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Autore: Cryblack    02/12/2015    2 recensioni
"Fidarsi di se stessi è il peggiore degli sbagli"
L’Olimpo, ed una ragazza.
Non è la prima storia con queste due caratteristiche, e non sarà nemmeno l’ultima.
La ragazza è una dea.
Bene, fantastico, è un enorme cliché.
La ragazza è un’assassina.
Le cose si fanno più interessanti? Assolutamente no.
La ragazza deve uccidere il ragazzo per cui ha potenzialmente una cotta.
Evviva: la coppia che scoppia!
Un tipo che si chiama Stalky.
Seriamente? È un clown per caso?
Una zia irascibile che tenta di uccidere la gente con la propria borsa e che compare nel 2% della storia; un’amica insopportabile ed un gemello che colpisce la gente a padellate in faccia.
La storia sembra interessante? No, ma non credo di essere brava a convincere la gente a leggere storie, per di più questa è nata da un’insana ossessione per i libri dello zio Rick, sebbene non sia una fanfiction, e un po’ la odio come storia, ma almeno fa ridere.
Ah, non dimentichiamoci degli insani discorsi sui pinguini e di dei ossessionati dalle mucche.
Cosa ci volete fare, nessuno ha mai detto che l’Olimpo è un posto per gente psicologicamente sana.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Alla mia famiglia, che senza sapere l’esistenza di questo libro, ha aiutato la sua creazione più di qualsiasi altra cosa o persona.

 

Le scelte si fanno in pochi secondi, e si scontano per il tempo restante.
~ La Solitudine dei Numeri Primi, Paolo Giordano

 


Capitolo I

 
Immaginate una fredda giornata d'inverno, una città dalle strade bagnate e le mura scrostate dal vento. Il silenzio cammina tra le case, quietandone i rumori all'interno, mettendo a tacere il dolore. Ora immaginate la casa più piccola e tranquilla, e spiatene l'interno da una finestra.
Urla, lacrime, domande. Ma soprattutto tormento.
Questo potrebbe sembrare l'inizio di una storia, ebbene no, questa sono io. No, non sono una città, sono una persona, ma così è come mi descriverei.
Preferisco sorvolare sulle cose banali come la mia età, il mio colore di capelli o il mio fisico, perché al contrario delle altre quindicenni questi non hanno mai avuto un grande ruolo nella mia vita.
Però voglio specificare il mio nome. Katherine. Voi non avete mai avuto curiosità di sapere il significato del vostro nome? Ebbene, io sì.
"Pura" un significato abbastanza inopportuno riferito a me, ma non mi posso lamentare, è meglio di molti altri.
Non so esattamente perché sto pensando queste cose elaborandole come un monologo nella mia mente, forse esclusivamente perché sono in auto e non ho niente da fare se non guardare il paesaggio fuori dal finestrino. Un paesaggio un po' strano a dirla tutta: alberi, alberi e alberi. Una grande varietà di soggetti a quanto pare. L'unica altra cosa che respira in quest'abitacolo, oltre al motore che scoppietta in difficoltà, è mia zia.
Molly White è una donna magra ed in forma per la sua età, anche se non so bene quale sia. Come tutte le donne che si possano definire tali, mia zia si è sempre rifiutata di divulgare i suoi anni, come se ci fosse qualcosa di male. Forse è perché quasi tutti pensano che l'età sia lo stemma della vecchiaia, io al contrario penso che sia un privilegio riuscire a resistere per tanti anni. L'età sono gli anni che hai avuto il privilegio di vivere.
Sento uno scossone e il mio busto rimbalza in avanti contro la cintura di sicurezza. Un’altra cosa da dire su Molly White, oltre che il nome più comune al mondo, è una delle poche persone che non riescono a guidare senza mettere a rischio la vita di ogni essere vivente nel raggio di due chilometri.
- Eccoci qua, siamo arrivate.
La sua voce suona smorzata, ma non ne capisco il motivo. Abbiamo effettuato questa procedura un sacco di volte. Lei mi porta in macchina fino alla mia nuova scuola, mi dà un bacio in fronte, apro la portiera dell’auto ed esco, dirigendomi da sola al mio destino.
Questa volta dal finestrino dell’auto si vede la D.O. Academy: un edificio bianco con colonne greche ed un alto portone d'ingresso di legno inciso. Sembra più un municipio che una scuola. L'edificio è accostato ad una montagna e circondato da boschi di sempreverdi. Un luogo molto appartato. Stranamente nel parcheggio non vedo molte auto, sebbene in questa scuola ci debbano essere anche alunni con la patente.
Zia Molly mi bacia in fronte, poi esco all’aria aperta. Stranamente, però, sento una portiera sbattere dietro di me, quando sono sicura di aver già chiuso la mia. Al contrario della solita procedura, la zia è scesa dall’auto e adesso si sta dirigendo verso il portone di ingresso. Mi affretto a seguirla.
