Mmhm.
Ho
ricominciato a guardare Glee.
E
vabeh, cheppalle, si
avvicina Natale e sono più depressa del solito.
Ho
rivisto per l’ennesima volta la puntata 1x03.
Ho rivisto Brittany
Pierce (….fottuta
Heather Morris gnocca) e quel costume rosso.
Ho rivisto anche Santana Lopez, in
un angolo, intenta a lavare le auto con Quinn Fabray…
Beh,
ecco, non ce l’ho fatta a non pensare
una ennesima, svitata shot pure su questa cosa.
[La
canzone, nella puntata, era solamente frutto della mente di Mercedes; mentre,
in realtà, in questa shot, la canzone è
effettivamente esterna, e non solo un “pensiero” della ragazza].
Bust your
Windows.
Brittany’s POV
«I
bust the windows out your car!».
La canzone terminò; l’eco
delle ultime parole riecheggiò per vari istanti nel cortile della scuola.
Non partì nessun applauso;
tutti erano ancora troppo
scandalizzati.
Non c’era nessuno che non avesse assistito a quella scena.
A
quel “lancio di sasso” perfetto.
C’era
un silenzio tombale.
Uno di quei silenzi che mi mettevano agitazione
addosso.
Quel silenzio angosciante che
sentivo la notte, quando la mamma chiudeva la porta della mia camera.
Cavolo.
Non
sopportavo il buio: mi terrorizzava.
Eppure, ehi! Garantisco che Mercedes
aveva cantato davvero bene – anche se assomigliava tanto ad un Pocket Coffee gigante, quando si
muoveva, con quegli abiti strani e tanto colorati addosso.
E
l’esibizione di noi Cheerios era stata a dir poco impeccabile.
E comunque continuavo a
non capire il perché di tutto quel
silenzio.
Okay, Mariah
Carey aveva appena fatto un buco
di venti centimetri sul vetro della
macchina di Pinocchio, quel ragazzo
magro col riporto che seguiva alcune lezioni con me.
Mmh,
si chiamava Burt.
…
O Kurt?
Accidenti,
non ricordavo.
Insomma, tutto quel silenzio era
davvero esagerato.
Capisco lo
stupore iniziale.
Però
poi… basta, no?
Forse ero
l’unica a non vederci niente di che.
Niente
di così esageratamente irreparabile.
Voglio dire,
se Pinocchio aveva i soldi per
permettersi un macchinone del genere,
li avrebbe trovati anche per riparare
il vetro, no?
E
poi, detto in tutta sincerità, non era forse un po’ troppo eccessivo tutto quel
casino per un tizio come lui?
Non era poi tutto ‘sto granché – soprattutto
esteticamente.
Si vestiva
in un modo… strano.
Con abiti da donna, spesso.
Non sapevo
che gli uomini potessero portare abiti da donna.
Ecco, forse, perché a Pinocchio – sì, gli assomigliava in
tutto e per tutto, dentro e fuori –
piaceva quel canguro gigante di Finn Hudson?
Sì,
perché Pinocchio aveva raccontato una
bugia a Mercedes.
Io lo sapevo bene che non era Rachel
la sua mira.
Era
scontato, insomma!
Vedevo come
lo guardava di nascosto, quando eravamo a lezione.
Mi sentivo pure un pochetto triste per lui; non credo che a Finn sarebbe mai potuto andare a genio.
Soprattutto perché Kurt
era ancora così piccolo, e frequentava già le superiori! Una cosa da pazzi!
Forse i suoi genitori avevano sbagliato ad iscriverlo al Liceo; non
sembrava affatto avere la nostra età.
Io gli davo tredici anni; non aveva nemmeno un pelo
di barba in faccia!
Non gli
avevo proposto di fare sesso con me
proprio per quel motivo: era troppo giovane!
Senza contare che aveva le mani
davvero lisce e tenere, come quelle di un bambino – gliele avevo toccate per curiosità.
«Ragazze
abbiamo ballato veramente bene!»,
esclamò all’improvviso una tizia al mio fianco, di cui non ricordavo il nome, ma che ero sicura di aver visto già da qualche parte – forse in palestra? O durante gli allenamenti
delle Cheerios?
