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Autore: babbiona    30/11/2015    5 recensioni
Io avevo capito poco di quella canzone, lo ammetto – e poi, a dirla tutta, quando ballavo ero troppo impegnata, e non prestavo attenzione a ciò che avevo attorno – ma, forse, una sola cosa era chiara di quel testo: un cuore che si rompe fa lo stesso rumore di una finestra che si frantuma in mille pezzi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mmhm.

Ho ricominciato a guardare Glee.

E vabeh, cheppalle, si avvicina Natale e sono più depressa del solito.

 

Ho rivisto per l’ennesima volta la puntata 1x03.

 

            Ho rivisto Brittany Pierce (….fottuta Heather Morris gnocca) e quel costume rosso.

            Ho rivisto anche Santana Lopez, in un angolo, intenta a lavare le auto con Quinn Fabray

 

 

Beh, ecco, non ce l’ho fatta a non pensare una ennesima, svitata shot pure su questa cosa.

[La canzone, nella puntata, era solamente frutto della mente di Mercedes; mentre, in realtà, in questa shot, la canzone è effettivamente esterna, e non solo un “pensiero” della ragazza].

 

 

 

 

 

 

Bust your Windows.

 

 

 

Brittany’s POV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«I bust the windows out your car!».

 

 

 

 

 

 

                        La canzone terminò; l’eco delle ultime parole riecheggiò per vari istanti nel cortile della scuola.

 

 

 

 

Non partì nessun applauso; tutti erano ancora troppo scandalizzati.

 

 

 

 

                        Non c’era nessuno che non avesse assistito a quella scena.

 

 

                                               A quel “lancio di sasso” perfetto.

 

 

 

C’era un silenzio tombale.

                        Uno di quei silenzi che mi mettevano agitazione addosso.

            Quel silenzio angosciante che sentivo la notte, quando la mamma chiudeva la porta della mia camera.

                        Cavolo.

            Non sopportavo il buio: mi terrorizzava.

 

 

 

 

            Eppure, ehi! Garantisco che Mercedes aveva cantato davvero bene – anche se assomigliava tanto ad un Pocket Coffee gigante, quando si muoveva, con quegli abiti strani e tanto colorati addosso.

E l’esibizione di noi Cheerios era stata a dir poco impeccabile.

 

                       

 

 

                        E comunque continuavo a non capire il perché di tutto quel silenzio.

Okay, Mariah Carey aveva appena fatto un buco di venti centimetri sul vetro della macchina di Pinocchio, quel ragazzo magro col riporto che seguiva alcune lezioni con me.

                        Mmh, si chiamava Burt.

 

           

 

O Kurt?

            Accidenti, non ricordavo.

                       

 

 

            Insomma, tutto quel silenzio era davvero esagerato.

Capisco lo stupore iniziale.

Però poi… basta, no?

Forse ero l’unica a non vederci niente di che.

            Niente di così esageratamente irreparabile.

Voglio dire, se Pinocchio aveva i soldi per permettersi un macchinone del genere, li avrebbe trovati anche per riparare il vetro, no?

 

 

E poi, detto in tutta sincerità, non era forse un po’ troppo eccessivo tutto quel casino per un tizio come lui?

Non era poi tutto ‘sto granché – soprattutto esteticamente.

Si vestiva in un modo… strano.

                        Con abiti da donna, spesso.

Non sapevo che gli uomini potessero portare abiti da donna.

 

            Ecco, forse, perché a Pinocchio – sì, gli assomigliava in tutto e per tutto, dentro e fuori – piaceva quel canguro gigante di Finn Hudson?

Sì, perché Pinocchio aveva raccontato una bugia a Mercedes.

            Io lo sapevo bene che non era Rachel la sua mira.

                                  

Era scontato, insomma!

Vedevo come lo guardava di nascosto, quando eravamo a lezione.

            Mi sentivo pure un pochetto triste per lui; non credo che a Finn sarebbe mai potuto andare a genio.

