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Autore: _Frame_    29/11/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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60. La tua forza e La mia forza

 

 

4 ottobre 1940, Passo del Brennero

 

Il treno rallentò, i freni aderirono ai carrelli che stridettero sulle rotaie sollevando un sonoro fischio acuto. Il sedile di pelle vibrò. Italia alzò di scatto la nuca dal poggiatesta e fece volare lo sguardo fuori dal finestrino, verso la luce dorata filtrata dalle foglie degli alberi. Sfumature arancio, gialle, e ambra danzavano formando globi di luce che andavano a riflettersi sul vetro della cabina. Italia trattenne un’esclamazione di gioia. Il cuore fece una capriola nel petto, battendo forte. Saltò di un posto a sinistra, verso il finestrino. Si impennò sulle ginocchia, le molle del sedile cigolarono, si aggrappò al vetro con entrambe le mani e abbassò il finestrino a metà.

Prima che Italia potesse spingere il naso fuori dalla cabina, una violenta folata di frizzante e speziato vento autunnale gli inebriò i sensi. Uno sciame di foglie secche svolazzò lungo la rotaia, spinto dal passaggio del treno, e si frastagliò come un mosaico che va in frantumi. Le foglie gialle, rosse e marroni aprirono il passaggio come una tenda che si divide e svelarono il panorama montano colorato dalle sfumature del tramonto.

Italia strinse le dita sul finestrino abbassato, spinse il viso fuori sfiorando il vetro con il mento, e il vento gli agitò le ciocche di capelli davanti agli occhi, tra le labbra e sulle orecchie. Il ciuffo arricciato dondolava sulla spalla sinistra.

Un altro fischio delle rotaie accompagnò il moto del treno che rallentò ancora.

Italia chiuse gli occhi, rimase con il viso fuori dal finestrino e si lasciò carezzare dai tiepidi raggi di sole che scintillavano sulle foglie svolazzanti e sulle chiome semispoglie degli alberi. Staccò una mano dal finestrino lasciando cinque impronte di condensa dei polpastrelli, intrecciò le dita ai capelli sventolanti e se li tolse dal viso, tenendoli dietro le orecchie per lasciare liberi il naso e gli occhi. Italia inspirò, si riempì i polmoni del profumo della corteccia, delle foglie secche e bagnate che avevano assorbito l’aroma del suolo, e delle erbe di montagna aggrappate alla corteccia degli alberi.

Una fogliolina gialla bacata in punta gli volò sulla guancia, si ribaltò, e restò incollata alla punta del naso. Italia rise, la prese con due dita per il gambo e la lasciò volare via. Il vento la spinse dentro il finestrino e la foglia piovve tra i capelli di uno degli ufficiali seduti sui sedili di fronte a quello di Italia.

L’ufficiale sollevò gli occhi verso la sua testa. Gli sguardi degli altri due seduti di fianco seguirono il moto della piccola foglia che si era depositata tra i suoi capelli. L’ufficiale storpiò una smorfia di disappunto, tossicchiò due volte, e prese la foglia tra indice e pollice come se si fosse trattato di un viscido lombrico strisciante. Separò i polpastrelli e la lasciò piovere a terra. Uno dei due ufficiali seduti di fianco a lui si girò, chiuse la mano a pugno davanti alle labbra e tossì per nascondere lo sbuffo di risata che gli aveva tinto le guance di rosso.

Un lungo edificio rettangolare a mattoni rossi, in tinta con le foglie, fece ombra alla cabina quando il treno vi passò davanti.

Italia esalò un sospiro di sorpresa e seguì con lo sguardo la lunghezza dell’edificio che si allontanava alla sua destra. Tornò ad aggrapparsi con entrambe le mani al finestrino, sporse le spalle allungandosi sulle ginocchia, e batté le punte dei piedi sulla pelle del sedile. Le mani strette al vetro sotto il suo mento divennero bianche per la pressione. Le guance di Italia sempre più rosse e gli occhi più scintillanti.  

“Siamo arrivati?” Fece rimbalzare un’altra volta le gambe, i piedi saltellarono di impazienza facendo cigolare il sedile di pelle. Italia voltò lo sguardo verso gli ufficiali facendo rientrare il viso nella cabina. Lontani dal vento, i capelli ricaddero sulle guance e dietro le orecchie. “Mhm, lo siamo?” Gli occhi brillarono. La luce ambrata del bosco riflessa dal sole veniva tutta assorbita dalle iridi scintillanti.

L’ufficiale che si era tolto la foglia dalla testa si spazzolò una spallina della divisa, lisciò la giacca, e intrecciò le mani sulle ginocchia. Rivolse lo sguardo a Italia e annuì. “Sì, signore. Siamo appena entrati nella stazione.” Lanciò un’occhiata fuori, e l’ufficiale più vicino al finestrino schiacciò le spalle al sedile per liberargli la visuale.

Le pareti dell’edificio che correva di lato al treno si fecero più nitide, i contorni dei mattoni e le screpolature del tetto più definite. Avevano rallentato ancora. L’ufficiale tornò a spalle dritte e con la nuca abbandonata al poggiatesta. “Non ci vorrà molto.”

Italia sollevò una mano dal finestrino e chiuse il pugno. “Evviva!” Gli occhi raggianti di gioia come il sole che passava tra le foglie.

Tornò a guardare fuori e uscì con tutta la testa all’esterno dalla cabina. I capelli ripresero ad agitarsi gonfiati e sospinti dal vento. Italia posò il fianco della mano sulla fronte, per ripararsi dalla luce bassa e intensa, e guardò alla sua sinistra, verso il capolinea della stazione. Quattro figure in uniforme lo attendevano sulla piattaforma, diventavano più alte e grandi man mano che il treno si avvicinava.

Italia restrinse le palpebre e guardò oltre il fascio di luce gialla che scivolava sopra il tetto dell’edificio, scendeva lungo la piattaforma della stazione e si perdeva tra le rotaie immerse nella ghiaia. Un altro mucchio di foglie secche e bacate sciamò davanti al finestrino e otturò la vista. Le foglie volarono via, gialle e arancio, verdognole verso il gambo, e svelarono le tre figure degli ufficiali in uniforme tedesca che si dicevano qualcosa stando in piedi vicino a Germania.

Uno degli ufficiali, il più basso e con i gradi da tenente, si spinse più in alto, sulle punte dei piedi, e la sua ombra attraversò le rotaie. Retrasse le spalle, sollevò un braccio da dietro la schiena e rivolse la punta dell’indice al treno in arrivo. Disse qualcosa che Italia non udì – lo sbuffo del treno in corsa era troppo forte – e gli altri due risposero annuendo.

Anche Germania tese lo sguardo. Quattro foglie gli volarono sopra le spalle, sfiorandogli le orecchie. Germania si spinse più in avanti, superando la figura dei tre ufficiali, e il suo sguardo lontano si incrociò con quello di Italia. Gli occhi brillarono di un azzurro intenso, luminosi come il cielo in cui splendeva il sole autunnale.

Il cuore di Italia fece un’altra capriola e riprese a battere forte, scaldandogli il petto sul quale ciondolava la croce di ferro tra le pieghe della giacca.

Italia stese il sorriso, trattenne il respiro, e si ritirò dal finestrino. Balzò giù dal sedile, saltò in piedi e oscillò, ondeggiando assieme al treno ancora in corsa. Salì sulle punte dei piedi e allungò le braccia sopra i sedili, nei ripiani dei bagagli. Agguantò la sua borsa e la strattonò due volte prima di riuscire a farla scendere. La sacca cadde ai suoi piedi – tunf! – e Italia la tenne stretta per i manici con entrambe le mani.

Uno degli ufficiali, quello più vicino al finestrino, capì e scoccò un’occhiata di allarme a quello che si era tolto la foglia dai capelli.

Italia forzò i muscoli delle braccia, trattenne il respiro, e si caricò la borsa su una spalla. Il treno rallentò stridendo, accelerò di nuovo, ed emise uno sbuffo. Italia traballò incrociando i piedi e sbatté contro il suo sedile.

L’ufficiale tese un braccio verso di lui. “Ah, la prego di restare seduto fino a che il treno non si fermerà del...”

La corsa di Italia si perse nel corridoio del treno, i fischi dei freni che premevano sulle rotaie coprirono il ruzzolare dei suoi piedi che correvano lungo la carrozza.

L’ufficiale sollevò un sopracciglio, la palpebra traballò come assalita da un tic nervoso. Ritirò il braccio e si passò le dita tra i capelli. Scosse il capo, sbuffò. L’ufficiale vicino al finestrino si accasciò allo schienale e guardò fuori. L’ombra degli alberi che rivestivano la stazione gli scurì gli occhi.

“E meno male che oggi ne abbiamo solo uno.”

Il terzo ufficiale fece roteare gli occhi. Piegò il gomito sul ginocchio e affondò con le nocche nella guancia. Il viso imbronciato rivolto alle gambe accavallate che dondolavano a ritmo dell’andatura del treno.

 

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Il treno rigettò un lungo fischio acuto. Le ruote stridettero, scintille bianche spruzzarono dalle rotaie come fontanelle di lucciole e si spensero, inghiottite dalla ghiaia che ricopriva il binario. Il treno si fermò, sbuffò soffiando fiotti di vapore che galleggiarono come nebbia e risalirono la piattaforma della stazione.

Il piede di Italia scese dal gradino, si immerse nel fumo, la punta dello stivale toccò la piattaforma. Italia fece un balzo e atterrò con entrambi i piedi. I vapori del treno gli arrivavano alle caviglie, volteggiavano attorno alle gambe, caldi e umidi. Italia strinse la cinghia della borsa, premette la sacca sul fianco e sollevò l’altra mano sulla fronte per farsi ombra. La luce del sole che batteva sui finestrini del treno gli abbagliava la vista, si rifletteva scintillando sulla croce di ferro.

Italia guardò a destra, a sinistra, assottigliò le palpebre cercando tra i vapori di fumo che volteggiavano emergendo dalle rotaie.

Il treno fischiò un’altra volta.

Italia si girò, incrociò un passetto traballante sbilanciato dal peso della borsa, e si immerse nella nebbia che aveva ricoperto la stazione.

Lo strato di fumo si dissolse aprendosi come un drappo di stoffa. Gli ufficiali tedeschi erano ancora sulla piattaforma. Uno di loro camminò in mezzo al fumo e si portò davanti a una delle uscite del treno. Il primo degli ufficiali italiani che uscirono dalla carrozza scese dal gradino, immerse i piedi nella nebbia di vapore, e si scambiò un saluto militare con il tedesco. Si dissero qualcosa, ma Italia non sentì.

Gli altri due italiani restarono in cima al gradino e anche loro dissero qualcosa, uno di loro si guardò intorno, a palpebre ristrette, come se stesse cercando qualcuno. Italia saltellò di tre passi verso di loro con la borsa che gli sbatteva sul fianco e contro le gambe a ogni falcata. La croce di ferro dondolava sul petto.

Una figura scura e più alta delle altre emerse dallo strato di vapore. Germania camminò dietro a uno degli ufficiali, volse lo sguardo davanti a sé e il fumo scese dal viso, scoprendogli gli occhi. Si incrociarono con quelli di Italia.

Italia trattenne il respiro, stese il sorriso. Il sole che gli carezzava il viso di lato gli scaldò la guancia. Compì l’ultimo saltello e prese a correre verso Germania.

