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Autore: Niagara_R    12/12/2015    1 recensioni
*Christmas tale*
Cosa c'è di più bello che passare il Natale... in ospedale?
Oliver lo sta decisamente scoprendo - e non vede l'ora di levare le tende - quando l'incontro con Quinn gli renderà le feste un po' più dolci.
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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N

Racconto originariamente scritto per il literary-blog Regin La Radiosa in occasione di Natale 2013.

Lo ripropongo qui perché trovo carino che più persone abbiano la possibilità di leggerlo.

Spero possa rivelarsi cosa gradita.

 

 

Salto nel vuoto

 

Leone: la luna è nel vostro segno e vi promette un Natale sfolgorante, pieno di doni e iniziative che intensificheranno la vostra vita lavorativa e vi regaleranno la pace che cercate da molto tempo. Grandi cose anche per quanto riguarda la sfera dell’amicizia, e se stavate aspettando una svolta economica per fare un importante investimento per il futuro, verrete accontentati.

Oliver abbandonò il giornale in grembo, sbuffando.

L’unica cosa che aveva azzeccato era la parola investimento.

Si lasciò andare contro lo schienale, stando attento a poggiare bene il collo sulla parte imbottita.

Il Pronto Soccorso alle tre di notte - e non una notte qualsiasi, giusta quella di Natale - sembrava l’ultimo dell’anno a Times Square.

Un casino infernale, le voci di decine e decine di persone si sovrapponevano dietro la tendina di cerata verde acqua, passi che andavano avanti e indietro, rumore di mocassini, di suole di gomma, di tacchi a spillo, piagnucolii, risate, bambini che chiamavano la mamma, gente che faceva discorsi sulla politica e sui parenti morti per i motivi più disparati, l’abbaiare di un cane.

Se non altro in due ore che era lì non era ancora arrivata nessuna ambulanza con casi gravi. A quanto pareva a Natale si facevano male tutti, ma in maniera decorosamente blanda. Tipo lui.

Fece leva sui bicipiti femorali e cercò di piegare il ginocchio, ma una vibrazione lancinante che partì dal menisco e si ripercosse sul piede gli fece capire che l’antidolorifico non aveva ancora fatto effetto. Grandioso.

Il sacchetto di ghiaccio medicale in gel che gli avevano dato gli stava congelando mezza coscia, aveva perso sensibilità persino al culo mentre le spalle gli stavano cuocendo sotto la giacca che l’infermiera gli aveva fatto rimettere.

La sua tuta era da buttare. Più di seicento dollari di tuta da motociclista da gettare nella spazzatura.

Beh, inutile lamentarsene dato che la moto era ridotta a un cumulo di lamiere, gomma e plastica.

Si massaggiò una tempia - quella dove non c’era l’enorme cerotto di garza - bestemmiando tra sé contro quel coglione in Mercedes che gli era finito addosso all’improvviso, sbucato da una laterale e gettatosi a cazzo in mezzo alla strada. Per fortuna Oliver se n’era accorto qualche secondo prima dell’impatto, aveva lasciato la presa sul manubrio e aveva spostato il peso all’indietro. Era stato sbalzato sulla carreggiata senza troppa violenza, anche se la BMW era finita dritta sotto le ruote di quel deficiente sbronzo come una spugna e fatto di chissà quali acidi.

Se l’era cavata con graffi superficiali sulla parte destra del corpo, un ematoma di dimensioni bibliche al ginocchio sinistro, un male indescrivibile al braccio dove gli avevano fatto l’antitetanica in muscolo e la notte di Natale da passare in ospedale in attesa che qualcuno si decidesse a rispedirlo a casa.

Ebbe la tentazione di controllare il cellulare - per un chissà quale miracolo era rimasto intonso - ma l’indolenzimento gli fece cambiare idea. Anche perché immaginava che gli altri, ormai appurato che non si era fatto uccidere, stessero festeggiando come da programma a casa di Andy, dove sarebbe dovuto essere anche lui.

