Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Sofyflora98    29/11/2015    2 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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C'erano molte cose che John si domandava sull'incidente con il tassista assassino, e che Sherlock non aveva voluto raccontargli. Ma la cosa che lo faceva arrovellare di più, era come diavolo avesse fatto a sopravvivere dopo aver ingerito del veleno di anfibio, che in certi caso può essere estremamente letale. Invece l'altro era sopravvissuto quasi indenne, ed aveva tenuto per sé la natura di quel liquido viola che pareva averlo salvato. A dirla tutta aveva tenuto il liquido viola nel senso letterale, perché aveva portato via dalla scena del delitto i contenitori, senza farne parola a l'ispettore di polizia.
Comunque ora era lì, a Baker Street, due settimane più tardi, a tenerlo per le spalle mentre vomitava i residui della sostanza. Ecco una delle poche reazioni che gli aveva causato: erano quasi quindici giorni che il suo stomaco continuava a rigettare fuori quel poco che aveva dentro, a discapito del fatto che non ci veniva messo dentro quasi nulla. Difatti, aveva imparato in quegli ultimi giorni il medico, anche quando mangiava si trattava sempre di piccole quantità di cibo. Avrebbe dovuto fare uno studio approfondito sul metabolismo di Sherlock Holmes, e su come sembrava bastargli lo stretto indispensabile per essere attivo.
Studi a parte, il misterioso e non bene identificato veleno che aveva ingerito aveva comunque avuto degli effetti su di lui. Per una settimana, infatti, era stato ridotto ad uno straccio. Non che gli mancasse l’energia fisica, si trattava di qualcosa più simile a nausea e dolori allo stomaco, sommati ad un malessere generale. Il detective era molto scocciato dalla cosa, mentre invece John gli ripeteva che doveva essere felice di essere vivo, e lo rimproverava per quel comportamento avventato. Dopo i primi sette giorni, simili ad un’odissea per la sopportazione di John, gli effetti avevano cominciato a scemare, e un po’ alla volta si stava rimettendo abbastanza bene anche se non era ancora del tutto in sesto.
Per la maggior parte della giornata se ne stava rannicchiato sul divano, a lamentarsi per la noia e per il bruciore alla gola e alla pancia. Poi, ogni tanto, correva un bagno a vomitare. In quei momenti, il suo corpo sembrava farsi tremante e instabile, così John accorreva spontaneamente in suo aiuto, temendo che nella confusione scivolasse e sbattesse la testa sulla tazza del gabinetto. Era stupefacente come riuscisse ad essere aggraziato ed elegante un momento, per poi diventare goffo e scoordinato, come un bambino.
Proprio in quel momento lo stava reggendo per le braccia, mentre quello ansimava ed annaspava, cercando di riprendere fiato. Faceva quasi tenerezza, con i riccioli disordinatamente sparsi sulla fronte, gli occhi lucidi e le guance arrossate. Già, quasi. Quasi, perché non appena riusciva a respirare regolarmente e parlare, diventava più irritante e lamentoso di qualunque persona John avesse mai incontrato.
Si faceva sempre più prepotente, in John, l’idea che avrebbe finito per fargli da babysitter.  Ma non come un timore, no. Piuttosto come un dato di fatto, che non gli faceva né caldo né freddo. Anzi, l’idea di Sherlock Holmes, come concetto, gli risultava più che positiva, nonostante il caratteraccio. Non avrebbe saputo definire meglio quella sensazione. Sherlock avrebbe potuto irritarlo, magari, ma c’era qualcosa in lui che portava John a gradire la sua persona, la sua presenza nell’appartamento, la sua voce mentre parlava a quella velocità pazzesca. Questa impressione, però, lo disturbava: era sempre stato restio a fidarsi presto delle persone e ad accettarle accanto, per cui la facilità con cui Sherlock Holmes si era imposto nella sua routine in così poco tempo lo scombussolava. Non aveva mai tentato, però, di opporsi a questo. Semplicemente non ci riusciva. Anzi, era ancora più difficile e fastidioso come pensiero. C'erano molte cose che erano cambiate di punto in bianco da quando l'aveva conosciuto, ed una di queste cose era il non annoiarsi più. Non si ritrovava più da solo a leggere il giornale o guardare la tv la sera, ed anche se spesso era più muto di una tomba, la stessa presenza dell'altro nella stanza serviva a dissolvere la monotonia. Quando era in ambulatorio a visitare vecchiette paranoiche e mamme ansiose, il suo pensiero correva a Baker Street, portandolo a chiedersi se il suo coinquilino si stesse rimettendo dal malessere.