“Germania!”

Tutti gli ufficiali si voltarono verso di lui. Prima guardarono le sue gambe che correvano lungo la piattaforma del treno, squagliando il vapore sotto i piedi, poi il suo viso sorridente e la mano sventolante sopra la testa. Gli uomini si scambiarono una rapida occhiata perplessa.

Italia lasciò cadere la borsa che atterrò con un tonfo sul cemento. Spalancò le braccia, i piedi formicolanti di impazienza già volavano a un palmo da terra.

“Abbraccio!”

Germania inarcò un sopracciglio, abbassò lo sguardo e fece un passo in avanti. Prima che potesse distendere anche lui le braccia, Italia gli si gettò al collo, sollevando i piedi da terra. Germania si sbilanciò all’indietro per assorbire l’impeto dell’impatto e gli strinse le braccia dietro la schiena per non farlo cadere. Italia si aggrappò alla giacca di Germania, incrociò i gomiti dietro il suo collo e unì la guancia alla sua, stando appiccicato con il mento alla spalla. Strinse la presa, le gambe erano ancora piegate, le ginocchia premute a quelle di Germania e i piedi alti da terra.

Germania lanciò una rapida occhiata imbarazzata agli ufficiali vicini a lui. Gli uomini voltarono gli sguardi e si girarono di profilo. Occhi al cielo, mani strette dietro la schiena.

Germania aggrottò la fronte e divenne rosso in viso. Le labbra mormorarono accostate alla morbida guancia di Italia. “Va bene, va bene.” Gli diede due piccole carezze sulla spalla. “Non ti agitare, adesso.”

Italia rise. Germania sentì il petto vibrare contro il suo e il lieve sospiro di Italia soffiargli vicino all’orecchio.

Italia slacciò le braccia e atterrò con un piccolo saltello.

Il treno sbuffò, rilasciò un altro fiotto di vapore bianco che emerse dalle rotaie, scivolò in mezzo alle gambe di entrambi.

“Hai scelto un posto bellissimo per la riunione!” Italia spalancò le braccia e compì un giro su se stesso. Gli occhi alti tra le foglie secche che svolazzavano sopra le loro teste e il viso illuminato dal sole. Smise di piroettare e strinse i pugnetti al petto. Gli occhi scintillavano. “Qui dev’essere pieno di boschi e di sentieri, e poi c’è un’aria così fresca e pulita. Mi sembra di essere in vacanza!”

Germania scosse lievemente il capo, senza farsi vedere, e si chinò a raccogliere il bagaglio che Italia aveva lasciato cadere a terra. Agguantò la borsa per la cinghia e la infilò nella spalla reggendola con una mano sola.

Scoccò a Italia un’occhiata di rimprovero. “Ricordati che non sei qui in vacanza ma per lavoro.”

Italia continuò a sorridere e fece un saltello verso di lui. “Sì, sì, lo so.” Giunse le mani dietro la schiena e piegò le spalle in avanti, salendo sulle punte dei piedi. “Ma un po’ di tempo libero per stare solo io e te assieme possiamo ancora trovarlo, no?”

Germania irrigidì. Si strinse nelle spalle, chinò la fronte per nascondere il lieve rossore alle guance dagli sguardi degli ufficiali, e spremette il pugno attorno al manico della borsa. “Tra un’ora abbiamo la riunione,” borbottò, “è già tutto preparato. Sollevò la mano libera tenendo gli occhi bassi, e innalzò pollice e indice, come se stesse tenendo il conto. “Poi c’è subito la cena di lavoro.” Sollevò anche il medio e aggrottò un sopracciglio. Una vena seccata gli incrinò lo sguardo. “E poi so già che tu ti addormenterai subito come al tuo solito, dunque direi che rimane...”

“Poco!” Italia saltò davanti a Germania e gli strinse la mano libera tra i due palmi. Chiuse gli occhi, gli sorrise, e piegò il capo di lato. “Vieni, andiamo a fare una passeggiata nel bosco.”

Tirò Germania dietro di sé e con uno slancio tornò a immergersi nei vapori trasudati dalle rotaie. Germania tese il braccio e si lasciò trascinare via, correndo sulla piattaforma, verso il bosco che si espandeva attorno alla stazione.

Gli sguardi degli ufficiali rimasero incollati alle loro figure fino a che non svanirono inghiottite dal fumo, fino a che il suono dei passi battuti sul cemento non divenne quello morbido di una corsa in mezzo alle foglie secche e fruscianti.

Due ufficiali si scambiarono un’occhiata scettica, uno di loro aveva un angolo della bocca storto verso il basso. Un altro fece roteare gli occhi al cielo, giunse le mani dietro la schiena, e si voltò di fianco, dando le spalle agli altri colleghi.

 

.

 

Italia separò le dita, le tese aprendole come un ventaglio, e unì il palmo a quello di Germania. Le falangi si strinsero, le mani aderirono chiudendosi in un unico grande pugno che dondolava tra loro due.

Il tappeto di foglie secche e bacate scricchiolava lievemente sotto i loro passi, un ramoscello schioccò e l’eco fece sollevare il volo di due uccellini che cinguettarono frullando le ali tra le cime degli alberi. Minuscole foglioline, rosse, verdi e ambrate, svolazzavano attorno a loro, sospinte dalla brezza, e creavano piccole spirali che avvolgevano entrambi come in un vortice.

Italia chinò lo sguardo verso la sua mano unita a quella di Germania che dondolava in mezzo a loro. Un raggio di sole che passava tra gli alberi abbagliava le dita intrecciate e le nocche, facendo splendere la pelle di giallo.

Italia sollevò lo sguardo dalla stretta di mano, guardò verso il profilo di Germania. Germania guardava davanti a sé, la luce bassa del sole gli illuminava gli occhi socchiusi, rivolti al cielo dalle sfumature rossastre che si apriva tra i fusti e le fronde degli alberi. Italia sorrise, sentì il petto alleggerirsi e il cuore scaldarsi come l’aria intensa e profumata del bosco.

Mosse le dita tra quelle di Germania, strinse forte la presa, e corse in avanti. “Corriamo!”

Germania tese il braccio davanti a sé per non lasciare la stretta e corse dietro a Italia, senza fare resistenza.

Italia sollevò uno scroscio di foglie secche che guizzavano attorno alle sue gambe come spruzzi d’acqua, come se stesse correndo tra le onde di un mare giallo, arancio e rosso. Avanzò di un passo più alto degli altri e saltò su un muretto di mattoni che gli arrivava alle ginocchia. Salì in punta di piedi, chinò le spalle per non cadere, e incrociò un primo passo insicuro. Il mattone sbriciolato scricchiolò sotto le suole. Italia raddrizzò le spalle, stese le braccia come un equilibrista in bilico sulla fune e sentì la presa di Germania farsi più solida attorno alla sua mano. Lui era rimasto a terra, gli camminava di fianco.

Italia sorrise e saltellò lungo il muretto posando un piede davanti all’altro. Rise e spremette due volte le dita di Germania intrecciate alle sue. “Tienimi!”

I rami degli alberi più bassi gli sfioravano i capelli. Tre foglioline gialle, bordate di un marrone scuro come la corteccia degli alberi, gli piovvero sulle spalle e scivolarono a terra. La calda luce del sole splendeva sul suo viso sorridente, schiariva il colore degli occhi e dei capelli.

Germania sollevò di più il braccio accompagnando la camminata di Italia, e aggrottò un sopracciglio. “Non cadere o ti sporcherai la divisa.”

Italia rise. Accelerò, ignorando il rimprovero, e tese la mano libera verso uno dei rami più bassi che gli sfiorava la fronte con le punte seghettate delle foglioline spioventi. Italia rallentò il passo, stette sulle punte dei piedi e impennò il braccio verso l’alto. I polpastrelli sfiorarono il bordo di tre foglie che nascevano dalla punta sottile e secca del ramoscello. Italia inarcò le dita e ne sollevò una. La carezzò.

“Oh, che peccato...” Una nota di tristezza gli appannò il sorriso. “Stanno cadendo già tutte le foglie,” sospirò.

Germania si fermò al suo fianco e sollevò anche lui lo sguardo. Sbatté piano le palpebre. Nei suoi occhi si riflessero i gesti di Italia che spostava le dita dal profilo sottile e raggrinzito delle foglioline morenti a quello ruvido e duro del ramo dell’albero. Italia strinse le dita attorno alla base del ramoscello, dove si univa al ramo portante. Chiuse le dita e fece un po’ di pressione verso il basso.

“Scusami, alberello. Prendo in prestito questo.”

Il ramoscello schioccò restando chiuso nella presa delicata di Italia. Era spesso quasi quanto una matita.

Germania sollevò un sopracciglio e gli rivolse un’occhiata interrogativa.

Italia rigirò il ramoscello tra le dita. Le foglioline scintillarono sotto il tocco del sole che si riflesse sulla superficie ingiallita e rugosa. Si voltò, allungò un passo e spalancò il braccio libero che Germania non stringeva.

“Prendimi al volo!”

Germania distese le braccia e Italia gli saltò in braccio, restando sospeso con i piedi da terra come quando gli era corso in contro alla stazione. Italia intrecciò le braccia dietro il suo collo, lo fece sbilanciare all’indietro e i visi si sfiorarono. Si tenne stretto. I polsi incrociati, i petti uniti, le gambe sospese. Gli sorrise. Germania aggrottò un sopracciglio arricciando verso il basso un angolo delle labbra. Finse espressione scocciata e l’ombra che era scesa tra i due visi nascose un lieve rossore che si era disteso sulle guance.

Italia sfilò un braccio da dietro la schiena di Germania, sollevò la mano che stringeva il ramoscello. Germania ruotò gli occhi di lato ma non riuscì a vedere i movimenti. Italia gli mise il rametto dietro l’orecchio, sollevò di poco la punta in modo che le tre foglioline sporgenti sfiorassero la fronte di Germania, e gli pettinò i capelli dietro il padiglione, in modo da lasciare il fuscello in vista.

“Ecco,” sfilò le dita dalle ciocche, portandole all’indietro, “così anche le ultime foglie non vanno sprecate,” disse con un sorriso.

Germania gli rivolse un’occhiata perplessa. “Non posso presentarmi alla riunione con un ramo tra i capelli.”

Italia sgranò gli occhi. “Perché no?” Tornò a incrociare le braccia dietro le sue spalle. Si appese con le dita al tessuto della giacca. “Per me saresti carinissimo.”

Germania sospirò. Socchiuse gli occhi e abbassò la fronte. “Su,” sciolse la stretta delle braccia attorno ai fianchi di Italia, “scendi.”

Lo posò a terra e Italia si spazzolò l’uniforme per lisciare la stoffa che si era sgualcita.

Germania camminò davanti a lui, si immerse nella scia di luce gialla che scintillava lungo il tappeto di foglie, fiancheggiando il muretto di mattoni. Si sfilò il ramoscello da dietro l’orecchio, lo rigirò davanti agli occhi e strofinò la fogliolina in punta sfregando delicatamente il bordo seghettato tra i polpastrelli. Il colore della foglia diventava quasi nero attorno al forellino che ne macchiava la fibra ingiallita.

