un uomo insopportabile, e in un modo così intenso da essere insopportabile. L’aveva negato, scacciato, rifiutato. Provato a dimenticarlo. Eppure era ancora lì, più forte che mai e gli divorava le interiora. Eccolo, John Watson e il suo amore: alimentato persino in quel momento dalla viva timidezza di un uomo che, con ritrosia e spaventevole timore, gli allungava una mano stringendo la sua in una presa forte. Lo vedeva nitidamente, il modo di amare di Sherlock Holmes. John si ritrovò a stringerle, quelle dita lunghe affusolate e bellissime mentre tentava di alzare il viso in sua direzione. Lo fece, seppur a fatica. E fu solo dopo che i suoi occhi ebbero incontrato quelli stupendi di Holmes, che si rese conto della fatica che Sherlock stava facendo. Le aveva tutte lì, in punta di lingua. Le mille e forse più parole che a stento riuscivano a venir formulate tra il caos di quella mente grande e infinita. Eccolo, lo aveva davanti a sé. L’uomo che gli parlava con i gesti perché, a dire certe cose, proprio non ce la faceva. Fu lì che John ammise a sé stesso di non essere arrabbiato. Anzi, l’ira era di certo un sentimento ingiusto da provare. Più di tutto era spaventato. Non poteva perderlo, disse a sé stesso mentre la presa si allentava. Con tutto quello che aveva perduto nell’ultimo anno, era sicuro che non sarebbe riuscito a sopravvivere se la vita gli si fosse sbriciolata di nuovo fra le mani. Perché doveva sempre lasciar indietro coloro che amava? No, questa volta non sarebbe successo. Questa adesso lui avrebbe combattuto contro tutto e tutti. Anche contro Sherlock Holmes, se fosse stato necessario e se per quello doveva dirsi egoista, allora sì: lo era. Lo era profondamente e non se ne vergognava.

Il respiro che prese fu profondo e in parte lo aiutò a darsi coraggio. Sollevò il viso finché non incontrò la figura di Holmes. Già da diversi attimi, infatti, non era più seduto. Non se ne stava placidamente ammollato tra i cuscini, al contrario era fuggito e lo aveva fatto di nuovo. E adesso guardava fuori a una Baker Street freddamente assolata ed era, oh, bellissimo. D’un tratto, John fu invaso dal prepotente desiderio d’abbracciarlo. Una voglia che gli nacque dall’anima e dal cuore, ma che trattenne dentro di sé al pari di un segreto. Non si affrettò a raggiungerlo. Invece rimase ad ammirarlo, già perché di tutte le immagini che di Sherlock conservava nella memoria, quella di lui di fronte alla finestra intento a pensare, era senz’altro la sua preferita. Lo amava quando teneva le dita intrecciate dietro la schiena, quando di lui ne poteva scorgere unicamente i ricci e i lineamenti del viso che si riflettevano nei vetri. Solitamente, John associava quell’idea di Holmes alla pace e alla riflessione. Probabilmente, se quello fosse stato un giorno come tanti, si sarebbe seduto in poltrona e avrebbe atteso con una certa impazienza che iniziasse a suonare. Adesso però non avrebbe preso il violino e non ci si sarebbe dilettato; ne era certo. Lo sapeva dalla postura e dalla rigidità delle spalle che riusciva a scorgere. Lo vedeva dal modo in cui gli si torcevano le dita, piuttosto che dall’espressione non corrucciata, ma bensì terrorizzata che leggeva nei suoi occhi. E lì, di fronte a quella faccia spaurita e persa, John Watson comprese quanto in un’intera notte non era stato in grado di capire. Sherlock non era fuggito dalle proprie responsabilità. Non era un vigliacco. Era scappato da sé stesso e da ciò che provava. Perché quel groviglio di sentimenti doveva essere insostenibile, dilaniante e troppo grande e troppo spaventoso per un uomo soltanto. A quel si arrese, perdendo ogni volontà. Lo fece di fronte a quello Sherlock Holmes dall’aria baldanzosa e al tempo spaventata, in un modo che gli ricordò terribilmente sé stesso quando, secoli prima, aveva imbracciato un fucile per la prima volta. E come poteva, adesso, dirsi arrabbiato quando a fronte aveva un uomo le cui dita erano torte per il nervosismo, e i cui occhi vagavano in ogni direzione forse con l’intento (inutile) di racimolare una qualche idea. Era in cerca di un escamotage, di un qualcosa per uscirne. Per far sì che potesse nascondersi e da un buco nero, mai più uscirne. Stranamente, fu proprio allora che accadde.