Soprattutto perché Kurt era ancora così piccolo, e frequentava già le superiori! Una cosa da pazzi!

            Forse i suoi genitori avevano sbagliato ad iscriverlo al Liceo; non sembrava affatto avere la nostra età.

                        Io gli davo tredici anni; non aveva nemmeno un pelo di barba in faccia!

Non gli avevo proposto di fare sesso con me proprio per quel motivo: era troppo giovane!

            Senza contare che aveva le mani davvero lisce e tenere, come quelle di un bambino – gliele avevo toccate per curiosità.

                       

 

 

«Ragazze abbiamo ballato veramente bene!», esclamò all’improvviso una tizia al mio fianco, di cui non ricordavo il nome, ma che ero sicura di aver visto già da qualche parte – forse in palestra? O durante gli allenamenti delle Cheerios? «La Coach Sylvester ci stava guardando, prima. Senza dubbio è stata una delle nostre performances migliori!».

 

 

Non appena quell’assurdo silenzio s’era sciolto, alcune Cheerios si erano abbracciate e battute il cinque a vicenda, ridendo e scherzando; un’altra ragazza venne da me e mi abbracciò con calore – … chi era, porcamiseria? Non riuscivo proprio a ricordare.

 

 

 

                        Ricambiai insicura l’abbraccio, sorridendo a stento.

 

 

 

Inevitabilmente, il mio sguardo piombò sull’unica persona che avrei voluto che mi abbracciasse in quell’istante.

 

 

 

            Quell’unica persona che avrei voluto stringere tra le mie braccia.

 

 

 

                        Quella persona che, al momento, era impegnata.

           

 

 

 

                                               Con un’altra.

 

 

 

 

Oh, che nervoso.

            Mi si aggrovigliò lo stomaco all’istante, e mi staccai immediatamente da quella ragazza con tutte quelle lentiggini in faccia.

 

 

 

            Santana non mi aveva ancora rivolto la parola da ieri sera.

                        Forse era arrabbiata?

                                   Non sapevo affatto cosa le stesse passando per la testa.

È che mi ero svegliata alle cinque, quella mattina, e lei non era più nel mio letto.

            Lo so, lei non rimaneva mai dopo che facevamo l’amore – con lei, lei soltanto lo facevo, anche se Santana non voleva che parlassimo di quell’argomento. Diceva che… beh, non diceva nulla, per la verità. Non le piaceva parlarne, e basta.

 

                        Eppure, ieri sera non se n’era andata come al solito.

In effetti sembrava avere l’aria davvero stanca.

            Mi aveva chiesto di dormire con lei, ed io ero diventata il piccolo panda più felice del mondo.

Era tutto così bello, profumato e colorato quando avevo lei attorno.

            Anche il mio letto era contento.

Mi aveva addirittura permesso di abbracciarla nel sonno – cosa che non succedeva mai.

 

 

            E poi, ecco, mi ero svegliata.

E lei non c’era più.

 

 

                        E quella mattina non era nemmeno passata a prendermi.

            Non l’avevo incontrata neanche agli armadietti.

 

 

                                   Probabilmente era solo una giornataccia.

                        Accadevano spesso; ecco perché non me ne ero preoccupata troppo.

            Anche se, in realtà, in quel momento cominciavo ad intristirmi per davvero.

 

 

Era immersa in una conversazione con Quinn ormai già da un’oretta buona, da quando avevamo cominciato a lavare tutte quelle auto – che poi, dico io, ma chi ce lo faceva fare di lavare la macchina di qualcun altro, e non la nostra? –, e non mi aveva guardata neanche per un secondo.

 

 

 

                        Non era nemmeno venuta a ballare con me.

 

 

 

            Forse le avevo fatto qualcosa?

                        Avevo detto qualcosa di sbagliato?

Oppure non le era piaciuta la canzone?

 

 

 

            La capivo, a dire il vero.

 

 

Sinceramente, faticavo a comprendere le parole di quel testo.

Cioè, , le capivo, ma… al contempo non le capivo.