«La Coach Sylvester ci stava guardando, prima. Senza dubbio è stata una delle
nostre performances migliori!».
Non appena quell’assurdo silenzio s’era sciolto,
alcune Cheerios si erano abbracciate e battute il
cinque a vicenda, ridendo e scherzando; un’altra ragazza venne da me e mi
abbracciò con calore – … chi era, porcamiseria? Non riuscivo proprio a ricordare.
Ricambiai insicura l’abbraccio,
sorridendo a stento.
Inevitabilmente,
il mio sguardo piombò sull’unica
persona che avrei voluto che mi abbracciasse in quell’istante.
Quell’unica persona che avrei voluto stringere tra le mie braccia.
Quella persona che, al momento, era impegnata.
Con un’altra.
Oh, che
nervoso.
Mi si aggrovigliò lo stomaco
all’istante, e mi staccai immediatamente da quella ragazza con tutte quelle
lentiggini in faccia.
Santana non mi aveva ancora rivolto
la parola da ieri sera.
Forse era arrabbiata?
Non sapevo
affatto cosa le stesse passando per la testa.
È che mi ero
svegliata alle cinque, quella mattina, e lei
non era più nel mio letto.
Lo so, lei non rimaneva mai dopo che facevamo l’amore – con lei, lei soltanto lo facevo, anche se Santana
non voleva che parlassimo di quell’argomento. Diceva che… beh, non diceva nulla, per la verità. Non le piaceva parlarne, e basta.
Eppure, ieri sera non se
n’era andata come al solito.
In effetti
sembrava avere l’aria davvero stanca.
Mi aveva chiesto di dormire con lei,
ed io ero diventata il piccolo panda più felice del mondo.
Era tutto
così bello, profumato e colorato quando avevo lei attorno.
Anche il mio letto era contento.
Mi aveva
addirittura permesso di abbracciarla nel sonno – cosa che non succedeva mai.
E poi, ecco, mi ero svegliata.
E lei non c’era più.
E quella mattina non era
nemmeno passata a prendermi.
Non l’avevo incontrata neanche agli
armadietti.
Probabilmente
era solo una giornataccia.
Accadevano spesso; ecco
perché non me ne ero preoccupata troppo.
Anche se, in realtà, in quel momento
cominciavo ad intristirmi per
davvero.
Era immersa
in una conversazione con Quinn ormai già da un’oretta buona, da quando avevamo
cominciato a lavare tutte quelle auto – che poi, dico io, ma chi ce lo faceva fare di lavare la macchina di qualcun altro, e non la nostra? –, e non mi aveva guardata
neanche per un secondo.
Non era nemmeno venuta a
ballare con me.
Forse le avevo fatto qualcosa?
Avevo detto qualcosa di
sbagliato?
Oppure non le era piaciuta
la canzone?
La
capivo, a dire il vero.
Sinceramente,
faticavo a comprendere le parole di
quel testo.
Cioè,
sì, le capivo, ma… al contempo non
le capivo.
Il brano parlava di finestre e cuori rotti.
Era un collegamento complesso, quello da fare
tra le due cose.
Io avevo
capito poco, lo ammetto – e poi, a
dirla tutta, quando ballavo ero troppo impegnata, e non prestavo attenzione a ciò che avevo attorno – ma, forse, una sola cosa era chiara di quel testo: un cuore
che si rompe fa lo stesso rumore di
una finestra che si frantuma in mille
pezzi.
Ed anche le ferite ed i tagli sono
gli stessi!
Diavolo.
Sanguinano e fanno male allo stesso
modo.
Lo sapevo per certo,
perché mi sentivo una finestra rotta
al posto del cuore, in quel momento.
Sbuffai
irritata, cacciandomi a sedere sul cofano di un’auto, ancora bagnata.
Accidenti,
avevo un caldo assurdo.
Eppure ero
praticamente nuda.
Ma perché, perché Santana parlava con Quinn, e non con me?
Avevo pure quel costumino rosso che a San piaceva tanto.