Per un attimo pensò di comportarsi da bravo figliolo e chiamare i suoi genitori per informarli che era scampato al proprio funerale per un soffio, ma poi ricordò di quanto riuscisse a diventare imbarazzante sua madre quando entrava nel panico - soprattutto quando non ce n’era nessuna ragione - perciò decise che avrebbe telefonato verso le dieci della mattinata e avrebbe chiesto loro di venirlo a prendere piuttosto che aspettarlo come al solito. Con quella gamba non sarebbe riuscito a guidare per giorni.

Merda.

Provò a mettersi le mani sulla testa, gesto che lo aiutava a scaricare la tensione, ma si sentiva di legno. Non ci riuscì.

Sospirò annoiato, frustrato, avvilito.

La tenda veleggiò, ed emerse un tipo con degli occhi talmente tondi da sembrare due nocciole con tanto di guscio. O meglio. Uno lo sembrava, l’altro era socchiuso, circondato da un alone granata che probabilmente presto sarebbe diventato viola.

«Ah, scusa...» disse.

«Hai bisogno del ghiaccio?» Oliver fu felice di avere una scusa per liberarsi di quel blocco freddo che gli stava rallentando la circolazione. L’infermiera che lo aveva medicato dopo la visita del dottore gli aveva tassativamente ordinato di tenerlo sulla contusione finché non fosse tornata, ma era da due fottute ore che non la vedeva, e si era un po’ rotto le palle di aspettarla a vuoto.

Il tipo esitò per un istante.

Oliver tendeva a dimenticare che le tute da motociclista sembravano una sorta di armatura da cavaliere nero, perlopiù imbottita nei punti sensibili e che quindi dava l’impressione d raddoppiare il fisico di chi la indossava.

Doveva essere uno spettacolo strano vedere un astronauta del lato oscuro sprofondato in una poltrona e impegnato a tenere sollevata una gamba fasciata peggio di una mummia.

«Grazie...» Ma lo sconosciuto accettò comunque. Doveva essere disperato. O provare parecchio dolore.

Afferrò stancamente il sacchetto avvolto in una stoffa di tela che gli porgeva Oliver e se lo posò sulla faccia, piano, adagiandolo con una lieve smorfia sofferente.

«Serata movimentata?» Oliver di solito non era uno che attaccava bottone con chiunque. In realtà gli piaceva un mondo conoscere gente, ma col tempo aveva imparato a scremare gli interlocutori e prendere confidenza soltanto con quelli che gli sembravano più aperti. Aveva perso il conto di quante volte gli era stato risposto male, di quante volte avessero biascicato un insulto sulla lingua, di quante volte gli avessero lanciato occhiate sconvolte, di quante volte era stato ignorato, e solo perché aveva due piercing e un dilatatore all’orecchio, e spesso andava in giro col casco alla mano.

Se quella gente avesse visto il tatuaggio che gli copriva il torace si sarebbero fatti il segno della croce?

«Serata di merda.» replicò l’altro. Il tono che aveva usato fece capire a Oliver che non era avvezzo a quel linguaggio, e che quando lo adoperava era perché era arrivato al limite di sopportazione.

Fece per rispondere, ma di nuovo la tendina venne tirata da un lato. Quante visite tutte in una volta.

«Ehi, Quinn, noi...» L’uomo in giacca e con la cravatta in tasca, naso gonfio e gocce di sangue secco sulla camicia s’impietrì quando vide Oliver. L’interessato sfoderò il suo miglior sorriso sfacciato, quello adatto per mettere in evidenza lo sfavillio sia del piercing sotto al labbro inferiore che quello del sopracciglio sinistro «Noi... Noi andiamo a prenderci qualcosa da mangiare...» Il nuovo arrivato concentrò l’attenzione su quello che doveva chiamarsi Quinn, e si sforzò di non muovere neppure le pupille «Per i denti di Eliott non c’è niente da fare, gli hanno dato un tranquillante da cavallo e mi sa che se lo tengono per stanotte. Andiamo al Mac a mangiare qualcosa, vieni

C’era talmente tanta retorica che trasudava da quell’ultimo vocabolo che era facile ascoltare nell’aria una frase non pronunciata che diceva pressappoco È vero che vieni e non vedi l’ora di dire addio a questo tossico, eh?

«No, andate voi...» Oliver si voltò verso il ragazzo. Essere scelto da un estraneo come compagnia al posto di un amico era una bella sorpresa «Devo... mi devo ancora riprendere.»