 

 

 

            Il brano parlava di finestre e cuori rotti.

 

 

 

                        Era un collegamento complesso, quello da fare tra le due cose.

 

 

 

Io avevo capito poco, lo ammetto – e poi, a dirla tutta, quando ballavo ero troppo impegnata, e non prestavo attenzione a ciò che avevo attorno – ma, forse, una sola cosa era chiara di quel testo: un cuore che si rompe fa lo stesso rumore di una finestra che si frantuma in mille pezzi.

 

 

            Ed anche le ferite ed i tagli sono gli stessi!

                       

 

Diavolo.

 

 

            Sanguinano e fanno male allo stesso modo.

 

 

 

 

                        Lo sapevo per certo, perché mi sentivo una finestra rotta al posto del cuore, in quel momento.

 

 

 

 

Sbuffai irritata, cacciandomi a sedere sul cofano di un’auto, ancora bagnata.

            Accidenti, avevo un caldo assurdo.

Eppure ero praticamente nuda.

                       

                       

 

 

            Ma perché, perché Santana parlava con Quinn, e non con me?

 

 

                        Avevo pure quel costumino rosso che a San piaceva tanto.

            E le calze rigate.

E la gonnellina che mi lasciava scoperto il sedere.

            E i capelli raccolti a coda.

                        E pure quell’eyeliner che mi faceva gli occhi “da gatto”, come diceva lei.

 

 

Ma, forse, impegnata com’era con quella, non ci aveva nemmeno fatto caso.

 

 

Uffa.

 

 

Porcamiseria, non capivo cos’avessero di così importante da dirsi.

            Così importante da impedire alla mia Cioccolatina di ballare con me.

 

 

 

                        Mi sentivo davvero… male.

            Come una brutta, bruttissima sensazione in testa.

                        Ma anche, e soprattutto, nel cuore.

 

            Mi sentivo triste.

                        Come un piccolo panda triste.

 

            Triste come quando non vedevo Santana sorridere.

            Triste come quando Santana parlava con altri e non con me.

            Triste come quando Santana non rimaneva a dormire con me.

           

 

 

                        È che, ripeto, pensavo mi avesse guardato mentre ballavo.

 

 

 

            Lo so, lo so che le piaceva.

                        E le piacevo.

 

 

 

                                   Almeno… aveva detto così.

 

 

 

 

In quel momento, Quinn s’era messa a ridere, ancheggiando nell’aria, alludendo a chissà quale battuta delle sue.

 

           

 

            Avevo voglia di mettermi a piangere.

 

 

            Cavolo.

 

 

Sentivo ancora quel male.

 

 

 

                        Lo stesso male che fa un cuore rotto in tanti piccoli pezzetti.

 

 

 

            Ma a Santana non importava poi molto.

 

 

 

 

 

                                   Non mi aveva guardata nemmeno una volta.

 

 

 

 

Lo sapevo che non dovevo affatto darci peso.

Non più di quel tanto, diciamo.

 

 

 

            Alla fine, quante persone trattava esattamente allo stesso modo?

 

 

 

Oh, anche se so, so per certo che con me era diverso.

 

 

 

                        Santana era diversa.

 

 

 

                                   Era nuda.

                        Oh, mi piaceva così tanto quando era nuda nel letto.

            Ma, soprattutto, quando era nuda nell’anima e nello sguardo, e non portava quei meravigliosi occhi neri con il “mantello” addosso.

E da lì, proprio da lì, si riuscivano a capire tante cose, di lei.

 

           

 

            Nuda, bella, immensa, dolce, fragile, tetra, misteriosa, ilare, meravigliosa.

 

 

                        Delicata nelle parole, nei gesti, fugace e bollente nelle occhiate.

            Affettuosa nelle carezze, premurosa negli sguardi, fragrante nel sapore dei suoi baci.

Insicura, indifesa come un piccolo tigrotto sperduto nella giungla, ma, al contempo, forte ed impeccabile come le onde del mare contro gli scogli durante un maremoto.