 
Sherlock Holmes e i sentimenti: John poteva dire che prima di allora non ci aveva mai pensato seriamente. In passato era arrivato persino a credere che non ne provasse o che, sociopatico, quel suo amico un po’ strano, lo fosse per davvero. E nonostante oggi si vergognasse d’averlo anche solo vagamente ipotizzato, doveva comunque ammettere che interpretare una qualche sfumatura da quella maschera di apatia, indifferenza e sarcasmo era cosa affatto semplice. Aveva sempre creduto che Holmes si trasformasse sempre in differenti personaggi, a seconda di chi si trovasse di fronte. Ora, al contrario, si rendeva conto che era sempre stato lui. E che quando erano insieme, Sherlock era sé stesso. Ogni singola volta aveva mostrato un lato meraviglioso del suo sfaccettato carattere. Si era soltanto limitato a nascondersi e a non far vedere ciò che provava per davvero. A non mostrare quel che nutriva veramente per lui, ciò che dimorava nel suo cuore piuttosto che nella sua grande mente. Probabilmente, John era stato eccessivamente ottuso od Holmes decisamente molto più che bravo, ma in fin dei conti non era poi tanto diverso da quanto aveva fatto Watson stesso. Non aveva forse nascosto i propri sentimenti per Sherlock negli ultimi tempi? Che fosse o meno riuscito a mascherarsi, doveva dire d’averci tentato e di averlo fatto sul serio. Non poteva biasimarlo. L’amore era difficile e complicato e il timore di esporsi lo avevano tutti quanti, in fin dei conti. L’uomo che John amava era soltanto inesperto e terribilmente, quanto meravigliosamente, Sherlock Holmes. Probabilmente era vero che avevano modi differenti d’intendere i rapporti, magari era realistico ritenere che sarebbe stata dura mandare avanti la loro relazione. Ma in quel momento non ci volle pensare e colto da uno slancio, lo raggiunse e afferratolo da dietro, lo cinse in una presa salda. Inevitabile, sentì Holmes irrigidirglisi tra le braccia e tendersi quasi volesse fuggire, come avrebbe fatto un gatto afferrato per la collottola. Tuttavia, John volle ignorarlo. Anzi fece l’esatto contrario che lasciarlo, e una volta stretta con forza la stoffa della camicia, lo strattonò contro di sé con vigore. Soltanto allora, si decise a parlargli.
«Ascoltami bene» esordì, forse in un modo che era eccessivamente rude «ho capito che qualcosa di tormenta e che hai paura di dirmi quel che ti passa nel cervello. Tu però adesso mi dirai tutto e, mentre lo farai, io non ti lascerò. Non mollerò la presa. Mai. Non l’allenterò e più saranno scabrosi i tuoi segreti, maggiore sarà la mia stretta. Lo sai; vero? In salute e in malattia, Sherlock. In salute e in malattia.» Detto questo tacque e dopo aver appoggiato una guancia contro la quell’ampia e muscolosa schiena, rinforzò ancor di più la presa che aveva su di lui. Poteva sentire tutto, si rese conto. Le natiche sode, gli addominali piatti e il petto forte. Percepiva attraverso la stoffa della camicia i muscoli tonici, gli stessi che talvolta si tendevano e talvolta si rilasciavano perché preda di tensioni improvvise. Il respiro era accelerato, così come il cuore che batteva rapido e svelto, segnando uno stato d’animo inquieto. Sarebbe potuto restare così per tutta la vita, ammise John a sé stesso.
«C’è una cosa che devi sapere» esordì Holmes, con voce insolitamente fievole «stanotte mi sono fermato a Barnsley a raccogliere delle prove sul dottor Groff, il cardiologo di Jane. Io dovevo andare, io… e poi tu sei arrivato e… io ho le prove, ho il fascicolo qui da qualche parte. Ora non me lo ricordo dove l’ho messo. Il mio Mind Palace è completamente in disordine, io non me lo ricordo, ma ti giuro che è così. Te lo giuro.»