E le calze rigate.
E la gonnellina che mi lasciava scoperto il sedere.
E i capelli raccolti a coda.
E pure quell’eyeliner che mi faceva gli occhi “da gatto”, come diceva lei.
Ma, forse, impegnata com’era con quella, non ci aveva nemmeno fatto caso.
Uffa.
Porcamiseria, non capivo cos’avessero
di così importante da dirsi.
Così importante da impedire alla mia Cioccolatina di ballare con me.
Mi sentivo davvero… male.
Come una brutta, bruttissima sensazione in testa.
Ma anche, e soprattutto,
nel cuore.
Mi sentivo triste.
Come un piccolo panda triste.
Triste
come quando non vedevo Santana
sorridere.
Triste
come quando Santana parlava con altri
e non con me.
Triste
come quando Santana non rimaneva a
dormire con me.
È che, ripeto, pensavo mi avesse guardato
mentre ballavo.
Lo
so, lo so che le piaceva.
E le piacevo.
Almeno… aveva detto così.
In quel momento,
Quinn s’era messa a ridere, ancheggiando nell’aria, alludendo a chissà quale battuta delle sue.
Avevo voglia di mettermi a piangere.
Cavolo.
Sentivo ancora quel male.
Lo stesso male che fa un cuore rotto in tanti piccoli pezzetti.
Ma a Santana non importava poi
molto.
Non mi aveva
guardata nemmeno una volta.
Lo sapevo
che non dovevo affatto darci peso.
Non
più di quel tanto, diciamo.
Alla fine, quante persone trattava
esattamente allo stesso modo?
Oh, anche se
so, so per certo che con me era diverso.
Santana era diversa.
Era nuda.
Oh, mi piaceva così tanto quando era nuda nel letto.
Ma, soprattutto, quando era nuda nell’anima e nello sguardo, e
non portava quei meravigliosi occhi neri con
il “mantello” addosso.
E da lì, proprio da lì, si riuscivano a capire
tante cose, di lei.
Nuda,
bella, immensa, dolce, fragile, tetra, misteriosa, ilare, meravigliosa.
Delicata nelle parole,
nei gesti, fugace e bollente nelle occhiate.
Affettuosa nelle carezze, premurosa
negli sguardi, fragrante nel sapore
dei suoi baci.
Insicura,
indifesa come un piccolo tigrotto
sperduto nella giungla, ma, al contempo, forte ed impeccabile come le onde del mare contro gli scogli durante un
maremoto.
Eppure, sapevo
quanto le desse “fastidio”, tutto questo
parlare ed ammirarsi.
Non le piaceva quando la accarezzavo
troppo.
Non le piaceva quando la
guardavo troppo.
Non le
piaceva quando… quando i nostri cuori
battevano troppo forte.
Non le piaceva quando le cose
diventavano troppo serie.
Non le
piaceva sentirsi così legata ed influenzata da… qualcuno.
Anche se quel “qualcuno” ero io.
Non le piaceva parlare di sentimenti.
Oh, no, proprio per nulla.
Nemmeno se io ero proprio “quei sentimenti”.
E
questa cosa era davvero bruttissima.
Tipo la più orrenda del mondo.
La cosa più fredda e triste che io avessi mai provato.
Mi faceva venire il voltastomaco e malissimo alla testa.
Oddio.
Era la
stessa sensazione di distruzione e totale impotenza che mi prendeva quando
provavo a fare la torta Sacher.
Troppo, troppo, davvero troppo impegnativa.
Ci volevano troppe uova – quattordici uova, QUATTORDICI!
… troppi pulcini sacrificati.
E ci volevano pure troppi ingredienti.
E, spesso,
non capivo nemmeno quanto latte dovevo mettere, perché quando cominciavo a
misurare grammi, decigrammi, ettogrammi
mi perdevo.
Mi
dispiace, ma trovavo che le ricette
in generale fossero davvero troppo difficili
da capire.
Mi confondevano.
Ed anche la matematica lo era.
Eravamo
universi completamente differenti.
Sbuffai
ancora, stendendomi direttamente sull’auto.