Superando l’ingresso, mi ritrovo in una specie di reception. La stanza è molto spaziosa, ma il pavimento bianco è occupato solo da una pianta in vaso, alcune sedie disposte contro la parete ed una scrivania. È un posto troppo neutro, perfino per una scuola.
Mia zia non sembra fare caso all’innaturalità di questo luogo, anzi, sembra che l’unica cosa che abbia visto da quando siamo entrate sia il possente omone seduto alla scrivania, che ci sta salutando con un grande sorriso. Inquietante. Molto inquietante.
- Buongiorno.
Questo è per caso un tono dolce? Da quando la mia dura e rigida zia usa un tono così da… da adolescente?
- Buongiorno anche a lei, è qui per presentare l’iscrizione di sua figlia?
Si sporge un po’ a sinistra per riuscire a vedermi oltre la massa corporea oltremodo vicina di mia zia.
- Oh, lei non è mia figlia.
Alzo un sopracciglio. Ah, la mettiamo così eh? Adesso mi sta ripudiando per fare gli occhi dolci ad uno con vent’anni in meno di lei?
- Oh, certo, certo.
L’omone annuisce e continua a sorridere, e capisco che è abituato a scene di questo tipo. Una cosa abbastanza patetica, poverino.
Per sfuggire agli sguardi vomitevoli di mia zia, comincia a scrivere al computer, che sembra risalga al duemila avanti Cristo. No, sul serio, l’hanno costruito i dinosauri quell’affare?
Mi avvicino di un passo a quello che sembra un cassone di acciaio, ma che proietta una forte luce bianca contro il viso dell’uomo.
Rialzando lo sguardo dal monitor (sempre che un monitor ci sia e la luce non provenga semplicemente da una pietra levigata dai velociraptor) l’omone nota la mia espressione curiosa, e di sicuro anche la mia postura piegata in avanti oltre ogni limite, nell’ovvia intenzione di riuscire a vedere l’aggeggio su cui stava scrivendo.
- Ti piace? È l’ultimo modello.
Mi rivolge un sorriso smagliante e io non mi preoccupo di nascondere la mia diffidenza. Se quello è l’ultimo modello di computer io sono Miss Universo che cavalca un unicorno alato sulla scia di un arcobaleno alla ricerca della Pietra Filosofale.
Senza prestarmi più attenzione l’omone ritorna a digitare sulla tastiera e dopo qualche secondo allunga una mano verso mia zia.
- L’autorizzazione.
Zia Molly allunga una mano a sua volta, ben attenta di sfiorare quella dell’omone quando gli porge un foglietto bianco tolto dalla sua borsa da hippie.
Osservando l’autorizzazione vedo l’uomo fare una strana espressione, per poi scuotere la testa e concentrarsi sul suo lavoro. Quando finisce di digitare per la terza volta si sente il rumore di una stampante ed un nuovo foglio arriva alle mani dell’omone.
- Ultima stanza a sinistra in fondo a quel corridoio.
Con un braccio indica il corridoio prescelto. Con un’ultima occhiata all’omone ed una strizzata d’occhi che spero per lui non abbia notato, mia zia mi trascina dietro di sé nella sua solita camminata precipitosa.
- Per favore, vuoi rallentare?
Non mi guarda neanche.
- No, siamo già in ritardo.
- Forse non lo saremmo se tu non ti fossi messa a sbavare dietro al tizio della reception.
Alzo le braccia, pronta a proteggermi dall’enorme borsa da hippie che, come dice mia zia, per una distrazione mi potrebbe finire in faccia con una certa forza. Tanto per sottintendere il fatto che in questi casi mi picchia con la sua borsa che sembra piena di mattoni con quanta violenza possiede.
Stranamente questa volta l’unica cosa che sento sono i suoi passi allontanarsi. Sbircio da una fessura tra le braccia e vedo davvero la sua figura allontanarsi da me.
Forse non mi ha sentito…
Corro per raggiungerla.
- Muoviti sfaticata! E non osare mai più rivolgerti a me in quel modo!
- Ah ah, certo.
Vedo il suo perfetto chignon oscillare con la testa a destra e a sinistra.
- Piccola insolente.
Che belle queste chiacchierate tra tutrice legale e figlioccia.
Quando finalmente giungiamo al punto d’arrivo, zia Molly si volta verso di me.
- Ascoltami bene, piccola arrogante. In quindici anni ho cercato di prepararti meglio che ho potuto, ho fatto tutto ciò che era in mio potere per fare in modo che fossi pronta per questo momento. Purtroppo hai ereditato lo spregevole carattere di tua madre, quindi sei tutt’altro che pronta – sospira e mi lancia una specie di occhiata di rimprovero e rammarico. – Fra all’incirca quindici minuti la tua vita sarà completamente sconvolta, e fra un’ora al massimo non capirai più niente. Ti chiedo solo di mantenere il controllo e non scoppiare davanti a tutti. D’ora in poi devi avere una dignità. Lasciati alle spalle tutte le brutte cose che hai fatto e ricomincia daccapo.