- John, aiutami – la voce di Sherlock lo riscosse, e si affrettò ad assisterlo mentre quello tentava di raddrizzarsi e camminare verso il divano, che ormai aveva trasformato nella sua tana. Il detective si rannicchiò come un animale ferito, con un broncio completamente fuori luogo nel viso di un adulto. Il dottore si lasciò sfuggire una risatina. L'altro lo guardò storto, e si girò verso lo schienale, dandogli le spalle.
- Non me lo vuoi proprio dire come hai fatto a capire che l’assassino era una Creatura? –
Sherlock non gli rispose, calatosi nel silenzio. John sospirò, e trascinò la sua poltrona davanti al divano, per sedersi vicino a lui senza fargli spostare le gambe. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, e la testa sulle mani. – Da cosa si capiva che era una Creatura? Seriamente, Sherlock. Greg mi ha detto che sai molte cose su di loro, ma tu non vuoi dirci cosa sono, o da cosa si riconoscono. Vorrei davvero sapere con chi sto condividendo l’appartamento, e in questo modo non mi aiuti. È come se volessi nasconderci qualcosa –
Sherlock si strinse ancora di più su se stesso. – Non ancora, John. Te lo dirò. Ma non ancora –
- È un problema di fiducia? –
- In parte sì. Ma è più che giustificato – fece per tornare ad ignorarlo, ma il dottore gli afferrò la spalla. Sherlock si girò di scatto, gli occhi spalancati. John sobbalzò a quella reazione, e lo lasciò andare. Lo aveva colto alla sprovvista. Non si aspettava di vedere quell’espressione turbata e, sì, anche un po’ spaventata. Se già sospettava che Holmes potesse essere coinvolto con le misteriose Creature che da qualche anno infestavano l’Inghilterra, ora i dubbi in proposito erano assai pochi.
- Ecco, vedi? Qualcosa ti spaventa. Non provare a negarlo, è inutile. Vorrei solo sapere di che si tratta –
Sherlock grugnì, e si alzò dal divano, diretto verso la sua camera. Ma di nuovo, il dottore lo fermò, stavolta per il polso. Il detective voltò la testa verso di lui. – Lasciami stare! Tu non sai di che si tratta. Se lo sapessi, mi daresti ragione sul non volertelo dire! – la vide di nuovo, quell’espressione. C’erano spavento, rabbia e indignazione. Ma non solo. John riusciva a intravedere qualcosa altro. Vide quel timore, quasi invisibile ma presente. E anche la tristezza si celava dietro a quegli occhi color ghiaccio. L’aveva vista quasi subito, anche se era ben celata, e anche se nessun altro sembrava averci fatto caso.
- Lascia che ti aiuti. Per favore –
- Io non ho bisogno di… Ah! – l’investigatore strabuzzò gli occhi, e le sue membra si contrassero. Allarmato, John fece per afferrargli le spalle e ricondurlo verso il bagno, ma stavolta l’altro lo tenne a distanza.
- Non… non serve – ansimò, portandosi le mani alla schiena.