Italia lo seguì a passo trascinato. Le foglie frusciavano seguendo il ritmo lento e impigrito della sua camminata ciondolante. “Uffa, perché dobbiamo andare a fare la riunione? Ne abbiamo fatte già così tante, ormai.” Si trascinò di fianco a Germania, sospirò, e rivolse lo sguardo malinconico al cielo. L’ombra di una foglia svolazzante gli attraversò il viso. “Con una giornata così bella non mi va proprio di stare chiuso dentro.”

Germania abbassò la mano che reggeva il ramoscello e lo infilò nella tasca della giacca. Allargò per bene l’orlo di stoffa per non sciupare o far staccare una delle foglioline.

“È un nostro dovere.” Giunse le mani dietro la schiena e camminò a spalle larghe, sguardo alto. I suoi piedi pestavano a fondo il terreno, sprofondavano tra le foglie. “Tutti contano su di noi, in questo momento. I nostri popoli, i nostri eserciti.” Socchiuse gli occhi e irrigidì la presa dietro la schiena. Le spalle divennero ancora più larghe. “Dobbiamo compiere il nostro dovere senza lamentarci, è per questo che siamo qui.”

Italia sospirò, sconsolato. Gli occhi caddero al suolo. “Sì, lo so.”

Un venticello fresco e che profumava di muschio soffiò tra loro due, agitando le foglie in mezzo ai loro piedi e attorno alle gambe. Germania restò impassibile, senza rallentare il passo. Italia strinse il colletto della giacca, lo schiacciò contro la guancia per tenersi al caldo, e sfregò le mani sulle braccia, dalle spalle ai gomiti. Stava scendendo la sera.

Italia abbassò gli occhi sul terreno. Raccolse un mucchio di foglie con la punta del piede e le fece volare impennando la gamba verso l’alto. Si voltò, rifece il gesto con l’altro piede e piroettò creando un arco di foglie attorno a lui. Tornò fermo, con gli stivali che sfioravano le radici di uno degli alberi, e si voltò a cercare Germania. Aveva continuato a camminare e gli dava la schiena.

Italia tornò a guardarsi i piedi sotterrati dal lenzuolo di foglie morte e umide. L’ombra nel bosco si era scurita, strisciava come una larga macchia scura infilandosi tra le radici, fino a raggiungere le sue gambe. Italia strinse i pugni sui fianchi. Lo stomaco cominciò ad annodarsi, chiuso in un groppo di ansia e timore che gli bruciava la pancia. Prese un lungo respiro tremante, si gonfiò il petto, e fu come riempirsi i polmoni di cemento. Il formicolio allo stomaco aumentò. Era uno sciame impazzito di farfalle che svolazzavano tra le pareti della pancia. Italia trattenne il fiato, non buttò fuori l’aria, annuì a se stesso, e corse verso Germania.

“Ehm, tu credi che...”

Germania si voltò, lo guardò da sopra la spalla senza smettere di camminare.

Italia rallentò, gli si mise di fianco e chinò le spalle. Sguardo fisso tra le foglie sollevate dai suoi piedi, e dita annodate attorno a un lembo della giacca.

Inspirò di nuovo per darsi coraggio. “Che loro siano contenti di quello che io sto facendo?”

Germania alzò un sopracciglio. “Che cosa vuoi dire?” Non rallentò l’andatura.

Italia tenne lo sguardo basso, le spalle gobbe, e si strofinò una mano dietro la nuca. “Intendo, il mio paese. Ogni tanto, ecco, ho come...” Passarono sotto l’ombra di un albero, l’aria si fece più fredda. Al suono dei loro passi che frusciavano tra le radici sepolte dalle foglie, un uccellino volò via, sparendo contro il cielo. Italia sfilò le dita dai capelli e tornò a intrecciarle sul ventre, giocherellando con le unghie. “Ho come l’impressione di non fare abbastanza rispetto a tutto quello che fate tu e Giappone. E forse...” Chinò la fronte. Nascose il viso nell’ombra e il nodo allo stomaco si strinse. “Forse anche i miei soldati pensano questo e smetteranno di avere fiducia in me perché crederanno che io non tengo abbastanza a loro.”

Il vento soffiò dolcemente sul viso di Germania, la sua espressione rigida si ammorbidì, per poi tornare dura e fredda come i suoi occhi. Germania riprese a guardare davanti a sé e sollevò il mento.

“Ci sono momenti in cui nemmeno gli ufficiali di grado più alto sapranno dirti davvero cos’è meglio per il loro paese.” Rivolse a Italia uno sguardo spronante, mentre la luce del sole gli riempiva gli occhi. “Ricorda che sei tu a prendere le decisioni, sei tu ad avere l’ultima parola su tutto, perché è solo ed esclusivamente su di te che gravano le sorti della nazione.”

Italia storse lievemente la bocca e mugugnò quello che era un vagito di affermazione.

Germania inspirò e levò lo sguardo tra gli alberi, nei punti in cui la luce passava tra le foglie e scendeva a schiarirgli il viso. “Non smettere di far capire loro chi comanda,” disse con tono rigido.

Italia tornò a sfregarsi i capelli dietro l’orecchio. “Mi sembra un po’ rude,” mormorò.

Germania annuì. “A volte bisogna esserlo, ma non dimenticare che è per il loro bene.”

“Mhm-mhm.”

Gli occhi di Italia caddero sulle mani di Germania, rigide e salde dietro la schiena in una morsa d’acciaio. Le mani che lo avevano stretto durante la camminata sul muretto di mattoni, che lo avevano afferrato e sostenuto quando gli era saltato tra le braccia e che avevano tenuto delicatamente il ramoscello secco tra i polpastrelli. Mani forti e gentili.

Italia gli corse di nuovo vicino. “E tu credi che...” Rallentò. L’insicurezza e il senso di inadeguatezza gli schiacciarono le spalle. “Tu credi che io stia facendo le scelte giuste?” Italia riprese a giocherellare con le dita. Dita fragili e sottili, bollenti e formicolanti per la paura che friggeva nelle vene.

Germania gli cercò lo sguardo. “Se non lo stessi facendo te lo avrei già fatto capire.”

“Sì, lo so, ma è solo perché io sto facendo le cose che mi dici tu.” Italia guardò di lato. Una folata di vento spazzò uno strato di foglie che si sollevarono come un’onda.

Italia deglutì. La saliva era amara e pesante. “Se io, ecco...” Il nodo allo stomaco gli tolse la voce. “Se io decidessi di fare qualcosa da...” Inspirò. “Da solo...” Ruotò gli occhi verso quelli di Germania senza sollevare la fronte. Piccolo tra le spalle strette. “Tu ti fideresti?

Germania aggrottò la fronte, rallentò il passo. Un germe di dubbio fiorì nel petto, gli pizzicò il cuore facendo sbocciare un sospetto. “Che cosa stai dicendo, Italia?”

Italia tornò ad abbassare gli occhi. Non riusciva a guardarlo in faccia. “È che io, siccome...” Rigirò un lembo della giacca tra le dita e guardò altrove. Inspirò e alzò il tono. Parlò più velocemente, prima di cambiare idea. “Siccome tu mi fai sempre restare a casa durante le battaglie, pensavo che forse è perché tu hai paura che io possa rovinare tutto e...”

“Tu hai paura delle battaglie, Italia.” Germania allungò il passo, gli diede le spalle allontanando lo sguardo. “Correresti un rischio inutile se io ti facessi combattere, adesso.”

Italia spalancò le palpebre, sollevò le sopracciglia, e una luce triste e delusa gli riempì gli occhi avviliti. Corse verso Germania. “Ma io posso cambiare. Io...” Salì sulle punte dei piedi, sfiorò il braccio di Germania e lo supplicò con lo sguardo. “Io posso cambiare e dimostrarti che...”

Germania si fermò. Si voltò verso di lui, e gli occhi lo squadrarono da dentro l’ombra nera che era calata sul viso. “Non è per vederti cambiare che io ho firmato l’alleanza con te, Italia,” sbottò.

Italia sobbalzò. Un tremolio lo scosse lungo la schiena, raggelandogli lo sguardo, il corpo, il respiro.

I rami sopra di loro si scossero, le foglie secche frusciarono e alcune piovvero trascinate dal lieve venticello che profumava di resina e di muschio. Due uccellini fischiettarono, poi tornò il silenzio, interrotto solo da qualche scricchiolio proveniente dalle radici degli alberi.

Italia chinò il capo, la frangia ricadde davanti alla fronte e gli nascose gli occhi. Le spalle gobbe, come schiacciate da un peso, e il ricciolo moscio piovente dietro l’orecchio.

Una fitta strinse il cuore di Germania. Gli appesantì il petto. Germania sospirò e ammorbidì il tono. “Io ho fiducia in te, Italia.”

Italia ruotò gli occhi verso di lui, ma stette immobile.

Germania si voltò di profilo e riprese a camminare. Mani dietro la schiena. “Ho fiducia nel fatto che tu continui a confidare in me e a fidarti dei miei consigli.”

Italia tornò a stringere i pugnetti tremanti. “Io mi fido, lo sai che mi fido di te.” Riprese a camminare anche lui. “Ma se io... sei dovessi decidere di fare...” Inspirò, trattenne l’aria e la rigettò con un soffio. “Qualcosa, tu...” Il passo rallentò. Italia mosse piano le labbra, la voce si affievolì, scavalcata dallo scricchiolare delle foglie. “Tu mi vorresti ancora...” Si perse in un flebile mormorio.

“Italia.”

Si fermarono entrambi.

Germania lo squadrò con aria rigida, di pietra. Una nota di timore gli scosse la voce.

“Stai cercando di dirmi qualcosa?”

Uno di fronte all’altro. L’ombra di Germania si inspessì, il sole dietro di lui calò ancora, arrivandogli ai fianchi, e fece risplendere i contorni del corpo come un’aureola arancio. Il corpicino di Italia chiuso tra le spalle, come infreddolito, sepolto dall’ombra che si stendeva sul suolo del bosco.

Italia si strofinò il braccio. Sollevò la punta del piede e si grattò il cuoio dello stivale con rapidi movimenti nervosi.

“Io...”

Diglielo, diglielo, diglielo, diglielo ora!

Italia strizzò gli occhi, sollevò il mento, stese le braccia sui fianchi e raccolse nel petto ogni briciolo di coraggio che gli fluiva in corpo.

“Germania, io voglio...”

“Signori.”

Italia e Germania si voltarono verso la voce dell’ufficiale che li aveva strappati dalla loro dimensione.

L’uomo fermò il passo tra le foglie secche, riprese fiato dopo la corsa, e chinò il capo. “Perdonatemi, signori, ma mi hanno mandato a chiamarvi.” Sollevò le spalle, si rivolse solo a Germania. “Stiamo per cominciare.”

Germania rilassò la tensione dei muscoli, abbassò le spalle, e annuì. “Arriviamo subito.”

L’ufficiale batté un rapido saluto militare e tornò indietro, a passo rapido tra le foglie del sottobosco.

Germania rivolse lo sguardo all’indietro, scoccò un’occhiata obliqua a Italia da sopra la spalla e abbassò il tono.

“Ne riparliamo dopo.”

Seguì l’ufficiale, immergendosi nella penombra della foresta, di ritorno all’edificio della stazione.

Italia lasciò ciondolare il capo tra le spalle, sconsolato. Restò fermo a osservare le foglioline che scivolavano tra i suoi piedi, mentre l’aria si faceva più buia e fredda attorno a lui, e annuì debolmente.

