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Autore: aniasolary    11/12/2015    2 recensioni
A ventotto anni, Arthur Benkinson ha fatto molti errori che non si perdonerà mai. Si è innamorato, due volte: forse tre, non sa ben spiegare. E' stato un disastro. Il cassetto in cui ha conservato i suoi sogni è tutto impolverato, ricorda di averne buttato la chiave.
E' imprigionato da delle catene che si è fabbricato lui stesso.
Ma forse non è troppo tardi per lasciare la sua prigione.
Forse ha solo bisogno che qualcuno ascolti la sua storia. Una storia di dolore. Una storia d'amicizia. Una storia d'amore. Una storia di crescita. Una storia per qualcuno.
Qualcuno di importante.
"Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad essere il migliore in tutto, ma tu mi hai insegnato ad essere un brav’uomo. A cogliere le margherite alla fine dello stelo, per non farle soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. A prendere le coccinelle con la paletta della polvere e a lanciarle dalla finestra, in modo che si librino in volo. A rifare il letto al mattino appena sveglio, perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose. "
(
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Terzo capitolo

 
«E così Daisy dà una megafesta in cui tutti gli invitati possono portare degli amici e gli amici possono portare con sé altri amici.» Stavi sfogliando un libro, ma senza leggerlo. Era la biografia di Maria Callas – la cantante lirica che cantava nel nostro stereo proprio in quel momento.
A casa mia, tra me e te, il terzo atto della Tosca.
«Megafesta?» ti feci eco.
«Ti ho sentito parlare con Bradley. Ma come le dite le cose, voi ragazzi? Greco e Inglese insieme. Prrr.»
Scossi la testa. Maria Callas cantava Il tuo sangue o il mio amore 
volea... Fur vani scongiuri e pianti. 
Invan, pazza d'orror, 
alla Madonna mi volsi e ai Santi... 

Mettesti via il libro accanto a te e, con un teatrale movimento di braccia bianche, m’indicasti il pacco regalo sistemato sulla poltrona. «Tua madre le ha preso un bracciale in corallo. Davvero squisito. Tutte le ragazze saranno invidiose, e tutte si innamoreranno di te.»
Sbuffai. In quel periodo queste erano le nostre conversazioni: erano fatte di sbuffi, sguardi rivolti al cielo di Liverpool anche da sotto il soffitto e sorrisi che esplodevano, sospinti dal profondo dello stomaco. Avevo l’età della paura e delle proibizioni, e tu riuscivi a misurarne tutte le insofferenze.
«Ma che innamorarsi. Mica mi interessa.»
«Non dire così. Un giorno ti vorrai ingoiare la lingua per averlo detto.» T’alzasti dal divano, presto mi fosti di fronte: ti sormontavo. Ero ancora il tuo bambino, ma quella piccola eri tu ed io un alto orso. I tuoi occhi neri mi lanciarono un ammonimento con il loro luccichio, ne rimasi folgorato. Aspettavo sempre e solo te: le tue sentenze eterne, le tue preghiere nascoste.
Mi togliesti il papillon dalla camicia e mi sbottonasti un po’. «Così va meglio, piccolo re. È sempre meglio la cravatta del cravattino. In assenza di cravatta, meglio nulla.»
L'empio mostro dicea: già nei 
cieli il patibol le braccia leva! 
Rullavano i tamburi... 
Rideva, l'empio mostro... rideva... 
già la sua preda pronto a ghermir! 

«Meno male,» risi. «Mi sentivo uno scemo con quel coso.»
Ma tu eri ancora seria. «Un giorno sarai così bello che accecherai gli occhi di chi ti guarda. Come Medusa: pietrificherai tutti, ma tutti resteranno in vita, perché in te non c’è superbia. Solo inconsapevolezza. E c’è qualcosa di divino in chi possiede qualcosa di grande ma non sa d’averlo.» Un accenno di sorriso sulla tua bocca larga, screpolata e scura. Donna, tu: quarantotto anni e palpebre come carta velina. Restavi bianca. Restavi giovane.
«Non sempre ti capisco, Eirene.»