- Sherlock, cosa…? – fece per domandare John, ma Sherlock riuscì a scivolare dalla portata delle sue mani, e corse verso la sua camera. Sentì chiaramente il rumore della chiave che girava nella toppa, mentre cercava di raggiungerlo. Dall’interno giunsero una serie di tonfi, dei fruscii molto simili ad abiti che vengono sfilati, e poi un rumore curioso, che somigliava a quello della carta che viene stropicciata. Dopodiché fu il silenzio per qualche minuto, qualche interminabile minuto, durante il quale John quasi trattenne il fiato, come se temesse che facendo rumore potesse accadere qualcosa di irreparabile. Stette fermo, vicino alla porta, in attesa di qualche segno di vita dall’altra parte. Si rilassò solo quando finalmente udì un sospiro profondo, soffocato dal legno.
- Sherlock? - disse di nuovo.
Il detective ci mise un po' a rispondere. - Sto bene. Lasciami solo. Per favore – John restò a fissare la superficie di legno che li separava, stupito. La sua voce era cambiata. Sarebbe stato impossibile non fare caso al lieve singulto che Sherlock aveva emesso alla fine della frase. Se non stava piangendo, allora era sul punto di farlo. Quasi non si accorse di aver appoggiato il viso alla porta, sperando di sentire ancora qualcosa, magari un segno che gli permettesse di capire cosa stesse accadendo al suo coinquilino. Nemmeno si rese conto di aver schiacciato il palmo della mano contro il legno, e di aver sentito una leggera fitta al petto.
 
Sherlock lo poteva percepire. Sapeva che era ancora lì, oltre la porta. Sapeva che moriva di curiosità e di ansia. In quel momento, in quel preciso momento, tutti i suoi sensi erano amplificati. Un effetto collaterale, avrebbe detto. O un potere in più, a seconda dei punti di vista e della situazione.
Avrebbe preferito se John si fosse allontanato. Si sentiva a disagio a causa della sua preoccupazione: era qualcosa di inaspettato, che l'aveva colto alla sprovvista. C'erano state  persone che avevano mostrato preoccupazione nei suoi confronti, ma erano molto poche, e lo facevano solo dopo averlo conosciuto per diverso tempo. E limitatamente. Non sapeva se fosse John Watson ad avere l'attitudine ad avere cura delle persone a causa del suo lavoro, o se invece fosse lui un caso speciale. Vedeva più probabile la prima delle due ipotesi, l'altra non aveva alcun senso. Perché mai avrebbe dovuto lui catturare la sua attenzione più di chiunque altro?
Oh, Dio, Sherlock! Che importanza ha adesso John Watson? Pensa a risolvere il vero problema, piuttosto!
Sfiorò in punta di dita la membrana opalescente dell’ala sinistra. Il liquido viola aiutava a far funzionare il loro metabolismo e a rinvigorire le loro Estensioni, ma nelle prime ore dopo l’assunzione faceva calare il controllo su di esse, e quindi tendevano ad uscire allo scoperto in modo involontario. Per fortuna erano riusciti a progettarne la ricetta così che non si trattasse di una reazione improvvisa, e avessero quindi il tempo di togliersi dagli occhi degli umani.
Per espellere le tossine che il rospo gli aveva messo in corpo aveva dovuto berne molto più del normale, per cui l’effetto durava più a lungo ed era più violento. La pelle non gli era ancora ricresciuta dall’ultima volta che le aveva estratte, per cui quelle ali d’insetto non avevano trovato molta resistenza, ma era stato comunque doloroso. Chi le faceva uscire spesso, aveva i muscoli e la pelle abituati a quel processo e non sentiva più nulla, ma Sherlock faceva del suo meglio per manifestare le sue Estensioni anomale il meno possibile.
Aveva dovuto ricorrere ad ogni goccia di energia che gli era rimasta per non emettere alcun suono, aveva addirittura stretto il lenzuolo tra i denti con tutte le sue forze perché Watson non potesse sentire alcun rumore. Era già sufficientemente all’erta di suo.