Se la Coach
m’avesse visto, mi avrebbe riempita di brutte
parole ed avrei dovuto fare troppi
addominali.
Pazienza.
Mi sarei
tenuta stretta le sgridate.
In quel momento proprio non mi
interessava niente.
Accidenti,
che situazione.
Mi sentivo annoiata come una mosca senza cacca.
Mi sentivo
davvero… stravolta.
Forse
anche un pochino persa.
Tanto Santana
non mi guardava comunque.
«Pierce vuoi fare sesso con me?».
Non mi presi
nemmeno la briga di vedere chi avesse parlato; fregava poco e niente.
Tanto
non era la voce di Santana.
«No», risposi
annoiata, guardando il cielo blu, e le nuvole rincorrersi allegre nell’aria.
Anche io volevo essere allegra.
Ma non lo potevo essere.
Santana non c’era, e non aveva senso trovare qualcuno o qualcosa che mi rendesse felice
allo stesso modo, perché quel qualcuno e quel qualcosa non erano lei.
E poi non avrei mai trovato qualcuno
o qualcosa che mi rendesse felice
come ci riusciva lei.
«Dai,
Pierce, andiamo».
Una mano si appoggiò sui miei
polpacci e prese a stringermi forte la carne.
Irritata, mi
alzai di scatto, calciando via il braccio di quell’energumeno che non ricordavo di aver mai visto prima
d’allora.
«Ti ha detto di no. Vattene».
Un altro paio di mani, calde, delicate, forti, color caffelatte
si appoggiarono sul mio corpo, ed improvvisamente mi sentii coperta da uno scudo invisibile.
E percepii i raggi del sole scaldarmi la pelle, per la prima
volta, in quella mattina.
Era il mio sole latino.
Il piccolo panda ora era contento.
«Cerchi
rogne, Lopez? Oppure sei gelosa della
tua amichetta e vuoi farlo tu, con
me?».
Crank.
Crank.
Crank.
Oh.
Quando Santana scrocchiava il collo non era proprio una bella cosa.
«Vattene», ripeté lei, avanzando con i pugni
alzati verso il tizio, parandosi completamente
tra me e lui. «O ti ritroverai presto i
coglioni in bocca. I tuoi stessi coglioni. E no, non ti svelerò il mio segreto. Ma sappi che passerai un lungo ed interminabile mese in Degenza
all’Ospedale».
Il ragazzo mantenne il medesimo
sguardo scontroso, battendo tuttavia la ritirata.
«Figlio di puttana», borbottò lei,
continuando a fissarlo.
Improvvisamente, non
c’erano più pezzi di finestra e cuore rotto sul pavimento sotto i miei
piedi.
C’erano
tanti frammenti di sole tutt’intorno
a me.
Il sole che aveva portato Santana.
Non riuscii a trattenermi da
allungare una mano verso di lei, appoggiandogliela delicatamente sulla sua
meravigliosa spalla scoperta.
Oh,
ero così felice che fosse lì con me.
Santana
sobbalzò, ma si acquietò subito una volta visto il mio sorriso.
«Grazie»,
mormorai, sentendo il cuore battere forte forte.
Ecco.
Santana fece
un sorriso bellissimo e sentii il mio
cuore rompersi di nuovo, questa volta
in mille scintille di fuoco
d’artificio color arcobaleno.
«Figurati»,
sussurrò appena, arrossendo dolce in viso.
Non seppi perché, ma sentii la tremenda
urgenza di ringraziarla con un bellissimo
bacio.
Uno di quelli che ci scambiavamo in camera, a letto.
Uno di
quelli che ci faceva girare la testa quando eravamo sotto la doccia, con l’acqua calda
sparata a mille contro i nostri corpi.
Uno di quelli che ci faceva volare in alto nel cielo, oltre le
nuvole, nei sogni.
Uno di quelli che – sapevo – rendeva Santana felice e
deliziosa come il giorno di Natale.
Oh, volevo davvero così tanto poterla premiare!
«San…», la
chiamai, a bassissima voce, scivolando col corpo sul cofano dell’auto, verso di
lei, allacciando le gambe strette strette dietro alla sua schiena.