«Come succede con tutte le cose importanti.» Finalmente mi regalasti un sorriso. «Ti scendono nel ventre e crescono e si sentono davvero solo quando ti fanno male. Adesso vai, o farai ritardo. Bradley non è ancora arrivato?»
"Sei mia!" - Sì. - Alla sua brama 
mi promisi. Lì presso 
luccicava una lama... 
Ei scrisse il foglio liberator, 
venne all'orrendo amplesso... 
Io quella lama gli piantai nel cor.

«No,» dissi, e tu t’avvicinasti al mobiletto su cui era posato un bicchiere ed una scatolina. Nel bicchiere pieno d’acqua caddero delle pillole.
«Quelle per cosa sono?» ti chiesi.
«Oh, semplice mal di testa.»
«Spengo lo stereo?»
«Oh, no, Arth,» sospirasti. «No, per l’amor del cielo. La voce della Callas mi cura da tutte le rogne.»
Qualcuno suonò il campanello.
Mi rassegnai presto. «Come vuoi… È Bradley, sicuro. Allora vado.»
Facesti un sorso. «Vai. E non tornare tardi, fai preoccupare tua madre. E sii gentile. Non sai mai quanto è stato difficile il percorso che ha fatto la persona che sta davanti a te per essere lì in quel momento. Sii gentile, sempre.»
Uscii.
Avevi già il cuore debole.
E non volevi che anch’io m’indebolissi insieme a te.
***
Daisy Spalding.
Rossa di capelli e magra come un chiodo, era un animale sociale che stava bene solo in mezzo alla gente.
Quella sera, maglietta striminzita che le lasciava scoperto l’ombelico e pantaloncini inguinali, mi abbracciò come se fossi un suo caro amico. Ci eravamo intravisti qualche volta a scuola; per lei dovevo essere solo un vicino di casa che, quando io e Bradley giocavamo a calcio, la disturbava per farsi avere indietro la palla che finiva nel suo giardino.
Bradley e Daisy si guardarono, e fu evidente che lo sguardo anche se non contiene verbi e immagini ha qualcosa che racchiude, in un solo istante, tutto quanto. Così quando lui le porse la mano per stringerla, occhi negli occhi, fu inevitabile il loro barcollare, uno sfiorarsi indeciso, un abbassare gli occhi per toccarsi di proposito e dire ciao, ciao, Brad, Daisy. Come i fiori. Eh, sì. Daisy, bello. Vado a salutare gli altri che sono arrivati.
«Buongiorno, cinesino,» feci al mio amico, gli diedi uno schiaffetto sotto al mento per ridestarlo e mi beccai un’occhiataccia.
Gli feci un sorriso tutto denti.
«Non sono cinese,» grugnì, serio.
«Lo so. Ed hai appena avuto una specie di colpo di fulmine.»
«Ti do io un bel colpo se non la pianti.»
«Ah sì?»
«Nelle palle. Quindi smettila,» fiatò. «E poi non ti sei accorto che la tua Jade è proprio qui?»
Lo stereo mandava Asereje a tutto volume, ma per l’epicità di quel momento ci starebbe stata meglio Maria Callas, la sua voce da Madonna in terra che avevo finito di ascoltare solo dieci minuti prima. Maria, Madonna, la stessa cosa. Vi somigliavate. Avevate dipinto negli occhi le stesse luci di grazia.
Chi si duole 
in terra più? Senti effluvi di rose?!... 
Non ti par che le cose 
aspettan tutte innamorate il sole?...

Capendo poco, ero riuscito comunque a ricordare il testo della canzone. Solo anni dopo, per curiosità, sarei andato a cercare il significato, ma nel frattempo mi era entrata nella testa lo stesso.
Jade indossava un vestito argentato che le scendeva largo dopo la vita, e si guardava intorno con quei capelli lunghi lunghi, e lisci, e lo sguardo sperduto. Bella, ma non come te: tu mi proteggevi.
Jade mi privava di ogni difesa.
La lingua mi si fece così secca che non mi sarei sorpreso se si fosse sbriciolata in un ammasso di sabbia. Jade voltò la testa verso di me.
Sollevai la mano a salutarla.
E lei, con un sorriso timido, mi sorrise.
Jade mi sorrise!
«Hai visto?»
«Che?»