“Mhm.”

Mosse il primo passo e se ne andò anche lui.

 

.   

 

Le dita di Italia si schiusero, sciolsero la presa dalle cinghie della borsa e le fettucce di cuoio scivolarono dalla mano. La sacca cadde sul pavimento, il tintinnio delle fibbie della chiusura accompagnò il tonfo morbido del bagaglio che si accasciava a terra. Le cinghie ricaddero ai lati della borsa come ali che si chiudono.

Italia levò le braccia al soffitto, piegò un gomito e stirò la spalla, facendo scricchiolare le vertebre irrigidite. Superò la sacca che aveva lasciato cadere e puntò il letto sul fondo della camera. Spalancò le braccia.

“Quanto sono staaanco!”

Si gettò sul materasso, rimbalzò in avanti facendo cigolare le molle e abbracciò il cuscino nella piazza di sinistra, avvolto da un lenzuolo verde muschio in tinta con le coperte e con i ricami dei bordi di pizzo che sfioravano il pavimento. Italia strinse le braccia, il cuscino frusciò sotto la sua presa, e schiacciò la faccia nell’imbottitura esalando un lungo sospiro liberatorio. Il cuscino aveva lo stesso profumo di legno antico che c’era nella sala delle riunioni.

Germania raccolse la maniglia d’ottone e varcò la soglia della camera spingendo in avanti la porta che Italia aveva lasciato socchiusa. La accostò allo stipite e gli occhi gli caddero subito sulla borsa di Italia lasciata in disordine sul pavimento. Una smorfia di disapprovazione gli fece torcere un sopracciglio, una vena irritata gli aggrottò la fronte. Germania lasciò la porta e si chinò a raccogliere la sacca.

Germania sollevò il bagaglio con una mano sola e lo portò ai piedi del letto, sulla sedia poggiata al muro. Lasciò andare le cinghie e volse lo sguardo di fianco. Le ombre si stendevano lunghe e scure lungo il caldo pavimento di legno. L’illuminazione era data solo dalla lampada a cono che brillava sulla scrivania di fianco al letto.

Italia si tenne abbracciato al cuscino e rotolò verso l’altro lato del letto, affondando la nuca e poi il viso contro il secondo cuscino. Le gambe distese non riuscivano a toccare la spalliera sul fondo.

Germania sbiancò. A due piazze?

Italia strofinò la guancia contro l’imbottitura del cuscino che non stringeva tra le braccia. Piegò le labbra in un sorriso, chiuse gli occhi, e fece un respiro basso e profondo, come se dormisse già. La guancia gonfia e arrossata premuta al cuscino, le palpebre rilassate, il viso sereno, e i capelli che ricadevano tra le lenzuola.

Germania tenne lo sguardo imbronciato e allontanò gli occhi. Eppure gli avevo specificato due letti singoli.

Le immagini di tre giorni prima, quando aveva dato accordi a Prussia per informare gli ufficiali della sistemazione, gli riempirono il nero creato dagli occhi chiusi.

“Hai già sistemato la faccenda della camera? A prescindere da chi siamo, se non li avvisiamo che passeremo la notte lì ci manderanno a dormire sul treno.”

“Fatto, fatto.” Prussia sventolava le mani come per scacciare via le sue fastidiose lamentele. Si voltava di profilo, posava le dita sulle labbra per nascondere il sorrisetto appuntito, e ammiccava due volte con le sopracciglia. “Divertitevi!”. Occhi di un rosso diabolico scintillavano, gonfi di malizia.

Germania socchiuse una palpebra che traballò. Storse un sopracciglio. Idiota.

Italia sollevò le gambe e si diede una spinta, rimbalzando sull’altra piazza. Le molle cigolarono, le lenzuola si sgualcirono sotto di lui, un angolo di coperta gli rimase incastrato tra le gambe, e il cuscino assorbì la sua risata.

“Che letto grande, grande!”

Germania fece roteare gli occhi e scosse il capo. Andò verso la scrivania. “Cerca di non rotolarti troppo nella coperta, non sciupare il letto e non saltarci sopra, altrimenti romperai qualche molla.”

Italia rotolò fino all’orlo del letto, piegò le ginocchia, si diede una spinta a pancia insù, e finì con il capo ciondolante verso il pavimento, stando supino. Tenne stretto il cuscino al petto con un braccio, sollevò l’altra mano e batté un saluto sulla fronte.

“Okay, capitano.”

Il ciuffo arricciato traballò oltre la sua spalla, ricadendo verso terra assieme alle punte dei capelli.

Germania si voltò verso la scrivania, gli diede le spalle. Sbottonò la prima chiusura della maglia e allargò il colletto, massaggiando la nuca e le spalle. Le vertebre scricchiolarono e lui restrinse gli occhi per trattenere un lieve gemito. Scostò lo schienale della sedia, indirizzò la luce a cono della lampada verso il centro della scrivania, sui documenti impilati e l’orologio che ticchettava racchiuso nel quadrante tondo e ingiallito come pergamena.

Italia impennò le spalle mettendosi a sedere sul letto, strinse il cuscino al petto, fin sotto la gola, e guardò Germania con aria apprensiva.

“Non vieni a dormire anche tu?”

Germania scosse il capo. “No, c’è ancora molto lavoro da finire e non posso lasciare che si accumuli.” Si sedette, sprofondò con i gomiti sull’orlo della scrivania, spingendo le carte in avanti, e immerse le dita tra i capelli, reggendosi il capo chino. Guardò Italia con la coda dell’occhio. “Ti dà fastidio la luce?”

Italia infilò le dita sotto il primo bottone della giacca e lo tolse dall’asola. Fece di no con la testa. “No. Anzi, è meglio se sta accesa perché faccio sempre fatica ad addormentarmi in un letto che non è il mio, le prime volte.” Sbottonò la giacca, la sfilò, e la lasciò cadere a terra, sopra gli stivali che si era tolto senza slacciarli. Scosse le spalle e mostrò un sorriso a Germania, nascosto nella penombra. “La luce mi tiene compagnia.” Strinse la prima chiusura della camicia e slacciò il primo bottone. Gli occhi bassi, concentrati sul lavoro. Italia emise un piccolo sospiro che gli diede un’aria abbattuta. “Devi lavorare ancora tanto?”

Germania si massaggiò le tempie, alleviando il dolore e la pressione che battevano sulla fronte, e voltò il primo fascicolo timbrato, tutto battuto a macchina tranne le firme sul fondo. “Sì, ci sono tutti i punti della riunione da mettere in ordine e da rielaborare.”

“Non ti affaticare troppo.” Qualcos’altro frusciò e cadde sul pavimento. La camicia. “Hai lavorato così tanto, ultimamente.”

Germania socchiuse gli occhi e annuì. “Va bene, va bene.” Gli rivolse un’ultima rapida occhiata da sopra la spalla. Italia era già avvolto dall’abbraccio delle coperte. “Mettiti a dormire, adesso.”

Italia annuì. Strinse le lenzuola sotto il mento, si infagottò per bene, e simulò un altro saluto militare. “Buonanotte!”

“Buonanotte.”

Le molle cigolarono sotto il saltello di Italia, le coperte sfregate attorno al suo corpicino frusciarono come l’imbottitura del cuscino che assorbì l’ultimo e profondo sospiro che fece prima di mettersi a dormire.

Silenzio.

Solo il tic tac dell’orologio.

Germania distese le dita sulla fronte, ammorbidì la tensione dei nervi, massaggiò le tempie, le palpebre chiuse, e le vene rigonfie con movimenti circolari dei polpastrelli. Respirò piano, lentamente.

Tic, tac, tic, tac, tic...

Germania raddrizzò di nuovo le spalle, riaprì gli occhi, stese una mano di lato in cerca della penna, e qualcosa gli premette sul petto. Abbassò gli occhi, incuriosito, e una delle foglioline sbiadite appese al ramoscello secco che Italia aveva raccolto per lui emerse dalla tasca della sua giacca. Non lo aveva ancora tolto. Germania raccolse il bastoncino tra due dita, lo sfilò piano, per non far cadere le tre foglioline dalle attaccature, e lo espose alla luce della lampada a cono. La fogliolina sulla punta era diventata color beige, l’alone attorno al forellino si era allargato, nero come carbone, bruciato, e le altre due erano smorte, ciondolavano verso il basso come un fiore che è rimasto senz’acqua per un mese intero. Germania rigirò il ramoscello. La sensazione dell’abbraccio che Italia aveva stretto sopra le sue spalle, quando si era aggrappato a lui per infilarglielo tra le ciocche dietro l’orecchio, tornò a scaldargli il petto. Germania posò il rametto in bilico sull’orologio. Una delle foglioline si piegò verso il basso e toccò il vetro del quadrante. Le lancette segnavano le nove e tredici di sera.

Germania agguantò la penna già scapucciata vicino ai fogli dei documenti, piegò i gomiti sul tavolo, che toccarono i fascicoli impilati e sparsi per la scrivania, intrecciò le dita davanti al viso tenendo la penna tra le falangi, e abbassò lo sguardo. Sotto i fascicoli gialli e bianchi, con i timbri blu o neri, le scritte a macchina sottolineate a mano e gli appunti in corsivo, intravide la mappa geografica dell’Europa stesa sul fondo del tavolo.

Cerchi e croci rosse racchiudevano e barravano i quadranti nel Mare del Nord, nello Stretto della Manica, e sulla costa francese. Frecce rosse puntavano l’isola britannica.

Germania restrinse le sopracciglia. Un buio pesto calò sul suo viso, nascondendogli la fronte e gli occhi.

Vecchi dolori tornarono a penetrargli le ossa e i muscoli, a bruciargli la pelle.

La Battaglia di Inghilterra...

Socchiuse gli occhi. Tornò a quei giorni.

Lo spazio nero, senza pareti, senza fondo, senza pavimento. Il tavolo da combattimento fumante che si estendeva tra lui e Inghilterra, il suono tintinnante dei caccia in miniatura che si ribaltavano sul pavimento, che esplodevano creando crateri neri e bollenti nelle suddivisioni della cartina. L’odore di ferro sciolto, di carburante bruciato, di sangue.

Gli occhi fiammeggianti di Inghilterra che lo guardavano dall’altro lato del campo erano come due fari nella notte. Inghilterra risollevava le spalle esauste e ferite, rivoli di sangue grondavano dall’attaccatura dei capelli, rigavano le guance, toccavano gli angoli della bocca, gocciolavano dal mento. Orbite nere e infossate, macchiate dai grani di polvere e dal pulviscolo delle esplosioni, risucchiavano la luce ardente dello sguardo che trafiggeva Germania come una lama. Inghilterra sollevava le braccia tremanti, sangue denso e caldo scivolava dalle ferite aperte e macchiava le miniature che reggeva tra le dita. Incrociava le mani davanti al viso, rivolgeva i musi degli aerei verso l’alto, stringeva la presa, serrava i denti, e spalancava le braccia, facendo volare i suoi caccia nei cieli della battaglia.

Le esplosioni tuonavano attorno a lui, i fumi grigi e neri seppellivano il suo corpo che spariva dietro spessi e gonfi riccioli simili a nebbia.