«Ehi, ehi, calmo» mormorò, al suo orecchio con tono il più possibile rassicurante, dopo essersi issato in punta di piedi di modo da poterci arrivare. «Ho capito» annuì, poco dopo, stirando un sorriso dolce che tenne premuto contro la sua spalla. L’agitazione, il non saper bene come comportarsi e il rossore che gli divorava gli zigomi… Sherlock era un fanciullo alla prima cotta. Ed era così dolce, che c’era da stupirsi all’idea che quello fosse l’Holmes detestato da tutti per freddezza e insolenza. Se solo lo avessero visto in questo momento. Se solo anche gli altri fossero in grado di vedere la bellezza così come John la vedeva ora, forse Sherlock avrebbe sofferto di meno in tutta la sua vita. Probabilmente sarebbe stato meno solo e appena un poco più felice. Mise da parte quei pensieri, non era il momento adatto per indugiarvi. E soltanto dopo che si fu ripreso, realizzò che era calato uno strano silenzio fra loro. Era di un tipo tensivo, carico di non detto. Si trattava di un non parlare di attesa, inframezzato da ansiti leggeri e respiri pesanti che spezzavano il fiato di Sherlock in malo modo. Lo stesso Holmes che non aveva smesso di torcersi le dita e, al contempo, faceva di tutto per non far battere il proprio cuore troppo velocemente. Come se, ora, in aggiunta al cercare una fuga, provasse a trattenere la vergogna.
«È stato» esordì, con voce flebile e sottile. Irriconoscibile, al punto che pareva impossibile potesse trattarsi della sua. «Come se qualcuno mi avesse preso l’anima e poi me l’avesse squarciata. Mi riferisco a quello che t’ho detto ieri sera, alla cosa della cosa e...» s’interruppe, gesticolando rumorosamente. «Alla cosa dell’amore» disse ora, con voce strozzata. «Non mi sono mai sentito così esposto a qualcuno. Era come se fossi nudo. Mi sono sentito così tanto stupido, John. Che me ne faccio di tanta intelligenza, se poi sono così tanto incapace di esprimermi? Perché questa è la verità, John, sono un incapace e uno stupido e mi sento in questo modo dal primo giorno che ti ho incontrato. Non ho mai provato a dare un senso a questo» disse, agitando le braccia in maniera ancora più plateale. «Sapevo di sentire qualcosa e sapevo anche che per me era la prima volta, ma non ho mai approfondito. Mi dicevo che quando si ha un amico come io lo ero per te, era normale sentire certe cose. Che la gelosia e l’ossessione e che persino certe fantasie sessuali, erano perfettamente normali nei confronti di un amico. Poi è arrivato quel giorno, quello del tuo matrimonio. Quel maledetto giorno!» sbottò, arrabbiato e a quel punto, John si ritrovò a tenerlo a fatica. Inaspettatamente, però, subito si quietò forse rassicurato dalle carezze lente e pigre che gli stava dedicando. Gli sfiorava l’addome e il petto e nel contempo gli baciava la base del collo, scostando i ricci con un soffio leggero. Non avrebbe dovuto lasciarsi andare perché era certo d'essere una distrazione, ma trattenersi era impossibile.
«Do-dovevo fare il discorso al ricevimento ed ero preparato» riprese Sherlock, con una certa fatica nell’articolare quelle semplici parole. «Sapevo cosa dire e mi sentivo pronto, ma c’era un dettaglio che non avevo calcolato. Perché tu, John Watson, tu sei imprevedibile. E meraviglioso. E mi sei piaciuto fin da subito proprio per questo. Tu non sei tipo che fai quello che ci si aspetta, no, tu mi capisci e mi insegui e poi uccidi un tassista pazzo e lo fai a sangue freddo. Avrei dovuto aspettarmi che l’avresti fatto ancora, stupirmi intendo. Al tuo matrimonio sei riuscito nell’impossibile. Già perché l’ho capito allora; sai? Mentre facevo il discorso mi sono reso conto che quello che provavo per te non c’entrava con l’amicizia e che avrei voluto essere al posto di Mary, che avrei voluto essere io quello per cui sorridevi in quel modo. Sono stato così tanto geloso di lei, John, al punto da odiarla con tutto me stesso o da desiderare che morisse e che quel bambino che portava in grembo non esistesse. E sai qual è il paradosso? Che mi piaceva, John. Mi piaceva tanto, anzi, mi piace tanto. Mary è straordinaria e fin da quella sera ho capito perché era piaciuta anche a te. E io non ho mai odiato così tanto qualcuno che amavo, John. Perché io amavo Mary e la odiavo al tempo stesso.» Aveva parlato con foga e passione, come non ricordava di aver mai visto parlare Sherlock Holmes. Uno Sherlock timido, impacciato e balbuziente, troppo nervoso per articolare una frase che fosse sensata. Troppo innamorato perché quello che dicesse avesse un senso. Troppo addolorato perché non si percepisse anche la tensione tra le sue parole, o perché il dramma di quegli oscuri pensieri non arrivassero addosso anche a lui, investendolo di consapevolezza. Questo, dunque, aveva tormentato Sherlock?