«Ha sorriso! Ha sorriso a me!»
«E che vuoi? Una targhetta?» Bradley fece uno sbuffo infastidito.
Quando mi girai di nuovo a guardarla, Daisy se la trascinava via ridendo. Non capitava mai che Jade mi sorridesse. Mi aveva guardato tante volte in modo critico, ostile, distaccato, sprezzante, divertito.
Ma un sorriso, mai. Solo una volta, di fronte alla culla in cui se ne stava una Natalie appena nata, avevo assistito a quella specie di miracolo.
Quello fu il mio primo sorriso, fatto solo a me anche se era suo, e mi è rimasto conficcato nel cuore, nei miei ricordi possiede la stessa luce dei diamanti. Una moltitudine di colori ed uno spazio infinito in cui il tempo si dissolve in un presente perpetuo, sconfinato.
Lei è ancora lì.
Lontana.
Irraggiungibile.
Così tra balli, tiri con le freccette e giochi a carte mi ritrovai in uno stato d’inquietudine che mi riempì di adrenalina, ed io cercavo di acquietarla con la mia partecipazione ai giochi, alle battute, alle risate. Daisy mi legò un fazzoletto sugli occhi per giocare a moscacieca ed io pensavo a Jade, cercavo lei, volevo lei, sognavo lei e fino all’ultimo sperai, dopo venti minuti di frustrazione e corsa, che i polsi che stringevo tra le mani, sottili e leggeri, fossero quelli di Jade Truman. Rimasi deluso di fronte ad un’altra ragazzina dal volto che non riesco a ricordare.
In quel momento, la sorella maggiore di Daisy tirò fuori dal mobiletto del salotto delle bottiglie di vodka e cominciò a versarne il contenuto in diversi bicchieri. Mi feci spazio tra la folla e riuscii a prenderne due.
Uno per me.
Uno per Jade.
Mi misi a cercarla al piano di sopra, in terrazza, nelle camere da letto: scomparsa. Stavo per mollare quando mi ricordai della balconata al piano terra.
Jade era lì, appoggiata alla ringhiera.
C’era sempre stato un vetro tra me e lei, proprio come in quel momento, ma questo non mi fece demordere, non quella volta: dovevo provare a raggiungerla. Dove avevo trovato quei pensieri coraggiosi? Non lo so ancora, Eirene. Forse da te, che amavi il coraggio in ogni cosa che trovavi, nella natura e nell’istinto animale, nella dignità della morte e nelle fantasie di scrittori seppelliti secoli fa, con la speranza che certe cose non muoiano mai.
Aprii di poco la porta a vetri. Jade stava parlando al telefono. «Sì, la festa è molto divertente ma è quasi mezzanotte, come mai non sei a letto?»
«Io non riesco a dormire se non mi suoni la ninnananna,» riuscii a sentire.
«Quale ninnananna?» chiese Jade.
«Il chiaro di luuuuna. Quella che hai suonato l’altra sera quando c’era Arthy.»
«L’altra volta, quando c’era Arthy – come lo chiami tu – ho suonato “La goccia” di Chopin. Inoltre, Natie.» Sentii il rumore del suo sorriso – mi invase la circolazione, mi riempì tutti gli organi, mi fece sentire, per la prima volta e davvero, un re. «Non potrò esserci sempre, prima della buonanotte. Dovrai imparare ad addormentarti anche senza la mia ninnananna.»
«Uff,» le rispose Nat. «Ma almeno, Jadie, puoi darmi la buonanotte?»
Jade e Natalie erano in simbiosi, soprattutto da quando avevamo scoperto che i disagi scolastici di Natalie derivavano da una forma, quantomeno leggera, di dislessia. Natie si trovava male con parole e numeri e amava i disegni. Amava soprattutto disegnare vestiti e riprodurli sulle sue bambole.  Jade e la signora Truman passavano pomeriggi interi a svolgere esercizi con la piccola perché migliorasse, così quando Natalie, alla fine dell’anno, riuscì a superare il problema senza ritorsioni non seppe mai, per scelta di Tracy e Buford Truman, d’essere stata una bambina dislessica.
«Certo, Natie.» La voce di Jade mi distrasse dai miei pensieri. «Buonanotte.»