Sentì i passi leggeri del dottore allontanarsi, dopo un po’. Quanto tempo era rimasto lì ad aspettare qualche segno vita da parte sua? Diede un’occhiata alla sveglia sul comodino. Quindici minuti. Così tanto? Nemmeno se ne era accorto, di essere accovacciato sul pavimento della sua camera da tutto quel tempo.
Ecco un’altra azione di John Watson che andava fuori dalla norma. Perché aspettare così tanto davanti alla sua porta? Avrebbe dovuto stufarsi dopo un paio di minuti. E questo senza contare la possibilità che non si fermasse lì affatto.
Ma che importanza aveva? Di nuovo aveva lasciato la mente divagare. Non doveva più farlo.
Il cellulare vibrò.
Sto arrivando lì. MH
 Mycroft, di nuovo. Nelle ultime due settimane non l’aveva lasciato in pace un istante. Non aveva fatto che scrivergli ininterrottamente. Piuttosto irritante.
Non erano passati cinque minuti, che già il campanello suonava. I passi di John erano affrettati e rumorosi, mentre andava ad aprire. Il suo stupore per la visita inaspettata del Governo Inglese fu fortemente udibile anche attraverso le pareti. Meno chiara fu la risposta di Mycroft, anche se conoscendolo, Sherlock non fece fatica ad immaginare cosa avrebbe potuto dire a Watson per giustificare la sua presenza  Baker Street senza perdere il suo fare ironico e altezzoso.
Un ritmico tamburellare alla sua porta annunciò che suo fratello era entrato in casa. Sherlock lo ignorò, e anzi voltò la testa dall’altra parte, senza smettere di lisciare e far sgranchire le ali, una alla volta, e con cura.
- Sherlock, so che sei lì. Non fare l’idiota e apri questa porta – borbottò la voce contrariata di Mycroft, soffocata dal legno che li divideva.
- Ho da fare. Non disturbarmi – ribatté Sherlock seccamente.
- Ho fatto uscire Watson. È via libera – il minore fermò i movimenti delle mani, e con circospezione socchiuse la porta. Diede un’occhiata rapida attorno, e vedendo che effettivamente c’era solo il fratello, aprì del tutto e lo lasciò entrare. Come al solito, gli occhi dell’altro furono catturati dalle ali iridescenti.
- Cosa devo fare con te? – sospirò scoraggiato il maggiore degli Holmes, riservandogli un’occhiata di rimprovero. Appoggiò l’ombrello al muro, e si sedette sul bordo del letto, squadrandolo da capo a piedi con occhio critico. Sherlock gli si avvicinò, permettendogli di osservarlo meglio. Mycroft scosse il capo, guardandolo.
 - Sei troppo magro. E ci stai mettendo troppo ad espellere le tossine. Non va bene, fratellino. Ti sei indebolito, finirai per essere una preda facile –
- Non ho bisogno della tua predica, Mycroft –
- No, certo che no… - Mycroft frugò nella tasca della giacca, alla ricerca di qualcosa che sembrava non voler spuntare fuori. Quando alla fine riuscì ad avere la meglio sul misterioso oggetto, mise quest’ultimo tra le mani di Sherlock. Si trattava di una fiala contenente una sostanza viscosa color viola scuro. Sherlock gli rivolse uno sguardo interrogativo.
- Versione concentrata – spiegò il maggiore – Avrà un effetto più veloce, ma l’impatto sul fisico è molto più intensa. Sarai a pezzi per un giorno, e forse ti salirà la febbre. In compenso dovrebbe accelerare sufficientemente il tuo metabolismo perché venga espulsa ogni traccia rimasta del veleno del rospo –
Il minore se la rigirò tra le dita. Era fredda. – Grazie – mormorò con voce atona. Il fratello non rispose, né diede segno di averlo sentito.
- Come mai John Watson? – chiese dopo un po’.