Un lungo muso rosso spalancava le fauci, la gola risucchiava i fumi e i canini aguzzi addentavano l’aria rimestata dal battito delle ali squamose che racchiudevano il suo corpo magico e scintillante. Il drago nato dalla scia di polvere rossa creata dalle mani di Inghilterra si ingrossava, spalancava la bocca, ruggiva, e si scagliava addosso al troll controllato dai gesti di Norvegia.

Inghilterra rivolgeva lo sguardo ai due animali magici. I suoi occhi sanguinavano già. Inghilterra strizzava le palpebre lasciando uscire spesse lacrime di sangue caldo dalle orbite, ingrossava la voce, e rigettava la sua furia contro Norvegia.

“Svezia e Finlandia sono in bilico tra Germania e Russia. E se doveste essere costretti a lottare tra di voi, un giorno?”

Germania riaprì gli occhi. La luce fioca e calda della lampada brillava su tutte le carte stese sulla scrivania.

Se un giorno io dovessi ritrovarmi a combattere contro Svezia e Finlandia...

Strinse le dita incrociate davanti al viso. Trattenne il fiato, la tensione si accumulò nel petto, all’altezza dello sterno.

Se dovessi far combattere Danimarca e Norvegia contro di loro, sarebbe solo a causa di un mio conflitto con Russia.

Fece roteare la penna tra le dita. Premette la punta del cappuccio su una tempia e si sfregò i capelli. Lo sguardo stropicciato, stanco, e pensoso.

Era a questo che si riferiva Inghilterra?

Il corpo di Norvegia cadeva, flesso all’indietro e spezzato dal morso del drago magico. Danimarca stendeva le braccia, lo acchiappava al volo, e cadeva assieme a lui, stringendoselo al petto. Risollevava lo sguardo. Gli occhi rivolti verso l’altro lato del campo, verso Inghilterra, bruciavano di rabbia e di frustrazione. I polsi stretti dai fili d’acciaio lacrimavano sangue.

Germania abbassò la fronte, scosse il capo.

No, mi rifiuto di credere che Inghilterra potesse già aver intuito una simile ipotesi.

Strinse i pugni contro la testa.

Inghilterra non può averlo già previsto. Lo ha sicuramente detto solo per scuoterli, solo per indebolire le barriere emotive di Norvegia e farlo cedere. Se avesse davvero compreso le mie intenzioni...

Sollevò un sopracciglio di scatto. Sciolse una mano dall’intreccio davanti al viso e posò l’estremità della penna con il cappuccio su uno dei documenti fascicolati. Vi batté sopra tre volte.

Dovrei preoccuparmi di un’eventuale soffiata a Russia?

Tornò a sollevare la penna e la batté di nuovo sulla sua tempia, dove sentiva le vene pulsare per la pressione.

Se Inghilterra gli mettesse la pulce nell’orecchio...

Strinse i denti. Un brivido di frustrazione fece stridere lo smalto.

Il tempo a mia disposizione per dare inizio all’operazione si accorcerebbe drasticamente.

Gli occhi di Russia lo fissavano da dentro la penombra rossiccia che aleggiava nella stanza. Uno sguardo mite e pacifico. Le parole uscivano morbide e calde dalle labbra mosse lentamente, inarcate in quel lieve sorriso da bambino.

“Sai, mia sorella si era presa proprio un bello spavento, pensava sul serio che la tua intenzione fosse quella di aprire un varco attraverso Romania per giungere direttamente a invadere me.”

L’aria rossa e l’intenso odore di vodka e di vecchia pelle svanirono. Tornò la luce gialla della lampada a cono che si rifletteva sui documenti e il lieve profumo di bosco emanato dal ramoscello di foglie secche che giaceva in bilico sull’orologio.

Germania sospirò.

Russia ha già avuto modo di dubitare di me. Se non ha dato retta a coloro che gli sono più vicini, non vedo perché dovrebbe farlo con Inghilterra che è un suo nemico come un altro.

Voltò la pagina di uno dei fascicoli. I documenti dello spostamento dell’esercito in territorio romeno.

Restrinse una palpebra. Un lieve tic la fece traballare.

Anche se...

La camminata di Lituania lo precedeva nel lungo corridoio dorato del Cremlino. Le spalle dritte, le mani unite dietro la schiena, e lo sguardo alto, diffidente, nascosto dai capelli che ricadevano sul viso ondeggiando sulle spalle.

Lituania.

Lituania tornava a guardare davanti a sé, come se un pizzico di timore lo avesse morso alla base del collo. Accelerò l’andatura.

“Non è mia competenza intromettermi in questo, signore. Sono affari politici che riguardano solo lei e il signor Russia, non spetta a me giudicare.”

Germania tornò a chiudere gli occhi, strinse le tempie tra pollice e medio e scosse la testa.

No, Lituania non ha alcun potere nei confronti di Russia. Non potrebbe mai dirgli niente, e poi non ne avrebbe nemmeno il coraggio.

Distese un paio di fascicoli, voltò pagina, scoprì il punto della cartina geografica in cui si estendeva il territorio sovietico.

Non devo temere Lituania, e nemmeno Inghilterra. L’unico di cui mi è concesso avere paura...

Chiuse il pugno su uno dei fogli. Le vene pulsarono in rilievo sulla pelle.

È Russia.

La presa gelata di Russia tornò a fasciargli il polso come una manetta di ghiaccio. I brividi salirono, paralizzarono il flusso del sangue, intorpidirono la pelle fino ad arrivare alla spalla. Nel buio, Germania rivide gli occhi grandi e tristi di Russia che cercavano i suoi.

“Io voglio crederti, Germania.” La mano ghiacciata stringeva. La presenza buia e fredda come un vento siderale lo avvolgeva in un vortice di cristalli di neve. Il fiato di Russia gli bisbigliava dietro l’orecchio.“Ma tu muovi anche solo un’unghia in maniera sbagliata nei miei confronti e giuro che te ne pentirai per tutta la vita.”

Germania soppresse il brivido di freddo e di paura, e tornò ad aprire gli occhi.

La minaccia tornò a colpirlo come una martellata dietro la testa. Lo stordì.

Germania scosse il capo. Passò entrambe le mani sulla pelle del viso, le dita scivolarono tra i capelli, tirarono le ciocche all’indietro lasciando la fronte scoperta, e si massaggiò le palpebre, premendo forte sugli occhi, sulle tempie. Tenne una mano davanti al viso e sospirò contro il palmo.

Cosa devo fare? Se dovesse far del male a Italia, io...

Un piccolo e dolce mugugno soffocato dalle lenzuola gli fece voltare la vista di scatto, strappandolo dai suoi pensieri.

Italia si rigirò tra le coperte che gli arrivavano fin dietro la nuca. Il capo completamente immerso tra le pieghe imbottite del cuscino. Sospirò a lungo, le lenzuola si alzarono seguendo il movimento del suo busto che si gonfiava, e tornarono ad accasciarsi su di lui. Un braccio si mosse sotto le coperte. Scivolò fuori dall’orlo ricamato e ciondolò a terra, le dita sfiorarono la camicia e la giacca che aveva gettato in disordine sopra gli stivali. Italia riprese a dormire. Il respiro lento e regolare, scandito dal ticchettio dell’orologio.

Germania tornò con lo sguardo sulla scrivania. Gli occhi caddero sul ramoscello secco inclinato contro l’orologio e Germania provò una fitta allo stomaco.

Scosse il capo.

No, non ho nulla da temere. Non c’è motivo di credere che Russia possa far del male a Italia.

Rimase in silenzio. Gli occhi sul rametto, sulle foglioline gialle e sciupate che cadevano verso il basso, e l’udito teso, in ascolto del respiro assonnato e regolare di Italia.

Strinse i pugni sul tavolo. Il sangue bruciò, ribollì di determinazione.

Finché lui rimarrà al sicuro, dietro di me, non ci sarà nulla che potrà ferirlo.

Riprese fiato, refrigerò i nervi che erano saliti a friggere a fior di pelle, e girò un intero fascicolo rigido, passando a quello successivo. ‘DIRETTIVA 21’ si leggeva a caratteri stampatelli sulla copertina color ocra. Germania infilò le dita tra i fogli e aprì le due ali del fascicolo.

Ora che so che nessuno sospetta di nulla riguardo il futuro attacco verso Russia, devo cominciare a organizzare e a distribuire tutte le carte a mia disposizione al meglio che posso.

Spalancò il documento. Pagine battute a macchina tenute insieme da graffette in acciaio e marchiate in basso dalla sua firma comparirono sotto l’abbaglio della lampada. Germania incrociò di nuovo le dita davanti alle labbra. Restrinse le palpebre, gli occhi brillarono come due scie di ghiaccio in mezzo al nero che gli mascherava lo sguardo.

Sarà l’operazione più delicata e complessa che io mi sia mai trovato ad affrontare. Non devo lasciarmi sfuggire assolutamente nulla.

Sfilò due fogli, li stese e li espose sotto il cerchio di luce che splendeva sulla scrivania.

Giappone è al sicuro, rimuginò. Una volta fornitogli le istruzioni necessarie, sono scuro che farà un ottimo lavoro e porterà a termine tutti i suoi doveri. Quando neutralizzerò Russia dalla parte est, potrò procedere con l’attacco da ovest, e Giappone sarebbe comunque protetto dal futuro trattato tra loro due.

Tornò a posare i fogli. Li lisciò e li rimise sotto la morsa della graffetta.

Quando avrò sterminato Russia, sarà solo questione di entrare nel suo territorio da entrambe le parti, occuparlo nella sua interezza, compresi i paesi ausiliari, e ricongiungere est e ovest.

Raccolse i fogli, li sollevò battendoli sul legno della scrivania e pareggiò gli orli. Li tenne sollevati e lanciò un’occhiata ai fascicoli sottostanti.

Ora devo solo assicurarmi che ogni territorio in mio possesso sia disposto a tutto per me e che non si tiri indietro nel caso io abbia bisogno di un maggior numero di pedine.

Volse lo sguardo di lato. I territori balcanici erano colorati di giallo sulla cartina, in contrasto al rosso usato per le Potenze dell’Asse. Germania ne inquadrò due.

Romania e Bulgaria.

Posò i fogli, piegò il gomito sul tavolo, e si prese il mento tra le dita. Corrugò le sopracciglia, stropicciò la fronte.

Sono più difficili da trattare di quanto mi aspettassi.

Gli occhi furenti di Romania trafissero il buio. I pugni tremanti stretti sul tavolo, i canini che brillavano tra le labbra piegate in una smorfia di rabbia che gli stropicciava la pelle agli angoli delle palpebre.

“È ovvio che non posso fare niente per impedire che tu sposti le tue armate su di me. Ma potrei sempre rifiutarmi di combattere al tuo fianco.”

“Io ho provato a parlare con Bulgaria,” disse il ricordo di Italia, durante la riunione a Vienna, “ma quando gli ho chiesto se voleva entrare nell’Asse lui mi ha preso a bastonate in testa.”

Germania spinse le dita contro la fronte, poggiò tutto il peso sul gomito che premeva sul tavolo. La mano chiusa a pugno strinse sul corpo della penna. Il metallo scricchiolò sotto la sua morsa di ferro.

Perché devono ostinarsi a fare i difficili?

Germania digrignò i denti. Gli occhi nascosti dietro la mano.

Cosa li spinge a ribellarsi? Ormai il loro potere è pressoché nullo, non cambierebbe niente anche se tentassero una ribellione. Senza contare il fatto che non ne avrebbero nemmeno i mezzi, né per intraprenderla né per mantenerla.