Jade era orgogliosa di sua sorella.
«E tanti baci?»
E lo ero anch’io.
«Tanti baci.»
«Col rumore?»
«Col rumore.» Jade mimò degli smack smack con la lingua e scoppiò a ridere. Che cosa non aveva, quella risata. Riusciva a ridestarmi nel bel mezzo di un sogno e farmi catapultare in un altro sogno ancora. In fondo non è questo, che accade, quando nasce un sentimento irreparabile?
Inspiegabile?
Immaginai che lei mi vedesse e mi rendesse complice di quel bellissimo gioco. Jade sussurrò qualcos’altro e chiuse la telefonata, poi continuò a guardare il telefono come incantata. La luce dei fanali esterni, dei lampioni della strada e della luna calante le si imbrigliava fra i capelli. Sembrava altro argento, sembrava mercurio. Immaginai di levarglielo via tutto con le mani, guardare quella luce raccogliersi in gocce che scivolavano in terra, stringerla tra le braccia – col tempo fermo, il cuore fermo, il mondo lì fuori, là dentro, quaggiù immobile – e continuare a guardarla.
E baciarla.
«Arthur?»
Ma lei si voltò.
«Jadie, ti ho preso un po’ di vodka, vuoi…»
In quel momento Jade aprì di più la porta della vetrata ed io, incapace di fermare la mia velocità, le finii contro con una specie di spintone in tutto il mio peso.
E in tutta la mia vodka.
Che le era caduta sul vestito e adesso gocciolava dall’orlo.
«Oh…»
«Il mio vestito…»
«Io…»
«È rovinato…»
«Jadie…»
«Chi ti ha detto che puoi chiamarmi Jadie?!» digrignò e, con l’affanno, mi si allontanò di due grandi passi. Parlò a bassa voce: «Questo vestito l’avevo scelto con Nat…»
Mi sorpassò con una velocità tale da stordirmi e, quando si girò di nuovo a guardarmi, incontrai uno sguardo di disprezzo che mi fece saltare il cuore in gola.
Mi sentii un idiota cosmico.
Tra tutte le ragazze con cui potevo essere coglione, lo ero stato proprio con lei. Lei. Jade. Jade Felicity Truman. Jadie. A quasi quindici anni ormai ero abbastanza sveglio per capirlo: mi attraeva nei barlumi di quotidianità che mi concedeva di vivere insieme a lei, negli istanti in cui non si accorgeva che c’ero, quando correva per prendere il bus in ritardo come suo solito e quando suonava il pianoforte;  quando si teneva il cucchiaino in bocca anche se aveva finito la sua porzione di gelato, quando carezzava i capelli di Natalie per farla addormentare e quando sottolineava il libro di Sociologia, l’unica lezione che condividevamo insieme.
Dopo l’accaduto, quando i Truman ci invitavano a cena, Jade inventava scuse per restare in camera sua. La piccola Nat, per attirare la mia attenzione, mi lanciava i mais dell’insalata tra i capelli ed io, solo perché era lei, solo perché era tanto diversa da Jade, solo perché non potevo non volerle bene, le sorridevo.
Ma quella sera – era passato quasi un mese dal compleanno di Daisy – non sarebbe andata come voleva Jade.
Sarebbe andata come volevo io.
«Signora Truman…»
«Tracy. Quante volte devo dirti che devi chiamarmi così?»
«Tracy,» accettai la correzione. «So che Jade non si sente bene. Ma potrei salire un attimo al piano di sopra? Dovrebbe prestarmi un libro per il compito di Sociologia. Il mio l’ho dato a Bradley perché non ce l’ha…»
«Sì, vai,» acconsentì il signor Truman. «Ti accompagna Wanda.»
«No, io!» s’inserì Natalie. «Io io io!»
«No, tu no,» decise la signora Truman. «No se prima non finisci tutti i pomodori che hai nel piatto.»
«Ma mi fanno schifo,» disse Natie, con una voce sottile sottile. «Perché non mi dai direttamente il gelato? Non è giusto che voi l’avete già mangiato!»
«Noi abbiamo mangiato anche i pomodori.»