Sherlock alzò le spalle. – Non lo so, Mycroft. Non lo so –
- Questa volta sei davvero in un pasticcio. Posso salvarti dai sicari della fazione di sotto, ma non da quello che ti fai da solo. Questo è un problema tuo. Ma non possiamo correre il rischio di perdere te, lo sai – Mycroft voltò il capo verso di lui, come se si aspettasse di sentirgli rispondere che no, non si sarebbe lasciato coinvolgere, e che sì, aveva tutto sotto controllo. Ma non fu così. Lo sguardo di Sherlock era perduto nel vuoto, confuso, addirittura turbato. Non aveva sotto controllo un bel niente.
- Dio, Sherlock! Quante volte ti avrò ripetuto di non…? –
- Un’infinità. Ora vattene, per favore –
Mycroft si alzò di scattò, e agguantò l’ombrello. – Bevi subito quel fluido. Ho detto al tuo nuovo problema che è meglio se resta fuori per qualche ora. Non dovrebbe tornare prima che finisca la parte più critica dell’effetto –
Il signor “governo inglese” tolse il disturbo senza aggiungere altro. I suoi passi erano attutiti dalla moquette, e Sherlock quasi riusciva a percepire la polvere residua che veniva sollevata ad ogni passo. Gli venne istintivamente da tossire. Aspettò di sentire l’uscio dell’appartamento venire chiuso prima di tornare a rilassarsi. Odiava l’impressione di essere sempre spiato che gli dava suo fratello, anche se quasi di sicuro era più che una semplice impressione. Non si sarebbe stupito di trovarsi due o tre telecamere in casa.
Senza perdere altro tempo, dunque, stappò la fiala e si lasciò scivolare il suo contenuto in gola.
L’effetto fu immediato. Sentì un gran freddo.
 
 
La stanza che avevano scelto era piccola, buia e vecchia. Puzzava di muffa ogni cosa, e la polvere si era accumulata per così tanto tempo che ad ogni respiro gli riempiva i polmoni, facendolo tossire. Batté il piede sul pavimento di legno con fare impaziente, rivolto verso l’uomo che era chino a terra, intento a disegnare qualcosa.
- Hai finito? – gli chiese, sbirciando i segni di gesso bianco che aveva lasciato sul parquet scuro. Il suo compare sbuffò e continuò ad ignorarlo, cosa che il Ragno non gradì affatto, ma che fu costretto a sopportare.
Fece roteare gli occhi neri verso il terzo uomo presente nella stanza. Era un signore anziano, robusto ma non grasso, con la schiena lievemente incurvata di chi passa ore ed ore chino sui libri da tutta la vita. Era un professore ed un dottore. Ed era umano al cento per cento. La sua presenza lì era una novità. Da poco erano riusciti a tornare in contatto con lui, dopo essersi quasi scordati della sua esistenza per anni. Lui però non aveva certo dimenticato della loro esistenza.
- Siete assolutamente sicuro di ciò che volete fare? – domandò ansioso il vecchio. – Quella Creatura è unica nel suo genere, sarebbe un vero peccato se dovesse morire. Non sarà facile trovare un altro bambino adatto a quei parametri –
Il Ragno sospirò, alzando gli occhi al soffitto coperto di ragnatele. – Non deve morire, professore. Non ancora, perlomeno. La smetta di seccarmi con tutte queste fissazioni. Avrà tutto il materiale che le serve, una volta che mi sarò liberato della fazione di sopra, non deve preoccuparsi. E per fare questo, devo togliermelo dai piedi, per quanto dispiaccia anche a me –
- Dicevo solo che non è necessario ucciderlo. Voi siete un uomo potente, non credo che sia necessario… - si affrettò ad aggiungere il professore. In tutti gli anni che aveva speso a compiere le sue ricerche e i suoi esperimenti, aveva trovato solo un individuo con un corpo che fosse conforme a certi requisiti, e buttarlo via con così tanta facilità gli faceva venire la pelle d’oca. Decenni di lavoro buttati all’aria grazie allo schioccar di dita del Ragno. Anche lui era frutto del suo impegno, tra l’altro.