Tolse i fascicoli, scoprì la cartina e inquadrò Romania e Bulgaria, sotto Ucraina. Il piccolo territorio di Moldavia schiacciato tra di loro, e l’intera Russia che occupava tutta la parte sinistra della mappa.

Germania reclinò leggermente il capo e si resse la fronte. Gli occhi stanchi, rossi di sonno, bordati di nero, corsero lungo la cartina.

Però, se loro due dovessero in qualche modo ostacolare il corso delle operazioni, sarebbe un vero problema.

Schiuse la presa dalla penna. Le dita irrigidite scricchiolarono.

Se dovessero costringermi a usare le maniere forti, non potrei permettermi di risparmiarmi.

Un formicolio bruciante gli pizzicò i palmi, corse sotto la pelle costringendolo a muovere le dita per sopprimerlo.

Germania scosse il capo, si massaggiò gli occhi, fece correre le mani tra i capelli e rimase con il viso tra le dita. Socchiuse le palpebre, sbirciò tra gli spazi delle falangi.

Il mio vantaggio aumenterebbe considerevolmente se mi appropriassi di tutti i paesi in Europa che stanno mantenendo la neutralità...

Chiuse il fascicolo nominato ‘DIRETTIVA 21’, liberò la parte destra della mappa, e il fascio di luce brillò sulla zona dell’Oceano Atlantico.

Convincerli a passare dalla mia parte prima di Inghilterra e...

Il rigonfiamento nella parte ovest d’Europa gli bloccò i pensieri. La mano si fermò reggendo il foglio del fascicolo, la penombra sollevata dall’ala di carta davanti al cono di luce si stese, passò di fianco alla nazione che si affacciava sull’oceano.

Germania sbarrò gli occhi. Trattenne il fiato, lesse il suo nome.

Spagna.

Le lettere maiuscole che componevano la scritta gli riempirono la vista, divennero una macchia nera su cui si proiettarono i ricordi passati.

Il passaggio nelle Ardenne, Spagna avvolto dall’uniforme francese che teneva stretto Romano al petto, con un braccio cinto attorno alle sue spalle. La mano sinistra alzata per bloccare l’avanzata dei carri e quella destra che impugnava la pistola puntata alla tempia di Romano, proprio sopra l’orecchio. L’occhiata d’intesa tra Germania e Spagna, la camminata lenta e trascinata di Romano verso la parte opposta del campo, il suo sguardo d’odio che aveva raggelato l’aria del bosco, le pupille in fiamme che lo avevano trafitto, e i pugni serrati che tremavano sui fianchi. L’ultimo, rapido sguardo scambiato con Spagna mentre lo portavano via, e le sue labbra che si muovevano lentamente, sussurrando un unico sincero ‘Grazie’.

Germania avvicinò una nocca alle labbra, rivolse il cono della lampada verso sinistra, mise in luce la regione spagnola, e tamburellò la penna sui documenti, sollevando un suono ovattato.

Potrei sfruttarlo in qualche maniera?

Abbassò la mano che reggeva la penna e batté più volte l’indice su uno dei fascicoli. Gli occhi pensosi fissi sulla scritta ‘SPAGNA’.

La posizione neutrale di Spagna è scomoda sia per lui che per me.

Lo sguardo volò verso est.

Comunque, sarebbe inutile e rischioso sfruttarlo per la campagna di Russia. D’altro canto...

Germania riportò gli occhi a nord dell’Europa. Frecce, croci e cerchi tracciati a mano circondavano l’isola britannica. Spostò la cima arrotondata della penna e tracciò una linea invisibile da Spagna a Inghilterra, attraverso il mare. Schiacciò il peso della penna su Londra, piegando la carta sotto la pressione della punta.

Spagna rimane pur sempre uno dei nemici storici di Inghilterra, esattamente come Francia. Sfruttando le sue conoscenze riguardo le sue strategie belliche e facendomi aiutare dalla sua esperienza, potrei...

Di nuovo catapultato nelle Ardenne. Lo sguardo glaciale rivolto a Spagna, quasi incredulo. Un unico insistente pensiero che gli martellava nella testa, pulsando di rabbia. Perché lo aveva fatto?

Germania sollevò la penna da Inghilterra. Abbassò lo sguardo, percorse l’Europa con gli occhi. Olanda, Belgio, Francia, Svizzera. Scavalcò le Alpi, e arrivò alla penisola.

Oppure...

Il corpicino che Spagna si teneva stretto, che tremava di paura e che si aggrappava al suo braccio per non crollare a terra. Lo sguardo che non lo lasciava andare nemmeno quando i soldati lo avevano portato via.

Romano.

Germania sollevò le spalle, le spinse sullo schienale della sedia. Lo sguardo alto che racchiudeva l’intero panorama europeo raffigurato sulla mappa.

Ormai Spagna e Inghilterra non hanno più niente a che vedere tra di loro. Non devo pensare al passato ma al presente.

Strinse un pugno.

Ed è Romano l’unico vero punto debole di Spagna. Se devo insistere su un tasto dolente, è solo su Romano che devo premere.

L’orologio scandiva i secondi. Il tic tac andava avanti, riempiva la mente di Germania battendo come un martello di ferro. La testa piena di un vortice nero che annebbiava i pensieri, le tempie pulsanti, la fronte pesante, un fischio continuo nell’orecchio.

Utilizzare Romano...

Germania si prese il capo tra i palmi e chinò la fronte. Si spremette le tempie fino a sentire il battito delle vene pulsare tra le dita.

Il senso di vergogna gli schiacciò le spalle.

Aaah, che sto dicendo? Se sfruttassi Romano solo per guadagnarmi la sottomissione di Spagna...

Socchiuse gli occhi, guardò attraverso gli spazi delle dita. Il ramoscello posato sull’orologio era ancora lì. Le foglioline ammosciate e raggrinzite si stavano seccando come il legno, pallide e smorte.

Una fitta al petto gli tolse il fiato.

No, non posso farlo, a Italia si spezzerebbe il cuore se sapesse che sto utilizzando la presenza di suo fratello per...

Si offuscò la vista. Macchie nere dai bordi sfocati si aprirono davanti agli occhi come fiori che sbocciano e roteano agitando i petali di polvere cinerea. Germania sbatté le palpebre. Bruciavano come se qualcuno ci avesse soffiato sopra un pugno di sabbia. Chiuse gli occhi, li sbatté due volte, li riaprì. Le palpebre nere, deboli e pesanti.

Per...

Buio.

Solo un’infinita distesa nera senza fondo, come quando aveva combattuto nello spazio vuoto contro Inghilterra.

Germania sollevò le mani davanti al viso. I palmi aperti, pallidi e callosi, e le linee infossate nella carne, più scure e rosse. Rigirò le mani. Le alzò e si vide anche le braccia. Dietro di lui, solo il nero pece.

Ma dove...

Germania abbassò le mani.

Contro la parete nera, si srotolò una cartina geografica che riempì l’intera vista. Germania si avvicinò, restrinse le palpebre, mise a fuoco i confini colorati, le scritte vicino ai cerchietti che fiancheggiavano fiumi e monti. Si riconobbe ancora prima di leggere la parola ‘Berlino’ in alto a destra, evidenziata in rosso.

Germania si fermò. Sollevò le dita e toccò l’insegna della sua capitale.

Perché sto vedendo questo?

Fece scendere il tocco, con una soffice carezza percorse il confine, toccò la frontiera polacca, quella cecoslovacca, quella austriaca, quella svizzera. Risalì Francia, Belgio, Olanda, e si fermò. Strinse il pugno.

Che cosa significa...

La carta scottò. Gli bruciò le nocche, le dita, facendo arrivare il dolore fino alle ossa, come una scossa.

Germania staccò il pugno dalla mappa e arretrò, soffocando un gemito di dolore.

Le nocche divennero viola, la pelle screpolata lasciava vedere la carne bianca, lucida, che trasudava minuscole goccioline di sangue.

Germania tornò con gli occhi alla cartina, e un nodo di fiato gli strinse la gola, lasciandolo senza respiro.

La mappa del suo paese brillava. Brillava di rosso, di bianco, di arancio, come se fosse stata stesa davanti a un incendio. I confini tedeschi si fecero più scuri. La carta annerì tutta attorno al paese, seguendo la frontiera, e gli aloni color carbone si espansero, raggrinzendo e trasformandosi in cenere. Fiamme basse e oscillanti sostituirono i confini. Il fuoco circondò la nazione, bruciò la carta, e avanzò verso il centro del paese.

Profonde scariche di dolore morsero i piedi, le mani, le gambe e le braccia di Germania. Lo stritolarono, bruciandogli la pelle come se si fosse trovato su un tappeto di braci roventi.

Germania aprì la bocca per urlare, ma non uscì fiato. Aveva la gola bloccata, il corpo paralizzato, tremante di dolore, che sudava freddo.

Le fiamme divorarono la nazione tedesca e si chiusero a cerchio attorno a Berlino. Si fermarono. Ondeggiarono attorno all’insegna in grassetto rosso della capitale, e si chiusero come i petali di un fiore. Il fuoco inghiottì Berlino.

Il dolore divorò il cuore di Germania. Una fitta violenta e affilata gli trafisse il petto, da parte a parte, dividendo il cuore in due.

Germania schiacciò le mani al petto, raccolse il dolore tra le dita serrate, e si sentì svenire.

Il fumo trasudato dalla mappa in fiamme gli annebbiò la vista. Una nebbia nera lo avvolse, gli bruciò sulle palpebre, gli riempì il naso, e Germania perse i sensi.

Spalancò gli occhi di colpo. Le palpebre bruciavano ancora, rosse e cerchiate di nero, infossate per la stanchezza.

Germania aveva le braccia incrociate sopra i documenti e la mappa, le spalle piegate in avanti, il capo abbassato che sfiorava i polsi intrecciati, e la frangia scompigliata che ricadeva davanti agli occhi. Sbatté le palpebre più volte. Sollevò un pugno e si stropicciò la vista. Le macchie nere sbiadirono, tornò la luce tenue e calda della lampada, il suono lento e regolare dell’orologio. Calma. Germania sbatté di nuovo gli occhi, tirò indietro le braccia incrociate e squadrò i documenti sparpagliati.

Il suo paese era intero. I confini intatti, chiari e delineati sotto la luce della lampada. Germania batté i polpastrelli sulla cartina e li staccò subito. Fredda. Li batté di nuovo, più piano. Le dita rimasero sulla carta, senza scottare. Niente fuoco, niente fiamme. Strinse il pugno e lo gettò sotto il cono di luce. Le nocche erano bianche, la pelle intatta, senza piaghe lacrimanti. Niente dolore. Il braccio tremava, però.

Germania si accasciò sulla sedia liberando un sospiro di sollievo. Si prese il viso in un palmo e si massaggiò la pelle tesa e sciupata.

Un... sogno?

Buttò l’occhio sull’orologio. L’una e diciassette di notte.

Forse dovrei davvero mettermi a letto anch’io.

Guardò la cartina per l’ultima volta. I confini, i fascicoli con i resoconti delle battaglie passate e dei piani d’invasione futuri. Chiuse gli occhi.

Basta per oggi.

Allungò il braccio, agguantò la cordicella della lampada tra le dita e la tirò verso il basso. Clic. La luce bianca della luna che entrava dalla finestra sostituì quella calda e gialla della lampadina artificiale.

