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Autore: Supernavy97    12/12/2015    2 recensioni
“At to levad” sono tre parole che restano sospese nell’aria, in un attimo colmo di emozioni, e non sai dire se sia amore, ma qualunque cosa sia, sai che importante, che è pura, che è reale.
Più di Ray, più di Michael, persino più di Talì.
[...]
“Torna a casa”
E tu sorridi, socchiudi gli occhi lasciando scappare le ultime lacrime e annuisci;
ora lo sai, è giusto così.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anthony DiNozzo, Leroy Jethro Gibbs, Un po' tutti, Ziva David
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Thinking back home

 

“Allora di che colore li facciamo?” chiede una donna, una sulla cinquantina_ i capelli corti e ricci, e un paio di grandi occhiali tondi posati sul naso; ti guarda con aria curiosa ma gentile, un po’ goffa, mentre ti passa un quaderno colmo di campioni di diverse sfumature.
Sorridi_ ti viene strano sorridere così facilmente, ad un estraneo poi, ma lo fai comunque, per educazione_ e prendi tra le mani il piccolo manuale; le dita vagano in continuazione tra le mille tonalità, dal turchese al rosso porpora per poi arrivare a un verde pisello, ma solo una ti fa rallentare, trattenere il respiro e guardare con nostalgia la carta colorata.
“Arancioni?” ti senti dire, e questa volta non è la signora del negozio, bensì la tua amica. E ride, strizza gli occhi distendendo le labbra e mostrando i denti bianchi come il latte; “Chi mai tingerebbe i muri di casa di arancione?”
Io, ti verrebbe voglia di rispondere.
Eppure non lo fai, rimani zitta. Loro non sanno niente della tua vecchia vita, del passato: non possono capire. Per cui sorridi, di nuovo, sempre per finta, e chiudi il catalogo consumato.
“Me le faccia color crema per favore”

 

***

 

[A piangere si impara da piccoli; si nasce, piangendo, sotto gli occhi dei dottori che ti guardano felici, sollevati, orgogliosi di un nuovo esserino che ora batte i piedi e urla, urla, che arriccia il naso facendo strane facce e vive, vive.
Si cresce, piangendo, ad ogni caduta, ad ogni errore; si affrontano le prime sofferenze e si piange perché è l’unica cosa che si può fare: un bambino non sa come medicarsi una ferita, come cucinare un pranzo, come non aver paura, ma sa per certo che piangendo qualcuno arriverà, qualcuno aprirà la porta della sua stanza e lo stringerà a sé, scacciando ogni incubo.
Piangendo, si risolve tutto.
Poi però c’è un momento, non definito, nel quale, invece, tutto cambia; il mondo smette di girare di intorno a te e al tuo piccolo universo e si allarga, così tanto, senza lasciare il tempo di abituarcisi.
Ed è questo il momento in cui si smette di piangere. Non per vergogna, non per coraggio, ma per necessità.
Non importa, ora, quanti graffi hai sulle gambe, sei grande abbastanza per prendere un cerotto e coprirli.
Non importa ora, quanta fame hai, nessuno ti porterà del cibo.
Non importa, ora, quanta paura hai: i tuoi demoni non temono le lacrime.
E si muore, infine, piangendo.
Un pianto solitario che non sempre si riesce a sentire, un canto muto.
Un canto muto, ti ripeti, che hai udito troppe volte.

Ma al Mossad non si piange.
Non si piange: mai.

 

***

 

Siete nati in tre in quella vecchia città dai colori sbiaditi: tu, Ari e Talì, tre piccole vite distrutte da un mondo troppo crudele.
Ari è stato il primo, e l’ultimo, in un certo senso. Quando ha aperto gli occhi la prima cosa che ha sentito sono stati gli spari di un paese in guerra, ed è buffo, pensarci, che sono stati anche ciò che l’ha accompagnato in cielo, in una vita migliore.
Era un ragazzo sveglio, attraente, avrebbe avuto un futuro migliore se le circostanze fossero state altre e le cause di vostro padre non lo avessero condizionato troppo; eppure, per quanto avete potuto godervi l’infanzia, Ari è stato il tuo punto di riferimento. È stato lui che ti ha cullato tra le braccia quando piangevi in quella casa dove non facevano che urlare; è stato lui a insegnarti come rubare le caramelle dal negozio all’angolo senza farti scoprire, ed è stato sempre lui a guidarti nella notte quando vi siete persi nei boschi durante la gita di famiglia. È stato lui, ti dici, a creare una parte di te.
Talì è stata l’ultima, invece, ma in un certo senso anche la prima. Quando ha aperto gli occhi il sole splendeva alto nel cielo e gli uccelli cantavano al nuovo giorno; è cresciuta amando le piccole cose della vita e ti ha insegnato tanto, Talì, forse anche più di quanto abbia mai fatto Ari. L’hai vista mostrarti gli arcobaleni dopo le tempeste e i fiori ribelli tra le vie di Tel Aviv; ti ha strappato un sorriso quando gli addestramenti di vostro padre ti portavano alla disperazione, ti ha incoraggiato, sostenuto, amato. E la sua morte è stato il punto di svolta nella tua vita, la prima di una lunga serie di crepe, la perdita della speranza che solo anni dopo avresti recuperato, tornando a credere in un futuro.
È stata lei, ti ripeti, a creare l’altra parte di te.