Ma di che diavolo sta blaterando? Sebbene io non abbia parlato il mio viso deve esprimere tutta la mia confusione per ottenere questa sgridata.
- E togliti quell’espressione da deficiente per piacere! Te lo ripeto: d’ora in poi tu sei un’altra persona. Ed ora bussa a quella porta ed entra a schiena dritta. La spina dorsale ce l’hai, allora mostrala!
Con una sua spinta sulle scapole, mi ritrovo davanti alla porta. Lentamente alzo il pugno e busso. Quando una voce mi invita ad entrare, sento dietro di me un sussurro. Mi volto verso mi zia, con un’espressione di puro stupore.
- Cosa stai lì immobile imbecille?! Entra!
Seguendo l’ordine della zia apro la porta ed entro, chiudendo fuori il sussurro di un “ti voglio bene”.
Ancora intontita dall’inaspettata dichiarazione di mia zia, non osservo subito la stanza dove sono entrata. Mi limito a rispondere al saluto del signore appoggiato al tavolo e ad andare a sedermi in una delle tante sedie di plastica blu. Mi risveglio solo quando il signore mi porge una domanda diretta.
- Allora, lei è… la signorina Inferius?
Annuisco, poi, quando mi accorgo che non mi può vedere poiché ha gli occhi puntati sul suo cellulare, rispondo vocalmente.
- Che strano cognome…
Che strano commento direi io. Sono affari suoi se il mio cognome è strano?
Scuotendo la testa riprende a parlare da dove aveva interrotto quando sono entrata.
- Allora, stavo dicendo… io sono Massimo Ferrari, da poco preside della D.O. Academy. Sono veramente lieto di avere tutti voi come nuovi alunni, anche se non per vostra scelta.
Comincia a camminare nella stanza dalle lucide mattonelle bianche. Mi danno fastidio le persone che non riescono a stare ferme.
- Probabilmente la maggior parte di voi non conosce il vero motivo per cui siete qui. Perché avete dovuto abbandonare le vostre scuole.
Forse perché ho dovuto cambiare anche continente. Sai com’è, quando passi dal Sud Africa allo stato di Washington è un po’ difficile continuare a frequentare la solita scuola.
- Scommetto che la maggior parte di voi non ha un genitore, o è stato adottato.
Beccata.
- Probabilmente praticate anche molto sport.
In un qual senso sì. Portare i bagagli da un aeroporto all’altro ogni tre mesi è la nuova disciplina olimpica dell’anno.
- E siete eccessivamente bravi in qualcosa, come il nuoto, o le arti marziali, o il giardinaggio – o uccidere la gente – oppure gli scacchi, la moda – uccidere la gente – oppure la medicina, o internet, o ancora la meccanica – o uccidere la gente, certo – il canto, fare scherzi, spaventare le persone – o ucciderle – o tante altre cose. Dovete sapere però che queste doti non vengono del tutto da voi.
Ohh, la mia dote viene completamente da me.
- Uno dei vostri due genitori, quello scomparso, morto o che vi ha abbandonato da piccoli, bè, non è morto, né scomparso, né vi ha mai abbandonato.
Vallo a dire alla tipa dell’orfanotrofio che mi ha raccolta dalla strada quando ero in fasce.
- Perché lui, o lei che sia, è un dio.
Sì, certo, ed io sono la fata madrina di cenerentola in calzamaglia.
Un ragazzo si alza in piedi e comincia a strepitare.
- Ma che scemenza è questa?! Cos’è, uno dei tuoi soliti scherzi Jacob, eh? Lo so che sei qui brutto idiota!
Il signor Ferrari prende il quindicenne per le spalle e lo fa sedere di nuovo sulla sedia.
- Non è uno scherzo signor… Gonzales?
- Lewis.
- Sì, giusto, signor Lewis. Se si calma potrò spiegarvi meglio la situazione. Allora, gli dei dell’Olimpo esistono, sono veri. Spero che tutti voi conosciate l’Iliade, l’Eneide e l’Odissea.
Un silenzio imbarazzato attraversa il gruppo di adolescenti. Dal canto mio rimango indifferente. È ovvio che tutta questa sia una balla.
- Avete mai visto il film Troy?
- Quello con Brad Pitt?
- Esattamente.
Il preside sembra abbastanza infastidito dall’affermazione della ragazza. Purtroppo non riesco a vedere l’incauta quindicenne che ha parlato.