- Non ho forse detto che non è ancora deciso se lo ucciderò o no? – ribatté il capo della fazione di sotto. Tornò a concentrarsi sul suo braccio destro, che ora sembrava aver terminato il suo operato. Aveva tracciato un cerchio, con una figura antropomorfa al centro. Altre sagome simili ad umani con parti del corpo mostruose gli giravano attorno, fatti con gessetti di altri colori.
- Tra quanto tempo glielo faremo trovare? – domandò l’uomo che aveva disegnato.
Il Ragno ci pensò un po’ su. – Quando si accorgeranno che c’è una persona scomparsa – disse alla fine. Fece scrocchiare il collo, e saltellò verso la porta cigolante, in cerca di aria che non sapesse di vecchio e che fosse respirabile.
Entro un'ora al massimo avrebbero dovuto trovarsi nello studio che aveva fatto allestire per il professore. Le ultime scoperte che aveva fatto sul metabolismo delle Creature andavano provate immediatamente, così da riuscire a metterle a frutto il prima possibile.
A lui, in realtà, non piacevano i laboratori dei ricercatori, in special modo se era quel professore in particolare a lavorarci. Faceva freddo, nei laboratori. Faceva sempre freddo.
 
 
Mycroft aveva ragione. L'effetto di quel fluido concentrato era immensamente più intenso di quello normale. Aveva dovuto letteralmente mordersi le labbra a sangue per non urlare, mentre il suo corpo si “aggiustava”. Era stato preda di fitte lancinanti alla schiena e allo stomaco per più di un'ora, e alla fine aveva vomitato anche l'anima. Il suo fisico già provato non aveva retto il colpo, ed si era ritrovato febbricitante e privo di forze. Era a malapena riuscito a trascinarsi sul divano, prima di crollare definitivamente.
Un brivido di freddo più forte gli fece accapponare la pelle, quando gli scivolò un pezzo di gamba fuori dalla coperta con cui si era avvolto. Sapere che ora aveva espulso ogni traccia che restava delle tossine del rospo era una magra consolazione, se paragonata a come si sentiva. Dopo gli spasmi di dolore e lo sforzo compiuto dallo stomaco, sembrava che ogni cellula delle sue membra si fosse sciolta, che i suoi muscoli fossero diventati gelatina.
Senza nemmeno rendersene conto, era caduto in uno stato di dormiveglia, che gli stava scombussolando le percezioni. Lo stacco tra i sogni assurdi della febbre e la realtà era confuso, sfuocato, e il passaggio dagli uni all'altra gli dava le vertigini, facendolo stare ancora peggio.
C'erano delle Creature, forse. Non avrebbe saputo dire se fosse il sogno, in quel momento. Un uomo non molto alto, con  zampe di ragno che sbucavano direttamente dalla sua schiena, incombeva su di lui. Scricchiolavano sinistramente ad ogni movimento.
Voleva urlargli contro, dirgli di andarsene, fare qualsiasi cosa che gli facesse sparire quel sorriso perfido dalle labbra, ma non emise che un rantolo vagamente somigliante ad un ringhio, prima che anche la gola iniziasse a protestare per lo sforzo appena compiuto.
Alla fine si arrese, sapendo che anche volendo non sarebbe riuscito a restare cosciente per molto. L’appartamento scomparve del tutto dalla sua vista, sostituito da un ambiente dalle pareti di un bianco accecante, tanto assoluto e candido da fargli bruciare gli occhi. In condizioni regolari avrebbe intuito che non poteva essere reale: i muri non potevano brillare ovviamente. Ma lo stato di confusione in cui si trovava la sua mente non gli fece notare quel piccolo particolare.
Non era solo, in quella stanza. Altre persone erano sedute, sdraiate o accosciate sulle piastrelle. Si trattava perlopiù di bambini, ma c’era anche qualche adulto. 