Oliver tornò a guardare l’altro, e dovette impegnarsi per non mettersi a ridere dopo aver visto la sua faccia allibita.

Calò qualche secondo di silenzio, riempito dalla voce di una ragazza di passaggio che parlava al cellulare in una lingua straniera.

«Ok.» Giacca e cravatta in tasca parlò senza inflessione. Forse per lo shock «Ci vediamo dopo.» Stese la tendina con un colpo secco, dando loro di nuovo la parvenza di essere rimasti soli.

Oliver sbirciò il tipo - Quinn - perplesso, e incuriosito.

Indossava una camicia nera, di un stoffa opaca e sgualcita, con alcuni fregi che si notavano in controluce, troppo ampia su fianchi stretti e di fattura costosa. Pantaloni a metà tra casual e un abbozzo di eleganza, che si arricciavano su un paio di mocassini che non si adattavano per niente a chi le indossava, come se se le fosse fatte prestare in mancanza d’altro.

Quinn lo osservò con l’unico occhio.

«Posso sedermi qui?» Posò la mano sulla spalliera della poltrona gemella di quella su cui era stravaccato Oliver.

Oliver allargò le braccia qual tanto che gli consentirono le fitte.

«Prego.»

Quinn si accasciò di traverso, con un sospiro silenzioso che sembrava volesse buttare fuori ogni cosa.

«Ehi, se ti dovesse venire un infarto o un aneurisma non riuscirei a correre in cerca d’aiuto.» puntualizzò Oliver, sperando che l’altro cogliesse l’ironia. La colse.

Quinn gli fece un sorriso smunto, cordiale, sfinito. Ma pur sempre un sorriso. Molto carino.

«Il peggio che mi può succedere è di addormentarmi e rimanere qui fino a sera.»

«Il Natale in ospedale dev’essere un must quest’anno.» commentò con un certo sarcasmo. Afferrò il giornale che aveva ancora sullo stomaco «Che segno sei?»

«Capricorno.» rispose Quinn dopo un momento.

«Capricorno.» lesse Oliver «Questo per voi sarà un Natale da ricordare: il vostro segno entra in una fascia positiva sotto ogni aspetto. Il campo lavorativo subirà un leggero rallentamento ma non vi preoccupate, si tratta di una fase passeggera che porterà a ulteriori miglioramenti. La sfera dei sentimenti vi darà grandi soddisfazioni a 360°.» Oliver ridacchiò.

Quinn emise una risatina, inarcando il sopracciglio libero.

«Che si tratti di un Natale da ricordare non c’è dubbio.»

Oliver gettò la rivista sullo scaffale lì accanto, traboccante di tubicini, strumenti di acciaio opaco, bacinelle e altre cianfrusaglie mediche di cui non voleva conoscere l’uso.

«Ti avrei passato il cruciverba, ma sono qui da una vita e per disperazione sono riuscito a finirlo. Mai successo prima.»

Quinn sorrise di nuovo, sistemandosi il ghiaccio che stava diventando fluido.

«È rotta?» domandò, intendendo la gamba. Oliver scosse la testa.

«Solo una gran botta e un versamento interno.»

«Che ti è successo? Sei caduto in moto?»

«Sono stato investito.» lo corresse.

«Investito?»

«Già.» Schioccò la lingua «L’autista di una Mercedes ha pensato bene di scambiare l’isolato per le strade di GTA e mi ha preso in pieno. Io ho fatto in tempo a gettarmi a terra, ma mi ritrovo ammaccato e senza più moto.»

«Oh.» Quinn parve sinceramente colpito «Beh... il 75% dei riders coinvolti in incidenti con automobili perde la vita... puoi sentirti fortunato.»

Oliver lo scrutò per una manciata di secondi.

«È il tuo modo di consolarmi?»

Quinn rise. Una risata graziosa, adolescenziale, divertita e che divertiva, a cui Oliver scelse di non resistere. Metteva di buonumore.

«E tu chi hai fatto incazzare per ritrovarti con un occhio nero?»

Quinn si sistemò meglio in una posizione obliqua, in modo da guardarlo in faccia senza essere scomodo.