«Non è vero! Il signor Benkinson non li ha mangiati tutti, ne ha lasciati tre.»
Wanda mi venne accanto, con un cenno, mi invitò ad alzarmi e a seguirla per le scale. Ed io non finii di assistere ad una delle le tante discussioni in cui avrei visto impegnate Tracy e Natalie nel corso di tutta la mia esistenza.
Mi lasciò davanti alla camera di Jade ed entrò nella stanza accanto alla sua.
Bussai.
Mi arrivò, attutita dalla porta chiusa, la voce chiara e vibrante di Jade. «Wanda, non scendo. Ho appena chiamato il ristorante, ho ordinato giapponese.»
«Sono Arthur.»
Qualcosa, nella sua stanza, cadde. Un blocco di appunti, forse, o un ammasso di vestiti.
Aprì la porta. Portava un pigiama svasato che le distorceva tutte le forme, ma io la guardai negli occhi, subito, per non sfuggirle più.
«Arthur?»
«Sì… solo io.»
«Mio padre sa che sei qui?» mi chiese.
«Mi ha dato il permesso.»
Jade incrociò le braccia sotto il petto. «Non mi sento bene. Che c’è?»
Imitai le sue mosse. «Non ti senti bene ed ordini il Giapponese?»
«Ti piace il Giapponese?»
«No.» Fui sincero.
«Un altro motivo per cui non me la racconti giusta,» mormorò. Un’ombra le attraversò lo sguardo: c’erano così tante ombre in lei. Riuscivo a perdermi in tutte quelle che vedevo. «Che cosa vuoi?»
Tossii un po’. «Vorrei scusarmi. Per il vestito. Alla festa di Daisy. Sono sere in cui vengo a cena, e tu mi eviti, e mi dispiace.»
Gli occhi azzurri di Jade si spalancarono. Storse la bocca – così era uguale a sua madre, anche se non le somigliava per niente. Jade era tutta il signor Truman. E mi accecava gli occhi per quanto era bella. Con quante assurdità mi riempivi la testa, Eirene. Hai trovato le parole del mio amore prima ancora le trovassi io stesso.
Jade si lasciò andare a un sospiro. Era pieno di stanchezza, d’esasperazione.

«Benkinson,» sussurrò, ed un brivido mi fece irrigidire la schiena. «Arthur Philip Benkinson. Tu crois être le centre de l’univers
Sbattei le palpebre, con lo stomaco ribaltato insieme alla cena: il mio nome intero sulla sua lingua, tra le sue labbra piene. Ed una lingua sconosciuta, morbida, che avrei voluto mordere su quella bocca.
Che pensieri, erano questi?

«Oppure potrei dire,» aggiunse. «Crois-tu être le centre de l’univers? O ancora est-ce que tu crois être le centre de l’univers? Si può dire in tutti e tre i modi.»
Deglutii. «… E così parli Francese?»
E a cantare per noi, nella mia mente, Tosca:
Trionfal, di nova speme 
l'anima freme in celestial 
crescente ardor. 
Ed in armonico vol 
già l'anima va 
all'estasi d'amor.

«Lo sto studiando tutte le sere da un mese, genio,» le venne fuori, con tanta velocità quanto ardore. «Non scendo a cena da un mese. Non suono il pianoforte se non il pomeriggio prima di fare i compiti. La mia vita sociale praticamente è andata in vacanza a Timbuctu. Altrimenti come me lo prendo il livello B1? Di certo mia madre non mi manda in viaggio a Parigi con il club di Musica se non lo prendo.»
Non mi ero accorto di aver trattenuto il respiro. E lei indossava quel pigiamone e le guance le si erano colorate di quel rossore purpureo che mi fece salire il sangue alla testa ed io credetti d’impazzire, Eirene, impazzire.
Perché desideravo tanto fare l’amore con lei, anche se non avrei saputo da dove cominciare.
«Ecco perché non scendo a cena. Quindi sì, non ho avuto l’onore di cenare con la famiglia Benkinson,» fiatò. «E nemmeno la famiglia Earl, Howland, Ogden e… I miei genitori sono così popolari. Com’è possibile? Mia madre è socievole solo con i bambini.»