Un ragazzino dagli occhi neri lo guardava con fare annoiato e scontroso. Otto zampe di ragno facevano capolino oltre le sue spalle. Aveva anche una coda lucida e nera, dalla punta affilata. Guizzava con movimenti scattanti, ogni volta accompagnata da un sibilo e uno schiocco che ricordava il suono di una frustata.
E poi ce ne era un altro che attirava la sua attenzione. Magro e gracile, di un pallore quasi spettrale. Era così sottile che dava l’impressione che un piccolo urto sarebbe stato sufficiente a spezzarlo. Era un fanciullo dallo sguardo malinconico e spaventato. Due enormi occhi di un azzurro sfolgorante brillavano come pietre preziose in quel viso d’alabastro, incorniciato da arruffati riccioli scuri.
Ma c’era una cosa che si vedeva prima dei suoi occhi, prima della sua bellezza serafica. Si trattava di due squarci all’altezza delle scapole, ancora aperti e sanguinanti.
Sherlock indietreggiò barcollando, tentando di mettere più distanza possibile tra sé e quell’inquietante bambino, ma inutilmente. Scivolò sul pavimento freddo della stanza bianca, e decine e decine di iridi scintillanti ora lo fissavano. Non gli importava degli altri, non gli importava di nessuno di loro. Ma quel bambino pallido era diverso.
Le Creature mano a mano sparirono, come se non ci fossero mai state, ma non lui.
Il bimbo non lo guardava, sembrava non accorgersi della sua presenza. Il suo viso delicato era rigato di lacrime, e una serie di singhiozzi dapprima lievi e poi sempre più angosciati fuoriuscirono dalle labbra carnose. Urlava il suo dolore senza freni, chiamando la mamma, il padre, e poi il fratello. Inutile dire che nulla accadde, che nessuno accorse alle sue richieste d’aiuto.
Sherlock si coprì le orecchie. Non voleva sentirlo, quelle grida gli stava spaccando la testa. Non si trattava del rumore, del suono di quella voce in sé. Ciò che lo faceva impazzire era ritrovarsi davanti a quella scena, già vissuta mille e mille volte prima che imparasse ad isolare i ricordi, e sapere esattamente come sarebbe andata a finire.
Nessuno sarebbe andato a salvare quel bambino. Non era mai stato salvato. Nemmeno quando il ragazzo dagli occhi neri aveva fatto a pezzi i suoi carnefici, permettendo loro di fuggire, nemmeno quando una Creatura molto somigliante al fratello del bambino aveva preso quest’ultimo tra le braccia per portarlo lontano dall’abisso. Neanche i due che avevano portato la Creature alla luce del sole si erano salvati. Nessuna delle persone entrate in quella stanza bianca. Una moltitudine di fanciulli e giovani ci erano entrati, ma ad uscire c’erano stati soltanto mostri con le loro facce, ribollenti di rancore e angoscia.
Non erano neppure morti, però. Erano ancora lì, tra quelle mura accecanti, ad invocare aiuto senza risultato. Ci sarebbero restati per sempre.
Per questo Sherlock non ne sopportava la vista. Vedere il bambino pallido piangere e singhiozzare, sapendo che la sua disperazione sarebbe rimasta inascoltata, superava le sue capacità di sopportazione.
Da lì ad essere lui stesso a piangere, il passo fu breve.
Le lacrime erano gelide sulla sua pelle cocente dalla febbre. Si raggomitolò su sé stesso, le membra scosse da brevi singulti, le braccia strette attorno le spalle. Salvatelo. Salvatemi.
- Sherlock?! – esclamò una voce allarmata. Veniva da lontano, ed era attutita, ma era sicuramente la voce di un uomo. Una remota e miracolosamente ancora attiva parte del suo cervello gli suggerì che era una voce conosciuta; un altro sperduto angolino invece gli propose di aggiungere gli aggettivi “calda e piacevole” vicino alla parola “voce”.