«Non ne ho idea, me ne sono stato davanti a una finestra tutta la sera. Un attimo prima tutto normale, un attimo dopo scoppia una rissa che non so com’è cominciata, e ci finiscono in mezzo i miei colleghi e anch’io.» Oliver intravide nel suo sguardo la medesima desolazione di prima, di quando aveva rifiutato l’invito di giacca e cravatta in tasca. Quella di chi è troppo spossato per commentare oltre.

«Eravate al Paprika?»

Quinn lo fissò stupito.

«Sì... Come fai a...?» Oliver si mise a ridere.

«In zona ci sono solo due locali dove ci si mena almeno due volte a settimana, e il Paprika è l’unico che vuole solo gente vestita bene.» Lo indicò con un unico gesto. Quinn parve essere sul punto di imprecare, ma non lo fece.

Invece emise un verso sconsolato, esasperato, un poco comico.

«Non ci posso credere...» sibilò, presumibilmente più rivolto a se stesso ai suoi compagni piuttosto che a Oliver.

«Vieni da fuori?» gli chiese. Aveva un aspetto già abbastanza abbattuto, non voleva che peggiorasse. Quinn rialzò la fronte, annuendo «Da dove?»

«Da Eunice.» Oliver fischiò.

«Sei lontano da casa.»

«Già.» confermò. Posò la guancia contro la testiera della poltrona, e i capelli che gli arrivavano alle spalle gli coprirono le dita con cui teneva fermo il ghiaccio, formando onde castane sulle nocche «Per lavoro.» Oliver non disse niente. Era curioso di constatare se Quinn avesse preso confidenza o meno «Alla Faith&Hombrace. Mi hanno promosso circa due mesi fa, e dalla filiale di Eunice mi hanno spedito alla sede principale, qui.» Sollevò la palpebra per controllare che Oliver stesse ascoltando.

Oliver gli sorrise.

«Mi aspettavo qualcosa di meglio.» mormorò Quinn. Poi agitò una mano «Cioè... il lavoro va alla grande, guadagno bene e mi piace, e sono contento della promozione.» mise in chiaro «Ma... tutto il resto... tutto il resto...»

Oliver rise, e nel farlo avvertì una lieve stilettata al costato, nel punto dove c’era un altro cerotto sterile a coprirgli un taglio.

«Non sei ancora entrato nello spirito cosmopolita?»

«Probabile.» ammise «È che credevo non sarebbe stato così difficile adeguarmi ai ritmi e ai meccanismi.» Strinse le spalle «Io non sono uno che si mette in tiro anche solo per andare a fare la spesa nella bottega del quartiere, non sono abituato a uscire, bere e fare tardi tutte le sere, e penso di non riuscire a capire le persone di città.»

«In che senso?» L’antidolorifico stava iniziando - per fortuna - a fare effetto. Oliver sentiva i nervi tirare molto meno, e riuscì a rilassarsi poco a poco.

«Non riesco a parlare di cose serie con nessuno.»

«Di cose serie?»

«Del futuro, dei progetti di vita, di religione, di cultura...» Quinn gesticolò di nuovo, disegnando nell’aria una figura geometrica minuta, discreta anche se eloquente «Quando comincio un discorso serio mi assecondano per massimo cinque minuti e poi cambiano argomento. Il calcio, le sfilate, il prezzo dei parcheggi, il talk show di Conan O’Brian... cazzate. E non capisco se fanno così perché è il loro modo di essere, o perché sono l’ultimo arrivato e non si fidano di me.»

Oliver rise, sperando che Quinn non si accorgesse di quanta tenerezza gli ispirasse.

«Sono io a essere strano, vero?» chiese in tono afflitto.

«No, no.» lo rassicurò. Avrebbe voluto allungare il braccio e posargli il palmo sulla tomaia di una di quelle orrende scarpe inguardabili, ma si trattenne. Forse non avrebbe gradito tanta familiarità «È che la gente ha sempre qualcosa da fare. O è sempre impegnata a pensare a cosa dover fare. E magari non gli importa di mettersi a discorrere di temi impegnativi perché finché non la riguardano da vicino non avrà di che lamentarsene, quindi non se ne preoccupa e non vuole farlo.»