 

 

 

Eppure, sapevo quanto le desse “fastidio”, tutto questo parlare ed ammirarsi.

            Non le piaceva quando la accarezzavo troppo.

                        Non le piaceva quando la guardavo troppo.

                                   Non le piaceva quando… quando i nostri cuori battevano troppo forte.

            Non le piaceva quando le cose diventavano troppo serie.

Non le piaceva sentirsi così legata ed influenzata da… qualcuno.

                                   Anche se quel “qualcuno” ero io.

 

            Non le piaceva parlare di sentimenti.

Oh, no, proprio per nulla.

 

 

Nemmeno se io ero proprio “quei sentimenti”.

 

 

 

E questa cosa era davvero bruttissima.

                        Tipo la più orrenda del mondo.

                                   La cosa più fredda e triste che io avessi mai provato.

 

 

 

 

            Mi faceva venire il voltastomaco e malissimo alla testa.

Oddio.

Era la stessa sensazione di distruzione e totale impotenza che mi prendeva quando provavo a fare la torta Sacher.

            Troppo, troppo, davvero troppo impegnativa.

                        Ci volevano troppe uovaquattordici uova, QUATTORDICI!

                                   troppi pulcini sacrificati.

            E ci volevano pure troppi ingredienti.

E, spesso, non capivo nemmeno quanto latte dovevo mettere, perché quando cominciavo a misurare grammi, decigrammi, ettogrammi mi perdevo.

           

 

            Mi dispiace, ma trovavo che le ricette in generale fossero davvero troppo difficili da capire.

                                   Mi confondevano.

                        Ed anche la matematica lo era.  

                                   Eravamo universi completamente differenti.

 

 

 

Sbuffai ancora, stendendomi direttamente sull’auto.

           

 

Se la Coach m’avesse visto, mi avrebbe riempita di brutte parole ed avrei dovuto fare troppi addominali.

 

 

 

                        Pazienza.

 

 

 

Mi sarei tenuta stretta le sgridate.

            In quel momento proprio non mi interessava niente.

 

 

 

            Accidenti, che situazione.

 

 

                        Mi sentivo annoiata come una mosca senza cacca.

                                   Mi sentivo davvero… stravolta.

                                               Forse anche un pochino persa.

                       

 

           

 

 

 

                                   Tanto Santana non mi guardava comunque.

 

 

 

 

 

 

«Pierce vuoi fare sesso con me?».

 

 

 

 

Non mi presi nemmeno la briga di vedere chi avesse parlato; fregava poco e niente.

            Tanto non era la voce di Santana.

 

 

 

«No», risposi annoiata, guardando il cielo blu, e le nuvole rincorrersi allegre nell’aria.

 

 

 

            Anche io volevo essere allegra.

                        Ma non lo potevo essere.

 

Santana non c’era, e non aveva senso trovare qualcuno o qualcosa che mi rendesse felice allo stesso modo, perché quel qualcuno e quel qualcosa non erano lei.

            E poi non avrei mai trovato qualcuno o qualcosa che mi rendesse felice come ci riusciva lei.

 

 

 

«Dai, Pierce, andiamo».

 

 

 

            Una mano si appoggiò sui miei polpacci e prese a stringermi forte la carne.

 

 

 

Irritata, mi alzai di scatto, calciando via il braccio di quell’energumeno che non ricordavo di aver mai visto prima d’allora.

 

 

 

 

«Ti ha detto di no. Vattene».

 

 

 

 

            Un altro paio di mani, calde, delicate, forti, color caffelatte si appoggiarono sul mio corpo, ed improvvisamente mi sentii coperta da uno scudo invisibile.

 

 

                        E percepii i raggi del sole scaldarmi la pelle, per la prima volta, in quella mattina.

            Era il mio sole latino.

                       

 

 

 

                                   Il piccolo panda ora era contento.

 

 

 

 

«Cerchi rogne, Lopez? Oppure sei gelosa della tua amichetta e vuoi farlo tu, con me?».