Santana s’irrigidì di botto,
cominciando a mordersi le labbra con forza.
Il suo
sguardo gridava “ho paura!” in tutte
le lingue del mondo.
Accidenti.
Perché doveva sempre comportarsi così, quando eravamo in pubblico?
«Britt… lo sai che non…»,
gracchiò secca, tesissima, appoggiando le sue mani ai lati del mio bacino,
sull’auto. «Non…».
Fui davvero veloce come un leprotto il
giorno di Pasqua; mi sporsi verso di
lei, strappandole un intenso bacio-premio.
«Sei il mio possente cavaliere con la
scintillante armatura. Non dimenticarlo»*, mormorai, lasciandola senza
fiato.
E, beh.
Santana era troppo shockata
per dire qualcosa.
È che non capivo cosa le
stesse passando per la testa.
Sembrava potesse esplodere da un
momento all’altro.
Sapevo che era
preoccupatissima che l’avessi appena baciata in pubblico.
Eppure a me non interessava; voglio dire, mica
stavamo ammazzando qualcuno, no?
Che piaga d’Egitto sarebbe mai stata, quella?
A me sembrava
un dolce regalo, quel bacio.
«Brit», gracchiò rigida, fissandomi con gli occhi fuori
dalla testa. «Non farlo mai più».
Ancora, mi
guardò in quel modo.
Sembrava
non mi vedesse nemmeno, in quel momento.
Cercai di
capire cosa le stesse succedendo in testa, e perché mi avesse parlato in modo
così… sgarbato.
No, non sgarbato.
Ferito ed impaurito, piuttosto.
«San? Che cos-»,
feci appena in tempo a dire, che lei si svincolò dal mio abbraccio, fuggendo
via.
Rimasi con lo sguardo fisso nel
vuoto per vari istanti.
Ora avevo il
cuore rotto di nuovo, in mille
piccoli pezzi di vetro.
E Santana aveva chiuso – e rotto – quella
finestra, lasciandomi al buio, senza
luce.
Mi guardai attorno; non
c’era nessuno – nessuno che si stesse
facendo i cavoli miei e di Santana.
A parte Quinn.
Mi guardò strana.
Tant’è che
mi montò una altrettanto strana rabbia
in corpo, e scesi dall’auto, intenzionata ad andare a casa e seppellirmi nel
letto per tutta la vita, insieme ai peluches che San mi aveva regalato.
Pulcino era il mio preferito.
Pulcino mi avrebbe sicuramente capita.
Pulcino avrebbe raccolto tutte le mie lacrime e mi avrebbe detto di
aspettare.
Pulcino mi avrebbe consolata, tra le sue piumose ali profumate.
Pulcino lo sapeva che tanto, prima o poi, Santana sarebbe tornata.
Beh, lo
sapevo anche io.
Solo,
non sapevo quando.
Non mi avrebbe parlato per
un bel po’.
Ne
ero sicura.
Forse mi
detestava anche.
Avevo fatto la cattiva con lei.
Eppure non mi
sembrava di averle mancato di rispetto.
Cioè, io volevo solamente premiarla…
Volevo … renderle migliore la giornata.
È
che mi era mancata tanto.
«Brittany perché piangi?».
Strizzai gli occhi e percepii
qualche lacrima solcarmi il volto.
Levai lo
sguardo verso l’alto e m’accorsi che quella strana professoressa dai capelli rossi,
quella con tutte le manie, con gli
occhi grandi quanto quelli di Bambi,
mi stava guardando con tristezza.
«Mi dispiace», mormorai, con la voce rotta e
singhiozzante. «Non me ne ero accorta.
Sono tanto triste e non mi ero resa
conto di piangere. N-non lo sto facendo apposta, è che… che
non riesco proprio a smettere».
Ed era vero.
Tutto ciò
che volevo, in quel momento, era un sorriso
potente e magico di Santana,
perché solamente quello avrebbe
portato via il male da me.
«Brittany, ora cerca di calmarti, e raccontami cosa è
successo…».