Quinn lo osservò senza parlare, con un’occhiaia che si stava facendo evidente e capillari che si iniettavano di rosso istoriando la sclera.

«E poi, forse il tuo problema è che non hai incontrato le persone giuste.» continuò Oliver. Lasciò indugiare lo sguardo prima sugli avambracci di Quinn, uno piegato per sostenere il ghiaccio e l’altro abbandonato sulla spalliera, indi risalì sul suo viso, accontentandosi di studiare la metà speculare degli zigomi dai tratti infantili, graziosi, arrotondati. Gli sorrise.

La guancia di Quinn riassunse un po’ di colore mentre gli sorrideva di rimando, spontaneamente.

«Tu saresti una persona giusta?»

«Solo se sono quella che stai cercando.»

Quinn allargò il sorriso, si mosse sui cuscini di pelle producendo uno stridore di tensione, e scostò il ghiaccio, provando a sbattere le ciglia.

«Com’è?»

Oliver distese le labbra, in segno di moderata sufficienza.

«In pochi giorni il gonfiore sparirà. Tra una settimana avrai un bellissimo alone giallo alieno.»

«Sono soddisfazioni.» rimbeccò, provando a sfiorarsi con un polpastrello l’area che aveva assunto una sfumatura prugna, sentendola tumida e troppo sensibile. Se non altro la vista era a posto.

«Perché non sei tornato dalla tua famiglia e dalla tua ragazza per le feste?» Quinn lo squadrò con ironia non tanto velata «Mi sto annoiando e tu sei l’unico che posso molestare con le mie chiacchiere.»

«Dalla mia famiglia e dal mio inesistente ragazzo.» precisò placidamente «Sono rimasto perché quelli dell’ufficio contabile dovevano chiudere il bilancio, ma hanno avuto la bella idea di perdere alcuni documenti e quindi quelli dell’ufficio vendite - io e i miei colleghi - hanno dovuto affiancarli.»

«Tremendo.» mugugnò Oliver con un brivido. La parola ufficio gli faceva venire in mente monotone stanzette dalle pareti tinteggiate di grigio, con scrivanie essenziali di design in acciaio spoglio e una pianta grassa in vaso in un angolo che prendeva polvere in attesa che la desertificazione la raggiungesse «Spero che almeno ti paghino gli straordinari.»

«Lo fanno, lo fanno.» confermò, pacifico «E tu? A quest’ora dove dovresti essere?»

«A casa di un amico, in collina.» Sospirò debolmente «Due ore di viaggio previste. Invece dopo neanche dieci minuti sotto finito contro il muso di una macchina da ricchi.» Spedì l’ennesima maledizione all’idiota, sperando che i poliziotti che l’avevano trattenuto gli avessero infilato un manganello in quel posto per fargli passare la sbornia. E che ce l’avessero lasciato.

«E non è venuto nessuno per starti vicino?»

Oliver lo studiò, perplesso. Quinn sembrava davvero sbalordito dalla faccenda. Oliver non si mise a ridere perché temeva di offenderlo, anche se la voglia di scompigliargli i capelli si faceva sempre più forte.

«Ho venticinque anni, sono vaccinato - ho anche l’antitetanica fresca di intramuscolare - i miei amici sono a due ore e mezza di strada dall’ospedale e preferisco che rimangano a divertirsi piuttosto che stare a dormire in corsia.»

«Non hai qualcuno della famiglia...?»

«Se tu conoscessi mia madre sapresti che è meglio informarla solo quando non può più fare danni.» Non era propriamente una cosa carina da dire su Marissa, premurosa, attenta e sempre disponibile per qualunque richiesta del figlio. Ma la scenata imbarazzante che fece quando Oliver aveva dodici anni, in cui per poco non aveva preso a sberle due dottori perché secondo lei non avevano interpretato bene dei sintomi di eventuale appendicite, gli era rimasta impressa nei ricordi come monito.

Quinn aveva ancora dipinta in volto un’espressione dubbiosa, spaesata, vagamente preoccupata.

«Non fare quella faccia.» Oliver gli fece l’occhiolino «Me la cavo bene anche da solo.»