Germana sentì gli occhi farsi più leggeri, abituandosi al buio, e la tensione sulle ossa e sui muscoli allentare il peso che gravava sulla schiena. Si alzò. Le gambe tremavano.

Il fascio di luce che entrava nello spazio di finestra lasciato aperto dalle tende tirate in disparte si allungava lungo il letto, creava profonde ombre attorno ai rigonfiamenti e alle pieghe delle lenzuola avvolte attorno al corpicino di Italia. La sua schiena si alzava e si abbassava deformando, stendendo e ritirando le ombre che si incavavano tra le lenzuola. Il braccio nudo, latteo sotto il riverbero argento della luna, pendeva ancora verso il pavimento.

Germania gli si avvicinò. Gli prese delicatamente il polso, sollevò le coperte, e gli mise il braccio sotto le lenzuola. Tirò la coperta fin dietro la nuca e lo infagottò sistemandogli il panno di stoffa bordato di verde sopra le spalle che si alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro. Le dita sfiorarono i capelli di Italia, le ciocche erano distese sulla forma ricurva e infossata del cuscino, e indugiarono prima di separarsi dal tocco.

Germania sfilò i polpastrelli dai capelli, gli carezzò il padiglione dell’orecchio, e girò attorno al letto, passando davanti alla finestra spalancata. La sua sagoma scura, gobba e dal passo trascinato, coprì la luce della luna.

Si sfilò solo le scarpe, senza slacciarle, lasciandole ai piedi del letto. Si sdraiò sopra le coperte, supino, sprofondò con la nuca nelle pieghe del cuscino, e incrociò le braccia davanti al viso. Buio. I muscoli si rilassarono adagiandosi sul morbido delle coperte e un piacevole formicolio gli attraversò la schiena, sciogliendo i nervi tesi delle spalle e del collo. Il materasso si era abbassato sotto il suo peso, le molle avevano cigolato lievemente, interrompendo il silenzio scandito solo dal pesante respiro di Italia.

Germania sfilò le braccia da davanti gli occhi. Sbatté le palpebre e fissò il soffitto. Gli occhi sempre più deboli e offuscati.

Che cosa devo fare?

Reclinò il capo all’indietro, sentendo il cuscino frusciare dietro le sue orecchie.

So che decidere di invadere Russia è una mossa pericolosa, ma se non rischiassi...

Strinse un pugno, se lo batté piano sulla fronte, aggrottando le sopracciglia.

Se non rischiassi fino in fondo, allora tutto quello che ho fatto fino ad adesso sarebbe stato inutile. Se si trattasse solo di me, non ci penserei due volte a gettarmi nella battaglia.

Un brivido gli fece tremare il braccio e il cuore.

Ma come faccio...

Ruotò gli occhi alla sua destra.

Il viso di Italia schiacciato contro il cuscino era gonfio di sonno, dalle labbra socchiuse usciva un lieve e dolce sospiro che scuoteva un filo di capelli cadente davanti alla bocca. Italia strinse le palpebre, si mosse nel sonno e piegò i gomiti vicino al petto, stringendo i pugnetti vicino al viso addormentato. Un angolo di coperta tenuto fra le dita.

Come faccio a intraprendere delle strade così pericolose senza rischiare che anche lui finisca coinvolto?

Germania si voltò di fianco, piegò il braccio e poggiò il capo dentro l’incavo del gomito steso sul cuscino. Gli occhi bassi, socchiusi. Solo due fili di azzurro illuminati dai raggi lunari.

Io non potrò proteggerlo per sempre.

Strinse le dita sull’imbottitura del cuscino.

Dovrà arrivare il giorno in cui anche lui dovrà sapersi difendere da solo. Però...

Il materasso dietro di lui si mosse, le molle emisero un debole cigolio, le coperte frusciarono, e il peso di Italia premette contro la sua schiena. Italia chinò la fronte, la poggiò dietro la nuca di Germania, e richiamò le gambe verso la pancia, le mani strette al petto. Il fiato lento e caldo gli carezzava il collo.

Germania storse un sopracciglio. “Sei sveglio?”

Italia ridacchiò, accoccolato contro la sua schiena. Fece vibrare Germania assieme alla sua risata. “Nooo.” Strinse le labbra e trattenne un risolino squillante.

Germania fece roteare gli occhi. Si spinse verso l’orlo del letto, staccandosi dal tocco di Italia e dal calore del suo respiro, e si rannicchiò stringendo il cuscino tra il braccio l’orecchio.

“Rimettiti a dormire,” brontolò.

Italia saltellò di nuovo contro la sua schiena. “Mi è passato il sonno.”

“Fattelo tornare.”

“Se parliamo un po’ magari mi torna.”

Germania schiacciò il viso contro il cuscino, ne assorbì il profumo in un lungo sospiro, e rilassò i muscoli. Sollevò una mano e la schiacciò contro il viso. La voce tornò debole e stanca, assorbita dal palmo. “Dormi, Italia.”

Per una volta in cui sono io a costringerlo a dormire!

Il respiro di Italia divenne più lento e silenzioso, la risata squillante svanì, come risucchiata dalla stoffa del cuscino. La camera era tranquilla, il silenzio interrotto solo dallo scricchiolare del legno della finestra e dal cigolio lieve e sottile delle molle del materasso che si muovevano sotto il loro peso. Italia strisciò contro la schiena di Germania, premette le ginocchia contro il suo fianco, avvicinò le mani al petto toccandogli la schiena con le braccia. Sollevò il mento, fece strisciare la guancia contro il cuscino, e Germania sentì il suo respiro soffiargli di nuovo sopra la spalla. La voce calma e lenta sussurrargli dietro l’orecchio.

“Hai... hai presente quello che prima stavamo dicendo nel bosco, prima della riunione? Quella cosa che...” Italia si accoccolò, facendosi piccolo dietro di lui. Un breve tremito gli scosse la voce. “Che io stavo cercando di spiegarti?”

Germania sollevò il viso dal cuscino. Guardò fuori dalla finestra, attratto dalla luce della luna, senza voltarsi. Sospirò. “Che cosa c’è, Italia?”

Italia premette la fronte contro la sua scapola. Il corpo avvolto dalle coperte si raggomitolò contro il suo fianco, le ginocchia piegate premettero contro la schiena. Quando parlò, Germania sentì le vibrazioni della sua voce tremolare dietro il suo orecchio. “Germania. Tu...” Italia prese un profondo respiro, come per darsi coraggio. “Tu ti fidi di me?”

Germania storse un sopracciglio. Irrigidì, ma non si voltò. “Che cosa stai dicendo?”

Italia socchiuse gli occhi. Le ciglia che sbattevano fecero il solletico dietro il collo di Germania. “Quando a giugno ho deciso di entrare in guerra senza il tuo permesso, so che all’inizio ti eri arrabbiato. Lo hai fatto perché...” Italia strisciò ancora di più contro il suo fianco. Una vena triste fece ondeggiare il tono di voce. “Perché non ti fidavi di me? Perché avevi paura che potessi rovinare tutto?”

Germania chiuse gli occhi, rintanò metà del viso contro il cuscino, e scosse il capo. “Non è così semplice, Italia.” Si spinse di più verso l’orlo del letto, immergendosi sotto la parte più larga del fascio di luce argentea. Strinse il braccio contro il cuscino, vi premette la guancia sopra e aggrottò la fronte. Indurì il tono di voce. “Certo che mi ero arrabbiato, quando hai deciso di fare di testa tua e di entrare in guerra senza mettermi al corrente. Avevi fatto un’azione sconsiderata senza pensare adeguatamente prima di agire.” Strinse le dita sul cuscino. “Non ti rendi nemmeno conto del pericolo che stai correndo.”

“Ma forse... forse adesso l’ho capito.” Italia tornò a schiacciarsi contro di lui. La voce alta, squillante e decisa dietro l’orecchio. “Io ho capito che devo stare attento e ora...” Trattenne il fiato, raccolse il coraggio nel petto. “Ora forse posso davvero provarti che anche io...”

“Tu non devi dimostrare niente a me, Italia.”

“Ma se io...” Italia sfilò le mani da sotto le coperte. Sollevò le braccia, toccò la spalla di Germania e strinse le dita sulla stoffa della maglia. Si tenne aggrappato, facendosi più vicino. “Germania, è da prima che cerco di dirti una cosa e...”

Germania ruotò la coda dell’occhio, sbirciando da sopra la spalla.

Italia teneva la fronte china, il capo tra le spalle, il corpicino piccolo inghiottito dalle coperte, e l’ombra della notte che gli nascondeva lo sguardo.

Le dita stinsero, il viso di Italia si avvicinò e la voce divenne un flebile sospiro.

“Se io dovessi...” Inspirò. Le mani serrarono una stretta forte e solida. “Se io dovessi prendere una decisione. Una decisione davvero importante, tu...”

 Un brivido di allarme corse lungo la schiena di Germania, penetrò la spina dorsale risalendo fino al collo dove la mano di Italia gli stringeva la maglia. Si alzò di scatto, mettendosi seduto sul letto, e la sua ombra si stese lungo il materasso.

“Cosa stai cercando di dirmi?” esclamò.

La luce della luna si aprì come un’aura attorno a Germania, disegnò il contorno del corpo tracciando un bordo argento attorno al suo profilo lasciando nel buio lo sguardo e le pieghe del viso contratto in un’espressione severa e accusatoria. Italia si rannicchiò dentro la sua ombra. Si mise a sedere anche lui, a spalle basse, sguardo chino, e la coperta scivolò sul grembo, lasciando scoperto il busto avvolto solo da una maglia sottile con le maniche che arrivavano poco più sotto le spalle. Gli occhi di Italia caddero nell’ombra. La sua voce era un sospiro più silenzioso della notte.

“Posso chiederti una cosa?”

Germania inarcò un sopracciglio. Incrinò l’espressione rigida e fredda come un blocco di marmo.

Italia voltò il capo di lato, si strofinò la mano lungo il braccio nudo e si chiuse nelle spalle. Piccolo e fragile dentro l’ombra nera di Germania. “Perché mi hai scelto di nuovo?” Le labbra tremarono. “Perché hai deciso di allearti con me? Perché...” Trattenne il respiro, si morse un angolo della bocca e la voce uscì come un lamento stridulo. “Perché ci sono anche io nell’Asse?”

L’espressione rigida di Germania cedette. Germania sollevò le sopracciglia, impietosito, e la luce della luna si stese lungo il viso, schiarendogli la pelle e il colore degli occhi.

Italia scosse il capo. “Io non sono forte come te e Giappone. Non so combattere, mi faccio sempre sconfiggere, ho paura delle armi, dei nemici e di quello che mi potrebbero fare se perdessi. Tu e Giappone invece siete così coraggiosi, non avete paura di niente.” Sollevò la fronte, la frangia fluì dagli occhi, si spostò ai lati del viso lasciandogli scoperto lo sguardo. Italia sollevò le sopracciglia, slargò le palpebre e gli occhi si riempirono della luce della luna. Grandi, lucidi e brillanti. “Perché mi avete scelto per stare al vostro fianco?”

Germania restò in silenzio. Lo sguardo incrociato a quello di Italia rimase fermo, il respiro lento e regolare. L’ombra sembrava essersi fatta più piccola, meno fredda.