- Diamine, quel tuo fratello spocchioso mi aveva detto che... - la stanza candida si fece più scura, e le pareti non gli parvero più immacolate e spoglie come prima. Era quasi buio, all'improvviso, anche se qualche baluginio candido si sommava alle lacrime e gli offuscava la vista. Sbatté più volte le palpebre.
Qualcuno stava premendo il dorso della mano sulla sua fronte, mentre con l'altra gli spostava i riccioli dal viso.
- … ma non pensavo che  dicesse sul serio! -
Capelli biondo cenere. Era Watson.
Era già tornato? Dovevano essere passate ore, da quando Mycroft l'aveva fatto uscire di casa. Sherlock cercò di capire per quanto tempo era rimasto in quello stato, ma non ne era in grado.
Le dita di John indugiarono un istante prima di staccarsi dalla pelle bollente del consulente investigativo. La visita del maggiore degli Holmes non era stata chiaramente di cortesia, e anche se era stato invitato a starsene fuori più che poteva, non aveva fatto che angustiarsi. Sapeva che essere così in ansia per qualcuno che conosceva da poco più che due settimane non era un buon segno. Per non parlare dell’aver ucciso un uomo dopo appena due giorni dal suo incontro con Sherlock. Ma quella era una cosa diversa si disse. Non potevo lasciare che uccidesse Sherlock.
- Non so con cosa accidenti ti avesse avvelenato quel tassista, ma non ricordo veleni che lascino effetti del genere – borbottò, una volta appurato che Sherlock bruciava di febbre.
Un flebile singhiozzo scivolò dalle labbra perfettamente rosa del detective. Lo sguardo di John saettò al suo volto, con un riflesso immediato. Aveva gli occhi lucidi e appannati, e non sembrava essere del tutto cosciente. Stava piangendo, silenziosamente. Un sogno, forse? Che genere di sogno avrebbe potuto mai far piangere quell’uomo così freddo e razionale?
- John? – mormorò con fatica l’investigatore.
- Sì, sono qui. Va tutto bene – si ritrovò a dire il dottore, inginocchiandosi vicino al divano.
Con un movimento repentino Sherlock gli afferrò il polso, stringendoselo al petto. John sgranò gli occhi dalla sorpresa, e provò a ritrarlo gentilmente, ma l’altro non volle lasciarlo andare. Quel gesto sconcertò John parecchio, ma sentì anche una punta di tenerezza, che si affrettò a giustificare in vari modi, uno meno sensato dell’altro.
- Non… - ansimò Sherlock, con voce supplicante – Per favore –
John si arrese, e appoggiò la schiena al divano, sedendosi meglio sul pavimento. Lasciò la mano stretta tra quelle del più giovane. E non ci trovò nulla di strano.
Solo quando l’altro si fu calmato, e allentò la presa, si permise di alzarsi e andare a inumidire un panno. Lo portò in una bacinella fino al soggiorno, assieme ad un bicchiere d’acqua.
Sarebbe stata una notte molto lunga.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Note:
Non la smetterò mai di ripetere quanto mi dispiace per i tempi lunghi tra un capitolo e l’altro, pare. Quindi ancora una volta, mi dispiace da morire! Purtroppo non posso fare nulla in riguardo, per cui accettate le mie lacrime di dispiacere per questo.
Come al solito, farò del mio meglio per non essere eccessivamente lenta, ma non assicuro nulla.
 
Sofyflora98
 
P.S.
Ho visto che ben venti persone seguono questa storia, ma non mi dicono cosa ne pensano. Penso che lasciare una recensione, anche di critica, sia un gesto molto carino da parte di un lettore, perché permette agli scrittori di capire cosa va bene e cosa no, e quindi di migliorare. E comunque è sempre piacevole sapere cosa i lettori pensano DAVVERO e non semplicemente constatare se leggono oppure no.
Grazie per aver letto, comunque.
 
   
 
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