Mi disse altro, ma non riuscii ad
ascoltarla; dietro la siepe del cortile, con la casacca Cheerios addosso, c’era Santana.
Aveva i capelli sciolti e sembrava…
avesse pianto.
La mia cucciola triste e bellissima.
Stava guardando dalla
nostra parte.
Stava cercando me, lo sapevo.
Sapevo che si
sentiva in colpa quando mi trattava male.
Glielo leggevo negli
occhi.
Incrociammo per un
istante lo sguardo.
Mi sentii tremare forte, ed il mio cuore vibrò
ripetutamente.
Passarono forse tre secondi; poi,
rapida come un alito di vento, sparì oltre
la siepe.
E allora non
ci vidi più dal dolore, e cominciai a
correre verso di lei.
Dovevo trovarla per dirle che mi
dispiaceva averla fatta arrabbiare.
Dovevo trovarla per giurarle che non
mi sarei mai, mai, mai più permessa di baciarla davanti a
tutti.
Dovevo trovarla per dirle che non potevo essere felice se lei non mi
sorrideva.
Dovevo trovarla…
Ma tanto lei non c’era più.
Giunsi dietro la siepe, ma di lei non era rimasta nemmeno l’ombra.
Sbuffai
dispiaciuta, asciugandomi in malo modo le lacrime.
Mi faceva tanto male il cuore.
Davvero
tanto.
E mi sentivo come se non potessi essere mai più felice.
Rassegnata ed
in lacrime, mi avviai verso la bicicletta.
Tanto, ormai, Santana se n’era
andata.
*
Quando
giunsi a casa, qualche ora dopo, non trovai nessuno.
Probabilmente erano andati tutti a
cena dalla nonna.
Forse era meglio così.
Ero davvero troppo triste per fare qualsiasi cosa.
Nemmeno le mie adorate papere erano riuscite a
tirarmi su di morale.
Avevo passato ore in riva al
laghetto, nella speranza che Santana mi venisse a cercare.
Nella speranza che mi
dicesse che quello era solamente un bruttissimo incubo e presto sarebbe finito.
Ma niente.
Mi trascinai
in bagno, cavandomi felpa, costume, gonna e scarpe; mi guardai allo specchio, e
mi accorsi solo in quel momento di quanto brutta
fosse la mia faccia. Avevo gli occhi rossi e gonfi dal pianto, il naso
arrossato ed i capelli tutti scompigliati.
Santana
non mi avrebbe mai più voluta.
Tornai in camera da
letto, raccattando il cambio.
Tic.
Un suono
secco e sordo mi fece spaventare.
Tic.
Ancora, il
medesimo rumore risuonò nell’aria.
Mi volsi, guardandomi attorno, ma
non vidi nulla.
Tic.
E poi lo vidi.
Vidi un sassolino colorato sbattere contro la
mia finestra.
Tic.
Cacciai il cambio
sul letto, fiondandomi in quella direzione.
Mi sporsi
dal davanzale e…
Tic.
Non era un sassolino; erano caramelle.
E laggiù,
nel cortile, c’era il mio adorato angelo
color caffelatte.
Subito, il mio cuore prese a battere
forte forte.
Subito, il sole comparve all’orizzonte.
Subito, l’arcobaleno squarciò il cielo, spazzando via il temporale.
Santana mi
stava sorridendo timida, e continuava a lanciarmi chicche colorate in balcone.
Uscii immediatamente
fuori, affacciandomi dalla ringhiera.
Oh, era bellissima.
«Sono…
venuta per chiederti… scusa», disse
lei, guardandomi un pochetto triste ed un pochetto felice, grattandosi
imbarazzata la nuca. «Mi… vieni ad aprire?»
Riuscii a pensare solamente ad una
cosa, in quell’istante: per quanto Santana avesse continuato a frantumarmi il cuore, sapevo che, in un
modo o nell’altro, sarebbe sempre stata in grado di aggiustarmelo di nuovo.
«Non vorrai
mica che io ti rompa la finestra a suon
di caramellate, vero?».
*Frase
tratta dal film “Sul Lago Dorato”.