Quinn non parve per niente soddisfatto, e Oliver immaginò che per lui il Natale fosse sempre stato cena in famiglia, serata passata davanti al camino a raccontarsi barzellette o aneddoti carini, e allo scoccare della mezzanotte scartare i regali assieme ai nonni e ai cugini.

A Oliver una prospettiva simile di norma indurrebbe un principio di orticaria, ma ora che la vedeva attraverso Quinn la cosa assumeva connotati meno inquietanti. Quasi accattivanti.

Sorrise tra sé, accorgendosi che era Quinn a fargli quell’effetto insolitamente confortante.

«Ehi, hai detto di essere capricorno, vero?» riprese. Quinn assentì «Quindi sei nato in questi giorni o sbaglio?»

«Non sbagli. Sono nato...» Allungò il collo verso la parete di destra, coprendosi l’occhio tumefatto perché gli sfasava la percezione dei contorni «... circa un’ora fa di venticinque anni fa.»

Il sedativo era entrato pienamente in circolo e gli stava rallentando i collegamenti neurali; Oliver ci mise due secondi per realizzare.

«Oh.» fece quando ci arrivò. Poi realizzò anche che al momento si trovavano entrambi in ospedale, e Quinn era stato pestato «Oh.» ripeté. E ricordò anche che Quinn era solo come un cane in una nuova città a miglia e miglia di distanza da casa «Oh.»

«Oh.» lo prese in giro «Non era propriamente il compleanno che mi aspettavo. Ma non mi lamento.» Sorrideva. Un sorriso pacato, snervato ma non falso, di quelli tranquilli che coglievano la vita con coraggiosa filosofia.

Oliver lo fissò per diversi attimi, incurante del silenzio sempre più intenso che si stava levando tra loro. Si accorse soltanto adesso che Quinn aveva le iridi di una bella tonalità verde miele.

Gli tese la mano.

«Oliver.»

Venne ricambiato con una stretta garbata, e calorosa.

«Quinn.» Lo sapeva già, ma gli piacque come l’aveva pronunciato. Con un tipico accento concavo, che affondava sullo iato e riemergeva elegantemente sulla coppia di consonanti.

«Quinn, visto che è evidente che la sfiga oggi ci ha presi di mira, ti faccio una proposta.» Si massaggiò la nuca, torturandosi qualche corto ricciolo bruno «Troviamo il modo di andarcene da questo sgabuzzino e andiamo a casa mia - così mi dai una mano a non uccidermi per le scale.» Lo squadrò per captare ogni mutamento nella sua espressione, che aveva un che di stupore perpetuo «Ci facciamo una dormita di qualche ora visto che stiamo in piedi da ieri mattina, ci svegliamo direi a metà pomeriggio, supplico mia madre di portarmi una torta e ci ficco sopra una bella candelina che potrai spegnere dopo aver espresso il tuo desiderio.»

Quinn aveva l’aria di chi aveva appena visto un uomo denudarsi in mezzo alla strada e stesse cercando di capire se mettersi a ridere o scandalizzarsi.

«E come regalo, faremo l’amore fino a quanto ne avrai voglia.»

Le sopracciglia di Quinn formarono due virgole deliziosamente inarcate.

«Il regalo però si potrebbe rateizzare.» Oliver si toccò il ginocchio «In effetti non ho mai fatto l’amore tanto acciaccato, ma darò il massimo, garantisco.»

Quinn inclinò la testa, socchiudendo la bocca. Non sembrava né scandalizzato né sul punto di mettersi a ridere.

Sembrava... che quasi si aspettasse un’uscita simile.

Un po’ imbarazzato, lusingato, allegro.

«Tu sei un tipo strano.» mormorò «Oliver.»

«Solo perché non hai mai incontrato nessuno come me prima d’ora.» replicò, scoccandogli un sorriso languido, illuminato dal bagliore riverberato dalla minuscola sfera del piercing «Quinn.»

Quinn rimase impassibile per alcuni secondi, pochi, che tuttavia secondo Oliver durarono un’eternità in cui si sforzò di non sudare freddo.

Scoprì che la risposta gli interessava parecchio.

Scoprì che Quinn gli interessava inaspettatamente parecchio.

Quinn ricambiò il sorriso, arricciando le labbra in una maniera sbarazzina che gli toglieva una dozzina d’anni, mostrandolo come doveva essere da ragazzino.