 

 

 

 

            Crank.

                       

 

Crank.

                       

                                  

Crank.

 

 

 

 

Oh.

           

 

 

 

            Quando Santana scrocchiava il collo non era proprio una bella cosa.

 

 

 

 

«Vattene», ripeté lei, avanzando con i pugni alzati verso il tizio, parandosi completamente tra me e lui. «O ti ritroverai presto i coglioni in bocca. I tuoi stessi coglioni. E no, non ti svelerò il mio segreto. Ma sappi che passerai un lungo ed interminabile mese in Degenza all’Ospedale».

 

 

 

 

            Il ragazzo mantenne il medesimo sguardo scontroso, battendo tuttavia la ritirata.

 

 

 

 

«Figlio di puttana», borbottò lei, continuando a fissarlo.

 

 

 

 

                        Improvvisamente, non c’erano più pezzi di finestra e cuore rotto sul pavimento sotto i miei piedi.

 

 

           

                        C’erano tanti frammenti di sole tutt’intorno a me.

                                   Il sole che aveva portato Santana.

 

 

 

            Non riuscii a trattenermi da allungare una mano verso di lei, appoggiandogliela delicatamente sulla sua meravigliosa spalla scoperta.

           

 

 

            Oh, ero così felice che fosse lì con me.

 

 

 

 

Santana sobbalzò, ma si acquietò subito una volta visto il mio sorriso.

 

 

 

 

«Grazie», mormorai, sentendo il cuore battere forte forte.

 

 

 

            Ecco.

 

Santana fece un sorriso bellissimo e sentii il mio cuore rompersi di nuovo, questa volta in mille scintille di fuoco d’artificio color arcobaleno.

 

 

 

 

«Figurati», sussurrò appena, arrossendo dolce in viso.

 

 

 

            Non seppi perché, ma sentii la tremenda urgenza di ringraziarla con un bellissimo bacio.

            Uno di quelli che ci scambiavamo in camera, a letto.

Uno di quelli che ci faceva girare la testa quando eravamo sotto la doccia, con l’acqua calda sparata a mille contro i nostri corpi.

            Uno di quelli che ci faceva volare in alto nel cielo, oltre le nuvole, nei sogni.

                        Uno di quelli che – sapevo – rendeva Santana felice e deliziosa come il giorno di Natale.

 

 

 

                        Oh, volevo davvero così tanto poterla premiare!

 

 

 

«San…», la chiamai, a bassissima voce, scivolando col corpo sul cofano dell’auto, verso di lei, allacciando le gambe strette strette dietro alla sua schiena.

 

 

 

            Santana s’irrigidì di botto, cominciando a mordersi le labbra con forza.

 

 

                                   Il suo sguardo gridava “ho paura!” in tutte le lingue del mondo.

 

 

 

                        Accidenti.

 

 

            Perché doveva sempre comportarsi così, quando eravamo in pubblico?

 

 

 

«Brittlo sai che non…», gracchiò secca, tesissima, appoggiando le sue mani ai lati del mio bacino, sull’auto. «Non…».

 

 

 

 

            Fui davvero veloce come un leprotto il giorno di Pasqua; mi sporsi verso di lei, strappandole un intenso bacio-premio.

 

 

 

 

«Sei il mio possente cavaliere con la scintillante armatura. Non dimenticarlo»*, mormorai, lasciandola senza fiato.

 

 

E, beh.

 

            Santana era troppo shockata per dire qualcosa.

 

                        È che non capivo cosa le stesse passando per la testa.

            Sembrava potesse esplodere da un momento all’altro.

                        Sapevo che era preoccupatissima che l’avessi appena baciata in pubblico.

Eppure a me non interessava; voglio dire, mica stavamo ammazzando qualcuno, no?

            Che piaga d’Egitto sarebbe mai stata, quella?

                       

                                   A me sembrava un dolce regalo, quel bacio.