«Come puoi amarmi?» riprese Holmes, a voce rotta e spezzata da un groviglio di emozioni di certo incontenibili. «Non si ama una persona che ne desidera un’altra morta. Uno come me, che è tanto geloso di te da diventarne ossessionato. Sono possessivo, John. Ti voglio qui notte e giorno, sempre. Voglio tutto per me. Guarda solo me, John. Sorridi solo a me. Parla solo a me. Io… c’erano volte in cui bramavo una tua attenzione, anche la più piccola. Mi facevo bastare la tua rabbia o il tuo nervosismo. Non importava se ti facevo irritare o se urlavi, mi era sufficiente che mi guardassi o che le tue parole fossero rivolte a me. E quando succedeva, qualcosa mi faceva avvampare. Sentivo così caldo, che mi pareva di star bruciando di febbre. Tutto questo… non può essere un sentimento sano, non può essere normale. Come possono le persone provare tutto questo senza venir schiacciate e oppresse? Come si può vivere, desiderando così tanto di un’altra persona? Per questo sono sicuro di essere io il problema, non sono normale. In effetti non lo sono mai stato.»
«Capita a tutti, Sherlock. Significa essere innamorati» tentò di rassicurarlo in quello che era un sentimento del tutto naturale e comune. Uno di un tipo che nutriva Watson stesso.
«No, che non lo è» sbottò Sherlock, sfuggendo dalla sua presa e scappandogli via, oltre le poltrone, fermandosi soltanto una volta che ebbe raggiunto il camino. «Non sono umano. Non posso esserlo. Non io. Non lo è qualcuno che desidera che un bambino non esista, che spera che una donna abortisca o che perda suo figlio. E io l’ho pensato, John, l’ho sperato. Mi ci sono aggrappato e quando con Mary è finita, io ho gioito ed ero felice anche del tuo dolore. E ora che te lo sto dicendo tu non mi amerai più perché non si può, non si può amare uno come me. Tu non lo puoi fare. Tu sei migliore. Sei…» Le parole gli morirono in gola, strozzate e spente da un tremito leggero a cui seguì un pianto sommesso, ma impossibile da frenare e che sgorgò al pari di un fiume in piena. Quelle lacrime erano vere e sincere, esagerate e così da Holmes, che colpirono John Watson al pari di uno schiaffo. Poteva dire di non averlo mai visto in uno stato simile, fatta eccezione per quella volta terribile, quando si era buttato dal tetto del Saint Barts, ma ora era tutto troppo diverso e troppo intensa era la sua disperazione. Il dramma di un uomo dai mille sacrifici, il cui lato oscuro gli aveva gravato addosso per mesi, al pari d'un peso. Avrebbe dovuto esserlo, ma sentiva di non essere inorridito da quella confessione e non era nemmeno arrabbiato. Era solo intenerito dalla più profonda umanità che avesse mai incontrato in vita sua.
«Quello che hai detto ti rende umano» esordì John, con fare pacato e avvicinandosi a Sherlock in punta di piedi, in modo delicato e silenzioso, come se temesse che gli sfuggisse di nuovo dalle mani. Holmes non disse nulla, ma frenò appena le sue lacrime e sollevò di scatto il viso, stupito.
«Menti!» sbraitò, furioso.