«Penso che accetterò.»

Oliver rise.

«Anche tu sei un tipo strano.» sussurrò Oliver, e non seppe se avesse voluto comunicarlo a lui, a se stesso, al labile filo che stava accorciando le distanze in uno stravagante quanto estasiante modo imperscrutabile.

«Faccio quel che posso.»

Risero insieme, scambiandosi l’ennesimo sguardo denso, palpabile, che forse voleva dire tanto o forse non significava niente. Proprio in quel momento la tenda venne strattonata da un lato con un trambusto di anelli di metallo.

«Signor Bowen!» L’infermiera in tenuta verde mare aveva l’aspetto di qualcuno che aveva sfilato avanti e indietro per le corsie del Pronto Soccorso per ore, e a giudicare dal suo volume di voce doveva aver ascoltato per tutto il tempo musica metal al massimo «Sta meglio?»

Oliver lanciò un’occhiata a Quinn. Tornò a sorriderle.

«Molto meglio.»

«Bene.» Afferrò una coppia di stampelle bianche che aveva appoggiato alla parete e gliele porse educatamente nonostante i modi sbrigativi «I risultati degli esami, le lastre e le ricette sono già nell’ufficio dimissioni, non le resta che andare a firmare.» Lo esaminò per un momento «Ce l’ha l’assicurazione, vero?»

«Ce l’ho.» confermò per la seconda volta nell’arco della nottata.

«Ottimo.» L’infermiera parve compiaciuta. Soltanto dopo la sua attenzione venne attirata dalla presenza di Quinn. Le bastò un istante per inquadrarlo «Lei è venuto per la rissa al locale?»

«Eh...»

«I suoi amici hanno già lasciato l’ospedale, tranne quello che dovrà rimanere in osservazione per almeno quarantottore.» lo informò «Anche lei è libero di andare.» Le scappò un sorrisino «Lei almeno ha ancora tutti i denti in bocca.»

Chiese a Oliver se avesse bisogno di fare una telefonata per chiamare un parente o un taxi che lo riportasse a casa. Quando accettò la seconda opzione, l’infermiera si fece consegnare il ghiaccio in gel, ormai scioltosi, e si diresse verso la direzione, strascicando i piedi. Doveva essere alla fine del suo turno e le si leggeva la spossatezza della rigidità delle spalle.

«Simpatici i tuoi colleghi.» constatò Oliver, preparandosi mentalmente alla prova delle stampelle. Prevedeva lunghe giornate di noia assoluta.

Quinn si alzò, aiutandolo a mettersi in piedi.

Analgesico o no, il corpo era un unico spasmo di dolore che palpitava a tratti, e una volta in posizione orizzontale la testa cominciò a pulsare, causandogli un lieve capogiro.

La sala d’attesa rassomigliava a un ricovero per senza tetto, con la differenza che molti dei presenti erano vestiti bene, con maglioni o abiti rilucenti di strass comprati per l’occasione in negozi di alta moda tanto per scialacquare una volta all’anno tre quarti di stipendio, e avevano facce soprattutto scocciate. Due donne si occupavano di smistare i documenti di chi poteva uscire e tornarsene tra le proprie mura domestiche, portandosi appresso il dolore che si erano procurato in modo più o meno dignitoso a seconda della situazione.

Una delle due analizzò l’aspetto di Oliver con un misto di timore, eccitazione e civetteria, malgrado i cinquant’anni suonati che dimostrava. Invece riservò a Quinn una smorfia amorevole, indulgente, persino orgogliosa. Oliver suppose che avesse scambiato Quinn per il fratellino carino che andava a recuperare il fratello maggiore cacciatosi nei guai.

Forse avrebbe dovuto farle notare che sui documenti i loro cognomi erano diversi, e che le loro date di nascita erano eccessivamente ravvicinate per provenire dallo stesso utero, ma perché fugare le sue materne illusioni che non avevano nulla di male?

L’addetta alla farmacistica fornì a Oliver un sacchetto di medicinali che avevano pressappoco la funzione di stordirlo così tanto nella settimana seguente da non fargli notare che si era scorticato metà del fisico. Lo istruì su quando prenderli, come prenderli, per cosa prenderli, si raccomandò di non bere nessun tipo di alcolico e andare al più presto dal suo medico curante per tenere sotto controllo le ferite e soprattutto il versamento al ginocchio, e di rimanere a riposo dai trenta ai quarantacinque giorni.