 

***

 

È difficile sapere quando è accaduto precisamente, ma sai che qualcosa è cambiato in quei muri arancioni che all’inizio parevano così opprimenti e che ora, invece, trovi familiari, quasi piacevoli. 
È stato tutto molto graduale, senza fretta, hai avuto modo di vedere gli sguardi indispettiti verso la tua scrivania, le poche parole, l’odio represso; e non è stata colpa tua la morte di Kate, lo sai, tu non sei tuo fratello, non vivi delle sue colpe, eppure tutti sembravano non capirlo e ti accusavano indirettamente. Loro la amavano e tu gliel’avevi portata via.
Loro vogliono lei, non te.
E ti sei fatta forza, come sempre. Hai combattuto i pregiudizi e hai dimostrato che anche tu valevi, che anche tu potevi essere rispettata; hai sostituito la tua immagine di rimpiazzo con quella di una collega, un’amica, una parte di famiglia che si è fatta ogni giorno più presente e lo capisci davvero quando Abby ti abbraccia, indecisa all’inizio, ma leggi nei suoi occhi la preoccupazione che l’ha assillata tutto il giorno: quella di saperti viva.
In quel conteiner hai rischiato tutto, hai sentito la morte sopraggiungere piano piano, tra gli spari e le banconote bruciate, mentre ora, in questo abbraccio senza tempo, senti che stai creando una nuova vita in cui non è necessario essere spietati, in cui a volte puoi mostrarti debole perché ci sarà sempre qualcuno pronto a sostenerti.
E ti piace questa nuova vita, ti piace da morire.

 

***

 

C’è un giorno in cui torni a piangere_ è un giorno freddo e puzza di ospedale, di medicinali e di camici a puntini, ma questa volta non senti lo sguardo di tuo padre scrutarti, giudicarti; questa volta vedi gli occhi azzurri di Gibbs che ti consolano, senza parlare, e dicono tanto, invece.
Dicono che va bene piangere.
E ti lasci andare, ora, sprofondi tra le sue braccia e scacci tutte le lacrime che hai sempre trattenuto, ed eccolo Ari che ti guarda dal vecchio scantinato e il tuo cuore che trema, ancora e ancora; non meritava di morire, ma doveva farlo, era necessario, ed era comunque tuo fratello, è tuo fratello e giuri di sentirlo ridere tra le strade affollate e polverose di Tel Aviv, lo vedi che ti insegna a sparare, a correre, a non fermarti davanti agli ostacoli.
È lì, perso tra i tuoi ricordi, sigillato nel passato, in una vita che non è più la tua. Ma è tuo fratello, ti ripeti tra le lacrime, e non importa cosa abbia fatto, tu gli vorrai bene per sempre: è così che vanno le cose, è così che succede tra fratelli, ti dici.

 

***

 

“Era inevitabile” ti sussurra alla flebile luce dell’obitorio in una notte che è una notte di dolore, di silenzi, di lacrime.
“Niente è inevitabile” gli rispondi, e tra le tue parole riconosce il senso di colpa, perché mentre voi vi divertivate lei moriva, da sola, tra gli spari dei trafficanti, il sapore ferroso del sangue e quella sensazione di abbandono che provi quando tutto quello che avevi si distrugge.
E vi ha lasciati così, senza dire nulla, i capelli rossi macchiati da un altro rosso, più scuro, e così l’avete trovata, con gli occhi che si rifiutavano di guardare e un peso senza precedenti adagiato sul cuore.
Era inevitabile, ti ripetono i suoi occhi, così chiari anche nel buio dei sotterranei, nei quali ti specchi scontrando il tuo mondo con il suo, ancora una volta.
E siete ancora li, a guardarvi, mentre il tempo scorre, la luna cala e il sole sorge insieme ad un nuovo giorno, un giorno in cui proverai a fare l’impossibile, a combattere l’inevitabile.
Per te, per lui, per Jenny.]