«Non ti azzardare ad accusarmi di dirti bugie, Sherlock, non ci provare» ribatté John, con talmente tanta determinazione, da riuscire a zittirlo con quella sola e terribile occhiata che gli riversò contro. Quasi fosse un pugno. «Così parla l’uomo che si sacrifica? Così, Sherlock? Sei un angelo e non te ne rendi nemmeno conto. Hai fatto così tante cose buone che non riesco nemmeno a concepirle. E ti reputi un mostro? Come osi ritenerti non umano? Come osi? Hai ucciso Magnussen e ora l’ho capito che lo hai fatto per me. Ti sei sporcato la fedina penale, rischiando di finire morto da qualche parte nell’Europa dell’est, e tutto per me. E non crederò nemmeno per un momento, nessuno mi convincerà che tu lo abbia fatto per egoismo. In quei due anni cosa ti hanno fatto, eh? Tu non hai mai voluto dirmelo, ma io lo so. Lo vedo dai tuoi occhi. Sei stato torturato, ferito, picchiato, umiliato. Hai rischiato di morire di fame e sete e, Cristo» sbottò John, battendo con violenza un pugno sul tavolo che fece sussultare un ora più quieto Sherlock. «Cosa vuoi?» urlò il dottore, con rabbia. «Che perdoni i tuoi peccati? Che ti dica che ti assolvo? Non lo farò» negò, con un cenno del capo. «E sai perché? Non posso farlo, perché tu non lo sai quello che mi è passato per la mente negli ultimi anni, Sherlock, non ne hai idea. E se quello che hai sperato tu, ti rende un mostro, allora io lo sono tanto quanto te e forse di più. Perché non lo sai che dopo che sei morto ho desiderato non averti mai incontrato. C’erano giorni in cui ero talmente ubriaco, che mi dicevo che ero contento che fossi morto, così saresti stato fuori dalla mia vita e io avrei finalmente vissuto felicemente senza di te. Poi mi rendevo conto di quello che avevo pensato e stavo male, vomitavo anche l’anima. Ho maledetto tutti. Mike che ci aveva fatti incontrare, te, me stesso... E la notte in cui ho scoperto chi fosse in realtà mia moglie, ho mandato all’inferno anche lei. Sono persino arrivato a desiderare che non fosse incinta, che il figlio non fosse mio e ho sperato di non aver mai più a che fare con lei. Ho maledetto il giorno in cui l’ho sposata. Questo mi rende un mostro? No, Sherlock, non lo credo. Quello di cui sono sicuro è che sia io che te abbiamo pensato certe cose, perché spinti da un dolore immenso. Non sto giustificando nessuno e nemmeno ti chiedo di dimenticare tutto questo e metterlo da parte, non sono un illuso e non penso che l’amore guarisca ogni cosa. Ma dobbiamo provarci, io e te contro il resto del mondo. Noi possiamo tutto, dobbiamo solo stare insieme.»
 
Fu allora che John lo raggiunse. Che gli arrivò vicino, attirandolo di nuovo contro di sé per poi stritolarlo in un abbraccio forte. Inaspettatamente, Sherlock si lasciò andare. John lo baciò e si fece baciare, lo strinse e accarezzò. E in quell’unione stupendamente dolorosa, così, stretti come s’erano trovati e arresi ai reciproci sentimenti, ci rimasero per delle ore. A un certo punto crollarono persino a terra, forse risero, ma di certo si baciarono di nuovo. Lì su quel tappeto si rotolarono a lungo, mentre permettevano al fuoco del camino di cullarli con un leggero tepore. Non si erano detti niente, per ore erano rimasti zitti perché sì, forse, di parole se n’erano scambiate fin troppe. Avrebbero dovuto chiarire certi aspetti e sarebbe occorso tempo, fatica e impegno per sanare le reciproche ferite. Eppure, quella sera, al 221b di Baker Street, il mondo, i problemi, il dolore… avevano rinchiuso tutto al di fuori. C’erano solo loro, in quel soggiorno buio. John e Sherlock, allacciati, abbracciati, illuminati dalle fiamme di camino malizioso. Fuori la penombra di Baker Street, accesa da lampioni dall’aria retrò. I rumori di Londra, la vita degli inglesi. E dentro, loro stesi su un tappeto, immersi in un silenzio irreale. Loro e baci infiniti e carezze lente, delicate, fugaci. In futuro, John ricordò di non aver mai visto uno Sherlock tanto lascivo e abbandonato. Uno Sherlock che, d’un tratto, si era voltato nel suo abbraccio e dopo essersi soffermato per lunghissimi istanti a guardarlo con quei bellissimi occhi, gli aveva rivolto un timido sorriso.
«Prendi me, scegli me, ama me.» John sorrise, lo baciò e poi rise di nuovo. Rise di gioia, felicità, liberazione. La risposta gliela sussurrò in un orecchio e fu immediata quanto semplice.
«Sempre.»
 
 
 

Fine
 
 


Note. La citazione finale è da Grey’s Anatomy mentre quella iniziale, anche se è segnata, è di Jane Austen.
Che vi sia piaciuta o meno, ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui con la lettura. Chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate. E ringrazio ovviamente chi ha lasciato un commento.
   
 
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