Germania spostò lo sguardo in disparte. Abbassò le palpebre, volse il profilo a Italia e sospirò. Gli disse la verità.

“Sì, è vero.”

Italia sollevò il capo di scatto. Sbarrò gli occhi, un’ombra di delusione gli appannò lo sguardo.

“È vero, io non ti ho scelto come membro dell’Asse per la tua forza fisica,” disse Germania. “Tu non sei forte come me e Giappone.” Scosse la testa. “Forse non lo sarai mai.”

Un fascio di luce accerchiò gli occhi di Italia, ne delineò il profilo tondo e lucido. Il riverbero lunare si raccolse nella palpebra inferiore. Italia abbassò lo sguardo e la luce d’argento traballò come un grumo di lacrime. Il cuoricino dolorante rallentò il battito.

Germania sollevò lo sguardo, raddrizzò le spalle e tornò a stendere la sua larga ombra lungo il letto. “Ma io so anche che il tuo valore in quanto nazione non risiede nella forza fisica.”

Italia ruotò gli occhi verso l’alto, senza alzare la fronte coperta dalla frangia. Un barlume di stupore e di curiosità gli accese lo sguardo.

Germania sospirò. Ora era lui a tenere gli occhi bassi e lontani, immersi nel nero. “Italia, tu possiedi un altro genere di forza che io ho rischiato troppe volte di dimenticare. Quella forza che tu possiedi è la mia unica debolezza ed è il motivo che mi ha...” Strinse i pugni sulle gambe. Una stretta di dolore gli chiuse il cuore in un nodo. “Che mi ha fatto precipitare, in passato.” Immerse il viso nel fascio di luce lunare. Gli occhi azzurri brillavano di determinazione. “Tu non devi ricercare la tua forza dove non esiste, ma devi fare emergere e valorizzare quella che possiedi già, perché è proprio quella che a me e a Giappone serve per tenere salda l’alleanza.”

Italia restò a occhi sgranati, labbra socchiuse, incredulo.

“Per questo abbiamo bisogno di te, Italia.” Germania tornò a serrare i pugni sulle ginocchia. “Per questo io ho bisogno di te.” Quando lo disse, il peso che grava sul petto si sciolse come ghiaccio al sole.

Italia si toccò il petto. Sotto la lieve pressione delle dita, il profilo della croce di ferro nascosta dalla maglia gli diede una piccola scossa. Scrollò il capo. “Ma io voglio...” Si sporse in avanti. Gli occhi imploranti rivolti verso il viso di Germania, immersi nella luce chiara e fredda. “Io voglio davvero aiutarti, questa volta.”

“Italia.” Germania indurì il tono. “Non devi fingere di essere quello che non sei.” Aggrottò la fronte, mostrò sguardo severo. “Non devi forzare te stesso a compiere azioni che tu sai non essere alla tua portata, non è questo quello che ti sto chiedendo. Tu sai dentro di te di avere paura.”

“S-sì, ma...” Italia strinse i pugni al petto. “Ma la paura di perdere te e Giappone e la paura che voi non mi vogliate mi spaventano ancora di più delle battaglie e della guerra.”

“Non è vincendo una battaglia che ti guadagneresti la mia fiducia, Italia,” esclamò Germania. “E nemmeno quella di Giappone.”  

Italia si rintanò tra le spalle, con aria colpevole.

Germania chinò la fronte, socchiuse le palpebre. “Non è facendo questo che mi dimostrerai di essere forte. Tutto quello che otterresti sarebbe solo il rinnegamento di te stesso.” Tornò a fissarlo con aria austera. Gli occhi brillavano cerchiati dalle ombre di stanchezza e di tensione infossate nelle orbite. “E non è questo che io mi aspetto da te.”

Italia sollevò il capo di scatto. “Allora cos’è che ti aspetti da me?” Tese le spalle in avanti. “Io non conosco altri modi per farti capire quanto voglio che tu sia orgoglioso di me.” Occhi lucidi, sinceri ma tristi, imploravano Germania da dietro il buio del viso. “Se tu mi dessi una possibilità.” Italia restrinse le palpebre. Lo sguardo supplichevole come se lo stesse implorando in ginocchio, con le mani unite davanti al petto. “Una sola.”

Germania ammorbidì lo sguardo. “Non dipende da me, Italia. Ma da te. Non è combattendo solo per me che otterrai quello che serve al tuo paese.” Tese il braccio verso Italia, gli raccolse una mano e intrecciò le dita alle sue. “Noi siamo uniti nell’alleanza,” sollevò l’intreccio e lo posò sul petto di Italia, “ma un paese combatte solo per se stesso e tu non puoi forzare le capacità che non possiedi solo per cercare di eguagliare il mio.” Sfilò le dita, gli lasciò andare la mano che rimase sul cuore, vicino alla croce di ferro. “Mancheresti di rispetto ai tuoi soldati facendo correre loro rischi inutili, in questo modo. Mancheresti di rispetto all’intera nazione.” Germania si poggiò le mani sulle ginocchia e allontanò lo sguardo. Abbassò la voce, lo sguardo si allontanò come se stesse rievocando un ricordo. “Dipendere troppo gli uni dagli altri è il primo passo per perdere come l’ultima...”

“Io non avrei paura di combattere per te, se questo servisse a renderti fiero,” disse Italia, ignorandolo.

Germania gli lanciò un’occhiata fredda e appuntita. “E infatti non servirebbe.”

Italia raggelò, tornò a chiudersi in se stesso, chiudendo le coperte davanti alle spalle.

“Lo dici adesso, di non avere paura,” continuò Germania. “Tu però non devi domandarti cos’è che renderebbe orgoglioso me, ma cosa renderebbe orgoglioso te stesso. Questo è il vero motivo per il quale non sei pronto ad affrontare una vera battaglia, Italia.” Inspirò. “Se non riesci tu stesso a vedere le tue potenzialità, a comprendere e a riconoscere il valore che risiede dentro di te, allora nemmeno i tuoi alleati e i tuoi nemici saranno in grado di farlo.”

“Io non...” Italia scosse il capo, la voce riprese a tremare, assalita dall’insicurezza. “Non credo di... di essere bravo in qualcosa.” Le mani strinsero sulla coperta. Italia si chiuse in quel morbido abbraccio solitario. “Per questo voglio provare a esserlo in quello che non sono mai stato.”

Germania era esausto.

La vista tornò a offuscarsi, annebbiata da soffi di polvere nera che deformavano i contorni di luce attorno al corpo e al viso di Italia e che estendevano le ombre tra le pieghe delle lenzuola. Gli facevano male gli occhi, le palpebre bruciavano, i muscoli erano di pietra e le ossa ridotte a farina.

Abbassò lo sguardo, sconsolato.

Tanto è inutile. Discuterne adesso non servirebbe a nulla.

Tornò a voltarsi, diede la schiena a Italia. “Rimettiti a dormire.” Si stese sul fianco, stando sopra le coperte, e adagiò la guancia sul cuscino. “Approfittane per pensare bene a qualsiasi cosa tu stia pensando di fare, Italia. Volevi la mia opinione e io te l’ho data. Da adesso in poi ti conviene comportarti di conseguenza.” Chiuse gli occhi, abbassò il tono. “Dormi.”

Italia fece ciondolare il capo tra le spalle, abbattuto e afflitto. Scivolò sotto le coperte, si trascinò contro la schiena di Germania strisciando lungo il materasso, e sospirò a lungo, rilassando le membra tra le lenzuola già tiepide. Strofinò la guancia contro la scapola di Germania, il suo viso si alzava e si abbassava seguendo la cadenza dei suoi respiri già profondi e regolari.

Se qualcosa dovesse andare storto...

Italia sollevò le mani, gli toccò la schiena, sentendone il calore.

Questa potrebbe essere l’ultima volta in cui io e lui...

Un nodo di dolore gli strinse il cuore, appesantì il petto.

Italia si appese alla sua maglia, si tenne stretto, appiccicato alla sua schiena. Un braccio scivolò lungo il fianco di Germania, la mano scese, gli cinse il busto, e ricadde sulla sua pancia. Strofinò il viso sulla sua spalla e si lasciò sfiorare la fronte dai suoi capelli.

Buonanotte, Germania. Qualunque cosa succeda...

Gli strinse il busto. Chiuse gli occhi. Si addormentò cullato da un unico pensiero.

Ti voglio tanto bene.

 

.

 

Diari di Germania

 

Io avevo già le mani sporche di sangue, Italia no. Era a questo che pensavo durante quell’incontro, quando mi resi conto all’improvviso di tutti i pericoli che sarei stato costretto ad affrontare e dai quali volevo che Italia stesse lontano. Se le sue mani fossero rimaste così tanto a lungo legate e unite alle mie, non ci sarebbe voluto molto prima che il sangue macchiasse anche lui. Era inevitabile.

A questo punto tutto dipendeva da me. Spettava solo a me decidere se tenere Italia lontano da sangue e quindi da me stesso, o lasciare che mi seguisse e che mi stesse accanto rischiando di sporcarsi da un momento all’altro. Era solo questione di tempo, lo sapevamo entrambi. Ma entrambi sapevamo anche che era incredibilmente difficile e doloroso accettare l’idea di rimanere lontani dopo tutto il tempo in cui eravamo rimasti separati, dopo il Primo Conflitto.

Io aveva stipulato l’alleanza con Italia per riaverlo affianco, ma allo stesso tempo volevo allontanarlo da me e dal conflitto diretto per farlo rimanere al sicuro, per tenerlo distante dagli orrori della guerra, dai fiumi di sangue in cui io ero già immerso e di cui solo io volevo macchiarmi. Volevo solamente tenere il dolore lontano da lui.

Lo volevo lontano dalla guerra, ma vicino a me. Sembra quasi un paradosso a vederlo scritto in questa maniera.

Quel giorno, quando ci fu l’incontro al Passo del Brennero, capii subito che c’era qualcosa che non andava, che Italia si stava comportando in modo strano – va bene, più strano del solito – e che c’era qualcosa che lo tormentava. In parte, dentro di me sapevo benissimo di cosa si trattava. Capii che Italia aveva intenzione di compiere un grosso e terribile sbaglio, gli indizi c’erano tutti. Avrei potuto correre ai ripari, stargli più vicino e sostenerlo, infondergli fiducia nel suo ruolo in modo da impedirgli qualsiasi sciocchezza. Non ci riuscii perché quello fu una delle prime occasioni in cui cominciai a mentire a me stesso. Non volevo credere alla possibilità che Italia stesse per intraprendere una battaglia completamente di testa e di mano sua, così rifiutai di pensare a una simile ipotesi e lasciai tutto scorrermi davanti come se non avessi sentito niente. Italia avrà anche sbagliato in quell’occasione, ma io sono colpevole quanto lui. Lo lasciai da solo, e quello poi è stato il risultato.

Io avevo giurato a me stesso che Italia non avrebbe mai più sofferto, che non avrebbe mai più corso pericoli. Sapevo a cosa stava andando in contro il mondo, sapevo cosa io avrei provocato per raggiungere i miei obiettivi, e non volevo vederlo intrappolato in uno scenario del genere per causa mia.

Mai in tutta la mia vita avrei immaginato che la sofferenza che stava per piovere addosso a Italia sarebbe scaturita proprio da me. Ancora oggi continuo a credere che quella sia stata la conseguenza più dolorosa di tutta la guerra.

   
 
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