 

***

 

“Ziva” ti senti chiamare, la voce della tua amica risuona nell’abitacolo.
“Si?” domandi, voltandoti al suono del tuo nome.
“Non volevi prendere del tè?” ti chiede allora, guardando perplessa il grande bicchiere di plastica bianca tra le tue mani.
Rimani sorpresa per qualche attimo, poi abbassi gli occhi sull’oggetto che tieni tra le mani e il sapore speziato del caffè ti raggiunge subito, portando con sè vecchie emozioni. E ti senti osservata, non capita, improvvisamente ti senti fuori luogo, ma lasci scivolare quelle strane sensazioni insieme al caf pow che ora appoggi di nuovo sullo scaffale del minimarket, rimettendolo al suo posto.
“Certamente”

 

***

 

[Arriva un momento nella vita di ognuno in cui la morte inizia a fare capolino da un angolo nascosto per poi avvicinarsi sempre di più e trascinarti giù, fino in fondo in un baratro senza fine, dove nemmeno i raggi del sole riescono a giungere; quel momento, per te, è stata la prigionia in Somalia.
Eri sicura, allora, che non saresti più ritornata a casa, dovunque essa fosse, eri certa ormai che le probabilità di sopravvivere fossero di gran lunga sotto lo zero, e invece poi tutto è cambiato, in fretta, così velocemente che non avesti il tempo di rendertene conto: strattoni, forza, un sacco nero calato sul viso e poi eccoli i suoi occhi, spalancati, verdi come la speranza che avevi perso.
E li fissi, ancora e ancora. Ti perdi tra quelle iridi chiare che non avresti mai creduto di poter rivedere e sono come un miracolo improvviso, la luce che finalmente vedi dopo mesi di oscurità.
Glielo chiedi in un sussurro perché sia li, e mentre ascolti la sua risposta giuri di sentire il cuore spezzarsi in pezzi così piccoli da fare male. È li per te, perché ti ama, e tu lo sai e lo ami, ma non glielo dici perché il tuo amore lo sta portando verso la morte ed è colpa tua, ancora, come per Ari, come per Jenny.
Ti mordi il labbro e ti sacrifichi, questo glielo dici, ma lui sorride e ti fissa, di nuovo, con quello sguardo con cui ti ipnotizza e ti fa piccola, debole, e non sai dire con precisione come, ma in un attimo il campo di prigionia svanisce e ti ritrovi nuovamente tra quelle pareti arancioni, stretta in un abbraccio, mentre lui continua a guardarti da dietro quegli specchi celesti.
Sei a casa, quella vera, quella che non ti ha tradito.
Tuo padre ti vuole indietro, ti pretende, ma Gibbs questa volta non ti lascia andare, ti protegge, perché è così che dovrebbe fare un padre. E lo odia Eli, lo percepisci nel modo in cui ti accarezza, con estrema delicatezza, come avesse paura di romperti per via di tutto quello che hai dovuto subire; ti appoggia una mano sul capo e urla a quelli che una volta erano i tuoi colleghi, i tuoi fratelli, ma che ti hanno voltato le spalle.
Gli urla di andarsene, di non toccarti.
Gli urla i diritti che non hanno e la coscienza che dovrebbero pulire.
Con gli occhi in fiamme, gli urla di non tornare.

 

***

 

Quando Ray viene a parlarti di matrimonio sgrani gli occhi e perdi il respiro, fissando sbalordita l’anello nella piccola custodia blu; lui è lì, in ginocchio, un sorriso sulle labbra e il costante desiderio di un futuro insieme. Tu, invece, sei li solo fisicamente: la mente è in totale caos, rapita da un tornado di incertezze.
Se lo ami? Non ne sei sicura. Gli vuoi bene, certamente, ti piace la sua compagnia e ti fa sentire importante, ti fa credere in un domani lontano dalla solitudine, però c’è qualcosa che continua a stonare nel puzzle di vita che state costruendo e giorno dopo giorno capisci che è la fiducia.
E si spezza così la fantasia di una famiglia, i sogni di bambina, la realtà ti rinfaccia tutta la sua amarezza e non piangi, non più, ti si velano gli occhi e ti tremano le labbra mentre lasci l’aeroporto e abbandoni quello che credevi sarebbe diventato qualcosa di più di un’altra delusione amorosa.
E Gibbs è li, al tuo fianco, sorreggendoti e impedendoti di cadere.

 

***

 

At to levad” sono tre parole che restano sospese nell’aria, in un attimo colmo di emozioni, e non sai dire se sia amore, ma qualunque cosa sia, sai che importante, che è pura, che è reale.
Più di Ray, più di Michael, persino più di Talì.