- Bene, nel film si fa qualche riferimento anche agli dei dell’Antica Grecia. Ebbene, voi siete loro figli. Siete dei semidei. Se ne volete una prova, fra poco l’avrete, prima però, dovete seguirmi nella vera sede della D.O. Academy. Alzatevi in piedi per favore.
Tutti, perfino io, eseguiamo l’ordine, per poi seguire il signor Ferrari (che nome ridicolo per di più) fuori dalla stanza e poi verso la fine del corridoio. Seguendo una nuova, strana abitudine, osservo le pareti alla ricerca di qualche telecamera che stia registrando lo scherzo. Non ne trovo. Il preside si ferma davanti alla parete fatta dal versante della montagna stessa.
- Questa è solo una delle tante sedi di concentramento – chissà perché questo termine mi ricorda terribilmente i campi di concentramento per ebrei di Hitler – sparse per il mondo. La sede centrale ovviamente si trova sull’Olimpo.
Già, e si chiama sede di sterminio?
Senza aggiungere altro, il signor Ferrari si volta verso il muro di pietra e preme un determinato punto. Un rumore di ingranaggi mi attraversa i timpani e lentamente la parete di pietra si sposta, lasciando solo tenebra.
- Ora seguitemi, basta attraversare l’uscio.
Il signor Ferrari, per dare il buon esempio, attraversa per primo. Molti studenti, senza esitazione lo seguono. Altri si danno man forte per farsi coraggio. Alla fine rimango solo io. Mi volto indietro, chiedendomi se sia una buona idea darmela a gambe. Probabilmente però in fondo al corridoio c’è l’omone che aspetta solo che qualcuno provi a scappare. Con un sospiro, faccio un passo avanti. Tanto vale far continuare questa baggianata, prima o poi finirà.
Poi, il buio mi smembra.
Quando riapro gli occhi sono seduta su un prato verde. Sono passati appena pochi secondi dalla brutta esperienza e non riesco davvero a credere di avere ancora tutti gli arti. Facendo forza sulle braccia, che sono felice di avere ancora, mi rialzo. Subito sento il mio stomaco fare una capriola e l’impulso di vomitare.
- Uh, sta seduta un altro po’.
Una mano mi spinge delicatamente a terra. Comincio a fare respiri profondi per fermare l’eccessiva salivazione.
- Ehi ragazzi! Questa qui non ha vomitato!
Quindi era questo lo scherzo, farci vomitare? Sono pessimi. Cerco di rialzarmi e questa volta una mano mi aiuta.
- Ehi ragazza, sei grande! Quasi tutti vomitano al primo teletrasporto.
Aggrotto la fronte. Quindi loro non volevano farci vomitare? Mi guardo intorno. Tutti gli adolescenti esultanti di poco fa adesso sono accasciati a terra, con la testa china su di un sacchetto di plastica e il viso di un colore spettrale. Il ragazzo di prima, Lewis di cognome e qualcos’altro di nome, vomita tanto forte che uno schizzo raggiunge le mie scarpe.
Con disgusto faccio un balzo indietro.
- Tieni.
Un ragazzo alto mi porge un fazzoletto. Non riesco a vederlo poiché è in controluce e i miei occhi non sono abituati ad un sole così splendente. Solo quando mi chino a pulirmi rifletto che in una grotta di montagna non ci dovrebbe essere il sole, e nemmeno l’erba.
Alzo gli occhi e mi guardo veramente attorno. Sono in un giardino di erba splendente e fiori di campo rigogliosi. Sia alla mia destra che alla mia sinistra ci sono boschi che circondano questa specie di radura. Quattro riquadri di prato da trecento metri quadrati l’uno sono stati allestiti come un’arena, una postazione di tiro con l’arco, una da lancia e una da spada. Dietro i riquadri per l’allenamento c’è un edificio bianco e massiccio, con il tetto a cupola di vetro. Intorno all’edificio ci sono delle siepi ed un laghetto dall’acqua splendente. Da qui non riesco a vedere altro, ed un po’ mi dispiace, perché questo è veramente un posto paradisiaco. Dietro di me, invece, una strada di ciottolato serpeggia tra le colline fino ad arrivare ad una montagna, dove la striscia bianca è invisibile. Lì, appollaiati sulla cima della montagna, ci sono dei rettangoli splendenti, così splendenti da sembrare gemme preziose.
- Quella è la città di Olimpo, bella eh? Ci vivono gli dei.
Sconcertata, mi volto verso il ragazzo che mi ha parlato, con capelli fiamme di candela.
- Quindi è tutto vero?
- Eccome se lo è.
Il suo sorriso smagliante mi porta a credergli, contro ogni logica. Gli dei esistono. Io forse sono figlia di uno di loro.
“Fra all’incirca quindici minuti la tua vita sarà completamente sconvolta”.
Non so darti torto zia.
   
 
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