                       

 

 

«Brit», gracchiò rigida, fissandomi con gli occhi fuori dalla testa. «Non farlo mai più».

 

 

                                   Ancora, mi guardò in quel modo.

                                               Sembrava non mi vedesse nemmeno, in quel momento.

 

           

Cercai di capire cosa le stesse succedendo in testa, e perché mi avesse parlato in modo così… sgarbato.

           

                        No, non sgarbato.

           

 

 

                                               Ferito ed impaurito, piuttosto.

 

 

 

 

«San? Che cos-», feci appena in tempo a dire, che lei si svincolò dal mio abbraccio, fuggendo via.

 

 

 

            Rimasi con lo sguardo fisso nel vuoto per vari istanti.

 

 

 

Ora avevo il cuore rotto di nuovo, in mille piccoli pezzi di vetro.

            E Santana aveva chiuso – e rotto – quella finestra, lasciandomi al buio, senza luce.

 

 

 

                        Mi guardai attorno; non c’era nessuno – nessuno che si stesse facendo i cavoli miei e di Santana.

 

 

 

                                   A parte Quinn.

                                                  

 

                        Mi guardò strana.

                                  

 

Tant’è che mi montò una altrettanto strana rabbia in corpo, e scesi dall’auto, intenzionata ad andare a casa e seppellirmi nel letto per tutta la vita, insieme ai peluches che San mi aveva regalato.

 

                        Pulcino era il mio preferito.

                        Pulcino mi avrebbe sicuramente capita.

                        Pulcino avrebbe raccolto tutte le mie lacrime e mi avrebbe detto di aspettare.

Pulcino mi avrebbe consolata, tra le sue piumose ali profumate.

                        Pulcino lo sapeva che tanto, prima o poi, Santana sarebbe tornata.

                                   Beh, lo sapevo anche io.

                                               Solo, non sapevo quando.

 

Non mi avrebbe parlato per un bel po’.

                                               Ne ero sicura.

 

 

                                   Forse mi detestava anche.

                        Avevo fatto la cattiva con lei.

                       

                                   Eppure non mi sembrava di averle mancato di rispetto.

            Cioè, io volevo solamente premiarla

                        Volevo … renderle migliore la giornata.

           

 

                                               È che mi era mancata tanto.

 

 

 

 

           

«Brittany perché piangi?».

 

 

 

            Strizzai gli occhi e percepii qualche lacrima solcarmi il volto.

Levai lo sguardo verso l’alto e m’accorsi che quella strana professoressa dai capelli rossi, quella con tutte le manie, con gli occhi grandi quanto quelli di Bambi, mi stava guardando con tristezza.

 

 

 

«Mi dispiace», mormorai, con la voce rotta e singhiozzante. «Non me ne ero accorta. Sono tanto triste e non mi ero resa conto di piangere. N-non lo sto facendo apposta, è che… che non riesco proprio a smettere».

 

 

            Ed era vero.

 

 

Tutto ciò che volevo, in quel momento, era un sorriso potente e magico di Santana, perché solamente quello avrebbe portato via il male da me.

 

 

 

 

«Brittany, ora cerca di calmarti, e raccontami cosa è successo…».

 

 

 

            Mi disse altro, ma non riuscii ad ascoltarla; dietro la siepe del cortile, con la casacca Cheerios addosso, c’era Santana.

            Aveva i capelli sciolti e sembrava… avesse pianto.     

 

 

                                   La mia cucciola triste e bellissima.

                                              

 

                        Stava guardando dalla nostra parte.

            Stava cercando me, lo sapevo.

                                   Sapevo che si sentiva in colpa quando mi trattava male.

                        Glielo leggevo negli occhi.

 

 

 

                        Incrociammo per un istante lo sguardo.

                                   Mi sentii tremare forte, ed il mio cuore vibrò ripetutamente.

                                              

 

 

            Passarono forse tre secondi; poi, rapida come un alito di vento, sparì oltre la siepe.

 

 

 

 

E allora non ci vidi più dal dolore, e cominciai a correre verso di lei.