 

***

 

Hai sempre odiato la guerra, le armi, il fuoco, i cadaveri riversi a terra e le pallottole fredde conficcate nel loro cuore; e li ha sempre odiati non tanto per la crudeltà del mondo che ti mostravano_ anche_ ma per quello che ti portavano via, per il padre che ti hanno rubato, allontanato, reso per qualche attimo per poi riprenderselo nel peggiore dei modi. E ora sei qui, in una stanza che puzza di morte, le guance rigate di lacrime e la gola che urla vendetta. Abbracci il corpo senza vita di un estraneo che era tornato ad essere la tua famiglia grazie alla tua famiglia, quella nuova, quella che abbandonerai.
Chiudi gli occhi e dici basta, basta a tutto questo dolore, a tutte questi pianti che non riporteranno indietro nessuno, basta a queste mani che non sanno proteggere.
E quando li riapri sei una persona diversa, una persona che ha capito. Capito che il motivo di tutta questa infinita sofferenza non è lei, solo lei.
Sempre lei.]

 

***

 

Arrivi.
Dissotterri.
Cancelli.
Scrivi.
Scrivi.
Seppellisci.
Scappi.

Le parole non sono che parole ma ti aiutano a credere in un futuro; e come faceva Talì, ti fanno sperare.

 

***

 

Israele è un paese piccolo, le cui strade si incrociano più volte varcando la terra arida e sabbiosa che lo contraddistingue, ma è il tuo paese e lo hai sentito scorrere nelle vene anche quando ti ha abbandonato, lasciandoti a morire in una terra ancora più spoglia, ancora più deserta.
Hai sentito il suo canto nella notte, le sue preghiere, i suoi profumi, mentre agognavi la vita e contavi le stelle di un soffitto senza finestre. E hai provato a dimenticarlo, a lasciartelo alle spalle come la parte di te che è morta nel Corno d’Africa, in un massacro continuo che non sembrava avere fine; hai seppellito la te che lottava, quella che non aveva sentimenti, e ne è nata una nuova, una che soffre, una che piange; una che vive.
Eppure, dopo anni, Israele torna da te.
Ti sussurra un vento caldo, il sapore del mare così diverso da quello del freddo oceano americano, l’odore speziato di una terra meridionale.
E tu torni da lui, seguendo i ricordi. Ti rendi conto che forse non lo avevi mai lasciato andare del tutto, e realizzi che è difficile dimenticare, è davvero difficile, perché è qualcosa che è con te da ancora prima che nascessi, ti ha visto muovere i primi passi, annegare le lacrime in silenzio, crescere, combattere, ti ha visto andare via e ti ha visto tornare. Ti ha tradito e ti ha salvato.
Ed è così difficile dimenticare, ti dici, ora che sei di nuovo qui, da sola, in questa terra che ti ama e non ti chiede niente. In questa terra che non puoi più ferire perché ormai tutto quello che potevi distruggere, l’hai distrutto.
E puoi solo salvare il salvabile, ora.
Puoi solo lasciare andare.

 

***

 

Quando ripensi all’America la prima cosa che ti salta in mente è il cibo, così strano, e le persone, sempre di fretta; ti ricordi i numeri sulle vie e le stelle nel cielo come nelle bandiere, ovunque, i college e le uniformi, i grattacieli così alti e quel perenne senso di protezione. Un po’ ti manca, ammetti, quel bizzarro paese.
Poi ti ricordi i visi amici, quelli che ti hanno voluto bene e aiutato, quelli che ti hanno offerto una spalla nei momenti più dolorosi. E ricordi anche le parole, quelle sincere, non abbozzate su un sorriso di circostanza.
L’America l’hai vissuta: amata e odiata.
E così anche l’amore: vissuto, amato, odiato.
Hai imparato a leggerlo nei gesti spontanei, negli sguardi fugaci, nel modo assurdo in cui vi siete ritrovati, mille volte, nei baci voluti e mai richiesti, nelle frasi pensate e mai dette, sussurrate alla notte, qualche volta. E ti manca anche quello, un po’.
Ripensi al suo viso quando ti ha salutato, la disperazione dipinta sul volto, mascherata in un sorriso che ti ha spezzato il cuore. Ripensi a tutto quello che avreste potuto avere e che non avrete, per colpa tua, dei tuoi errori, del tuo non essere mai capace di andare avanti; hai ferito, te lo hanno detto, hai distrutto, te lo hanno dimostrato senza giri di parole, eppure hai anche amato, hai anche salvato, eppure perché quest’ultimi vengono sempre oscurati dai primi?
Perché non riesci mai a perdonarti?
Perché non riesci mai a vedere quella parte buona di te che tutti cercano disperatamente di mostrarti?