Aggiunse molte altre cose, ma Oliver cascava dal sonno e il linguaggio medico da bugiardino gli aveva fatto sfuggire il significato di diverse nozioni. Ma le sorrise comunque, assicurandole che avrebbe seguito le istruzioni alla lettera e augurandole buone feste già che c’era.

Quinn se l’era cavata con due misere scatole di analgesici - uguali ad alcuni di quelli di Oliver - e un unguento per aiutare l’ecchimosi a riassorbirsi.

«Non mi dirai che hai l’auto nel parcheggio del Paprika, vero?» s’informò Oliver, mentre si incamminavano lentamente verso l’uscita dove li aspettava un’auto gialla che non aspettava altro che conoscere l’indirizzo verso cui andare.

«No, ci siamo trovati in azienda e al locale ci siamo andati con una sola.» Rabbrividì, stringendo le spalle.

Oliver fece caso ora al fatto che Quinn non aveva nulla di pesante con cui coprirsi.

«Vuoi la mia giacca?»

«No, grazie. Ti manca soltanto l’influenza per chiudere l’anno in bellezza.»

Si sorrisero, risero, avanzarono pian piano sotto i numerosi neon che illuminavano a giorno l’atrio da cui si continuava a entrare e uscire con una frenesia stressata che contagiava tanto era ansiogena.

«Odio gli ospedali.» sibilò Oliver. Quinn sorrise.

«A me non fanno né caldo né freddo. Ma non ci passerei le giornate.»

«Mi pare giusto.»

Oliver in pochi metri era giunto alla conclusione di detestare le stampelle. Disagevoli, tediose, rallentanti.

Si accorse praticamente per caso un mazzolino di vischio verde e rosso appeso su uno degli usci che conducevano fuori, che ondeggiava nel venticello freddo che spirava dall’ovest.

«Quinn.»

«Dimmi.»

Oliver raddrizzò la spina dorsale - tentando di non far trapelare la fatica che gli costava - spostò il peso sul piede destro e  gli porse le stampelle.

«Me le tieni un attimo?»

Quinn lo fece. Gli passò un braccio dietro la schiena per sostenerlo mentre spingeva la porta a vetri.

Poi Oliver lo abbracciò, attese che Quinn trovasse l’equilibrio per entrambi, e lo baciò.

Un bacio non perfettamente immobile, di quelli che si respiravano, che erano morbidi e dolci, che si davano per esprimere affetto quando le parole non erano in grado di giungere a un tale livello emotivo. Di quelli che sembravano dati a tradimento e invece si aspettavano, si speravano, erano legittimi, erano pretesi.

Di quelli che potevano far evaporare ogni cosa, o che potevano condensare le sensazioni.

Di quelli che erano un salto nel vuoto.

Oliver si allontanò, e per quanto volesse negarlo, era teso. Non voleva che Quinn scappasse via.

Alzò le palpebre, incontrando le iridi di Quinn, stanche, liquide, brillanti. Radiose. Un po’ peste ma splendenti come l’alba.

«Buon compleanno!» esclamò Oliver divertendosi a sbilanciarlo, e godendosi le mani di Quinn che nel frattempo avevano lasciato cadere le stampelle e cercavano di sorreggerlo premendosi giusto sui fianchi.

«Ti comporti così con tutti?» domandò trattenendo una risata che a Oliver non sfuggì. Si assestò, posandogli un palmo sulla guancia, sfiorando delicatamente il gonfiore che partiva da sopra lo zigomo.

«Solo con le persone giuste.»

Quinn gli sorrise.

«E io sono una persona giusta?»

Oliver incrociò i polsi dietro il suo collo, osservandolo poco a poco. Prima la fronte, poi la linea delicata del naso, la bocca da eterno adolescente, i capelli da cantante punk che scappa di casa.

«Forse sei la persona che sto cercando.»

 

 

 

 

 

 

 

 

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Grazie per essere arrivati alla fine e per aver letto questo mio scritto. u.u

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