 

 

 

            Dovevo trovarla per dirle che mi dispiaceva averla fatta arrabbiare.

            Dovevo trovarla per giurarle che non mi sarei mai, mai, mai più permessa di baciarla davanti a tutti.

            Dovevo trovarla per dirle che non potevo essere felice se lei non mi sorrideva.

 

 

 

                        Dovevo trovarla…

           

 

 

Ma tanto lei non c’era più.

 

 

            Giunsi dietro la siepe, ma di lei non era rimasta nemmeno l’ombra.

 

 

 

Sbuffai dispiaciuta, asciugandomi in malo modo le lacrime.

 

 

                       

                        Mi faceva tanto male il cuore.

                                   Davvero tanto.

            E mi sentivo come se non potessi essere mai più felice.

 

 

 

Rassegnata ed in lacrime, mi avviai verso la bicicletta.

            Tanto, ormai, Santana se n’era andata.

           

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Quando giunsi a casa, qualche ora dopo, non trovai nessuno.

 

 

            Probabilmente erano andati tutti a cena dalla nonna.

 

                                              

 

 

                        Forse era meglio così.

            Ero davvero troppo triste per fare qualsiasi cosa.

Nemmeno le mie adorate papere erano riuscite a tirarmi su di morale.

            Avevo passato ore in riva al laghetto, nella speranza che Santana mi venisse a cercare.

                        Nella speranza che mi dicesse che quello era solamente un bruttissimo incubo e presto sarebbe finito.

           

 

 

 

                        Ma niente.

 

           

 

Mi trascinai in bagno, cavandomi felpa, costume, gonna e scarpe; mi guardai allo specchio, e mi accorsi solo in quel momento di quanto brutta fosse la mia faccia. Avevo gli occhi rossi e gonfi dal pianto, il naso arrossato ed i capelli tutti scompigliati.

           

Santana non mi avrebbe mai più voluta.

                       

 

 

                        Tornai in camera da letto, raccattando il cambio.

 

 

 

 

 

            Tic.

 

 

 

 

Un suono secco e sordo mi fece spaventare.

 

 

 

 

                        Tic.

 

 

 

Ancora, il medesimo rumore risuonò nell’aria.

            Mi volsi, guardandomi attorno, ma non vidi nulla.

 

 

 

 

           

                                   Tic.

 

 

 

 

 

            E poi lo vidi.

 

 

 

 

Vidi un sassolino colorato sbattere contro la mia finestra.

 

 

 

 

                                               Tic.

 

 

 

 

Cacciai il cambio sul letto, fiondandomi in quella direzione.                                

 

 

 

 

Mi sporsi dal davanzale e…

 

 

 

           

 

                                                           Tic.

 

 

 

 

 

            Non era un sassolino; erano caramelle.

 

 

 

E laggiù, nel cortile, c’era il mio adorato angelo color caffelatte.

 

 

 

            Subito, il mio cuore prese a battere forte forte.

            Subito, il sole comparve all’orizzonte.

            Subito, l’arcobaleno squarciò il cielo, spazzando via il temporale.

 

 

 

Santana mi stava sorridendo timida, e continuava a lanciarmi chicche colorate in balcone.

 

 

 

Uscii immediatamente fuori, affacciandomi dalla ringhiera.

 

 

 

 

                        Oh, era bellissima.

 

 

 

 

«Sono… venuta per chiederti… scusa», disse lei, guardandomi un pochetto triste ed un pochetto felice, grattandosi imbarazzata la nuca. «Mi… vieni ad aprire?»

 

 

 

 

            Riuscii a pensare solamente ad una cosa, in quell’istante: per quanto Santana avesse continuato a frantumarmi il cuore, sapevo che, in un modo o nell’altro, sarebbe sempre stata in grado di aggiustarmelo di nuovo.

 

 

 

 

«Non vorrai mica che io ti rompa la finestra a suon di caramellate, vero?».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*Frase tratta dal film “Sul Lago Dorato”.

   
 
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