 

***

 

È quando Mike Franks è morto, rifletti, che hai iniziato a pensare a cosa il tuo lavoro comportasse veramente, a quali fossero gli effetti collaterali e se valesse davvero la pena convivere con questi.
Ti rispondesti di si. Lo era.
E piansi, non per un taglio, per fame o per paura: piansi per un dolore che non riguardava il sangue, le ferite, i colpi di proiettile, bensì un vuoto, un vuoto infernale che ti invase l’anima e che nemmeno le forti braccia di Tony riuscirono a scacciare.
In quel freddo ascensore tornarono in vita tutti e tu dovesti riaffrontare, una per una, le loro storie, i loro momenti di gloria, i loro eterni fallimenti; così come allora li vedi oggi, tra le strade abbozzate e la fastidiosa sabbia dei vicoli di Tel Aviv.
C’è Ari che non parla, ma ti fissa, sorpreso, sconvolto dal tuo impensabile tradimento eppure dietro ai suoi occhi, dietro a tutto quel disprezzo, a quell’odio con cui non ti ha mai guardato, lo vedi il perdono, lo noti quando abbassa le palpebre e abbozza un sorriso, scomparendo tra le tue lacrime.
C’è il direttore avvolto in una chioma di capelli rossi, non quella corta che la contraddistingueva negli ultimi anni, ma quei lunghi capelli mossi che volavano al vento la prima volta che la incontrasti, molti anni prima, in un mondo che non appartiene più a nessuna delle due. E ti sorride, anche lei. Ti dice che non è colpa tua, che devi avere fede. Ti dice di non rimpiangere il passato, di essere felice perché lo l’ha capito anche lei che in queste terre straniere, non lo sei.
C’è Michael che ti maledice, ti ama, ti odia, non riesci nemmeno a capire cosa ti stia dicendo perché i ricordi ora sono troppi e la sua immagine svanisce e ritorna, sovrapponendosi a quella di così tante altre persone. C’è di nuovo Mike Franks, c’è l’agente Lee, ci sono Jackie e tuo padre e tutte quelle persone che per un motivo o per l’altro sono state costrette ad andarsene al suono dei proiettili che la tua pistola sparava con così tanta precisione.
E preghi per tutti, per quelli che hai ucciso e quelli che sono sopravvissuti, prendendosi il fardello più grande: perchè chi vive è costretto ad accettare una realtà che non voleva, è costretto a combatterla, sempre, e ad andare avanti. Chi muore, invece, muore e basta. Tutto si annulla e tutto svanisce in un indefinito mondo dai colori opachi.
E ti senti sola perché non c’è più nessuno accanto a te e solo ora capisci che la tua famiglia non sono più i fantasmi che girano per le strade della capitale, ma quelli vivi, quelli che hai abbandonato in un altro paese e che ora rivuoi indietro, ne hai bisogno, perché realizzi che ti mancano come l’aria, tutti loro. Ti mancano quegli orrendi muri arancioni e il lucernaio, ti manca la complicità con McGee e gli abbracci di Abby, ti mancano gli scappellotti di Gibbs e gli occhi di Tony sempre su di te; ti manca tutto.
Forse è tempo di tornare a casa, quella nuova, quella lontana, e mentre premi i tasti sul cellulare, le mani tremano e il cuore batte fortissimo dentro al petto, lo senti quasi esplodere.
Ormai è sera e l’odore del mare ti solletica le narici, quel mare profondo, misterioso, che ti separa da tutti e che da anni bagna le coste di Israele, ma lo senti come un amico, oggi, come le stelle che paiono brillare più di ogni altra notte.
E inizia a squillare, a vuoto, per secondi interminabili in cui il silenzio regna sovrano; ti chiedi se hai fatto bene a chiamare, se non sia un po’ troppo ipocrita e lo è, in fondo. Poi però  ad un certo punto odi uno stacco: una voce familiare risponde e tu lo sai che dovresti parlare, scusarti, chiedere come stia, cosa sia cambiato, invece riesci solo a piangere silenziosamente mentre i singhiozzi raggiungono l’altra parte del mondo.
Ti copri la bocca, ma è inutile perché ormai le emozioni sono troppe e tu sei troppo debole per controllarle.
Sono poche le parole che ti rivolge, non sono mai state tante, ma oggi come non mai realizzi che sono sempre quelle adatte.
“Torna a casa”
E tu sorridi, socchiudi gli occhi lasciando scappare le ultime lacrime e annuisci;
ora lo sai, è giusto così.

  
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