Scossi la testa, riconobbi il mio sbaglio e me ne pentii, nella mente, tante e tante volte. «Non immaginavo che…»
«La mia domanda era questa, Arthur: credi di essere il centro dell’universo?» mi chiese.
Restai in silenzio, in completo imbarazzo, con l’ebbrezza inquieta del condannato. Mi grattai la nuca, distolsi lo sguardo da lei, tornai a guardarla.
«Perché non mi rispondi? »
«Perché non so che dire…»
«Perché la risposta è sì,» finì lei. «Credi di essere il centro dell’universo, Arthur Benkinson. Il motivo per cui la figlia di una coppia di amici dei tuoi genitori non scende a cena. Be’, non è così. Io non ti penso proprio.» Mi guardò con una sfida che le fece tremare lo sguardo. «Ho molto da fare. Non mi viene regalato niente. Forse non è questo che hanno insegnato a te, ma a me sì. Non si ottiene niente con niente. Si ottiene qualcosa con l’impegno. O con la fortuna, ma quella non ci può sempre essere. Mio nonno Gregory faceva il fornaio, mia nonna Felicity lo aiutava, si alzavano ogni giorno alle quattro di mattina e con tutto questo sono riusciti a far studiare cinque figli. Quando mio nonno Santino è arrivato in Inghilterra da Napoli negli anni sessanta non aveva un soldo in tasca, ed è riuscito ad aprirsi il suo negozio di elettrodomestici dopo anni a fare lo spazzino. Mia madre si è laureata col massimo anche con dei professori che la chiamavano ancora sporca italiana. Stai certo che non è perché ci sei tu che accadono le cose. O almeno, non sempre.» Scosse la testa. «Ed ora, se sua altezza mio re lo permette, vorrei studiare.»
Chinai il capo, incapace di articolare altre parole. Mamma che stronza, sputò la mia mente. Che cosa potevo dirle, in risposta? Che eccellevo nelle cose in cui ero portato e per il resto chiedevo aiuto a mia madre, direttrice della biblioteca di Liverpool e con una laurea prestigiosa in Letteratura Inglese? Che, in ogni caso, entrambi i rami da cui provengo sono sempre stati benestanti da generazioni e adesso, di fronte al sudore dei suoi avi, diventava quasi una colpa?
No, non è vero, me l’ero meritato. Non ero il centro dell’universo, lo sapevo. Non ero il centro del suo universo: ingoiai l’aroma amaro anche di quella consapevolezza.
Nemmeno tu sei il centro del mio universo, Jade.
«Volevo solo essere gentile,» mi ritrovai a dire.
Tu sei tutto il mio universo.
«A volte mi chiedo se sei anche altro oltre ad essere gentile,» sbottò e chiuse la porta.
Restai fuori.
Restai fuori dall’universo di Jade Truman.
Non tutto quello che mi dicevi, Eirene, mi faceva ottenere gli effetti che avrei voluto. Ebbene, tu non mi educavi per attirare consensi.
Mi educavi per rendermi, un giorno, fiero di me stesso.
Nonostante tutte le porte in faccia che avrei preso nel corso della mia esistenza. 
*
*
*
*
Buongiorno, fenici! <3
Qui trovate l'atto terzo della Tosca, se vi va di andare ad ascoltare. Molto musicale questa storia, non trovate? Forse solo un'altra volta mi è successo che la musica fosse così unita alla storia che raccontava. 
Qui, di nuovo, il link del gruppo.
Spero che la storia continui a piacervi. Come ho scritto in una risposta in una recensione, ho cominciato a scriverla per me stessa. Arthur è un personaggio con una crescita davvero difficile e intensa, una crescita che conoscevo bene nella mia mente ma sentivo il bisogno di metterla su carta o, più semplicemente, di scriverla nel mio foglio di word. Nell'altra storia in cui appare, La volpe di Liverpool, lui è già cresciuto, ha  ventisei anni.
Quindi eravamo io ed Arthur, solo io e lui, ma poi mi sono accorta ancora una volta quanto quello che scrivo, nel momento in cui lascia la mia mente, è sinceramente vostro.
Vi appartiene.
Quindi grazie di cuore per esserci.
Al prossimo capitolo,
Ania :)
   
 
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