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Autore: Sea    17/12/2015    0 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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XXXIV




Erano due giorni che non usciva di casa. Erano due giorni che non dormiva. Erano due giorni che non mangiava.
Erano due giorni che Marina non lo riconosceva.
Lei era riuscita a farsi rimpiazzare a scuola e l’avvocato aveva pensato a tutte le scartoffie da consegnare al comune per sospendere per qualche giorno il suo lavoro in biblioteca. Avrebbe dovuto sentirsi amato e coccolato, ma si sentiva soltanto vuoto.
Per quanto Marina lo accudisse, per quanta tenerezza gli donasse, non riusciva ad uscire da quel tunnel e quella mattina era La mattina.
Londra era uggiosa e tetra ai suoi occhi, lontana dall’immagine della città che doveva realizzare i suoi sogni. Entrarono nel tribunale in silenzio, l’immenso edificio di marmo bianco risplendeva e faceva contrasto col suo umore.
Voleva dimenticare quella giornata da subito, ma quando vide suo padre attendere in piedi in un corridoio luminoso, per un secondo dimenticò tutto.
Spalancò gli occhi, stando improvvisamente sull’attenti. Erano anni che non lo vedeva e ancora gli importava di non apparire debole davanti a lui: il figlio che credeva avesse sempre desiderato, forte e sicuro di sé.
Quando Ian si voltò verso di lui, sembrò spaventarsi: guardare negli occhi vuoti di suo figlio, era come guardare in un buco nero. Ogni parte del suo corpo comunicava lo strazio che aveva dovuto sopportare e lui, da padre, sentì i muscoli irrigidirsi a quella percezione, ma – si disse – continuava ad avere quel passo morbido che lo aveva sempre caratterizzato.
Edward avanzava verso di lui lasciando svolazzare il cappotto blu intorno alle sue gambe, con Marina e Kadmon ai suoi fianchi, ma non percepiva niente.
Di tanto in tanto sentiva il profumo del maglione di Josh, quello che gli aveva prestato dato che era un nullatenente, ma quando fu a pochi metri da suo padre, svanì anche quello.
  • Buongiorno, signor Sheeran, la ringrazio per essere venuto. – disse Kadmon, tendendogli la mano.
Ian si forzò a distaccare lo sguardo da suo figlio e a stringere la mano a quello che doveva essere l’avvocato. La stretta di quell’uomo era decisa e lui si fidava di chi stringeva la mano in un certo modo.
  • Grazie a lei signor…? – cominciò.
  • Kadmon. Avvocato Kadmon. – Adam riuscì a scorgere il senso di colpa negli occhi di Ian, come un fulmine a ciel sereno.
Ed non smise di fissarlo per un solo istante, quasi preoccupato che potesse sparire ancora, proprio come in passato. Non riusciva a dire niente.
  • Piacere signor Sheeran. – intervenne Marina, non potendo sopportare il silenzio.
  • Uhm, t-tu sei la fidanzata di Edward? – chiese lui, quasi incredulo.
Marina per un secondo dubitò della sua risposta, ma non era quello il momento di far sorgere altri problemi.
  • Sì, signore.
  • Piacere mio, allora.
Beh, era rimasto solo lui. Padre e figlio si guardarono senza aprire bocca e Marina capì da chi Edward avesse ereditato quel carattere.
Ed, grazie al suo turbamento, riuscì a mantenere l’espressione impassibile e scrutò negli occhi grigi di suo padre alla ricerca di una sicurezza che lui non aveva.
Non aveva il coraggio nemmeno di dirgli ciao, non dopo aver perso ogni cosa, non dopo aver fallito in modo definitivo. Si sentiva una delusione per lui e l’unica cosa che riusciva a fare, così preso dalla negatività, era restare inerme.
  • Ciao, Ed.
Dovette respirare profondamente e sbattere le palpebre per assorbire il colpo.
  • C-ciao, papà.
Ian fuggì dagli occhi feriti di suo figlio, non potendo sopportare la realtà che contenevano e lasciò che calasse ancora il silenzio.
I corridoi brulicavano di persone, avvocati, giudici, amministratori, il brusio era costante, ma nei due metri quadrati che occupavano, era sceso il gelo.
Kadmon, animato dalla sua professionalità, guardò l’orologio e poi prese la parola.
  • Signor Sheeran, mi segua. Le spiegherò ogni cosa.
Ed entrambi si allontanarono.
Marina guardò Edward seguire la schiena di suo padre, come se stesse rivivendo un passato troppo doloroso. Così lo prese per mano, riconquistando il suo sguardo e strinse di più la presa. La cosa che desiderava di più in quel momento, era che su quel viso potesse nascere ancora un sorriso.
 
Knock. Knock.
  • Dichiaro aperta la seduta.
Il giudice dichiarò con pacatezza, per poi posare il martelletto sul bancone di legno.
Quando aveva visto Ben e Jef si era sentito come investito da un treno, lo stomaco si era aggrovigliato su se stesso e il viso si era pietrificato. Suo padre non li aveva degnati nemmeno di uno sguardo, ma lui aveva voluto guardarli negli occhi e capire se in quelle anime esistesse qualcosa di buono.
Il pentimento era l’ultimo sentimento che avrebbe potuto scorgere nei loro sguardi.
La stanza calda e piccola era il palcoscenico di quell’ultima scena che credeva non avrebbe mai messo in atto.
Quando Kadmon terminò di esporre il caso e il signor Foster, di Foster&Martins, concluse la sua arringa, fu il loro turno. Uno alla volta si alzarono e giurarono con la mano sulla Bibbia di dire solo la verità e nient’altro che la verità.
A 23 anni era seduto davanti ad un giudice a raccontare tutti gli orrori che aveva subìto e gli sembrò che le parole defluissero dalla sua bocca in modo troppo naturale. Persino quando Foster lo interrogò riuscì a mantenere la calma. Non balbettò nemmeno una volta.
Forse era la tristezza o la depressione, ma si sentiva come anestetizzato: fuori dalla realtà, privo di ogni percezione razionale. Lui, quel giorno, non era lì.
Riuscì vagamente a sentire la voce di Marina e quella di suo padre, a stento si accorse della testimonianza di Josh e di Pit, di cui non aveva notato nemmeno la presenza.
Soltanto diverse ore dopo, quando il giudice si alzò in piedi, sembrò ridestarsi.
  • Date le prove e le testimonianze fornite dall’avvocato Kadmon, dichiaro ai sensi della legge Benjamin e Jeffrey Storm colpevoli. Secondo il verdetto della giuria, saranno condannati ad una pena di 35 anni di reclusione per truffa, spaccio, tentato omicidio, omicidio premeditato, violenza domestica, sfruttamento e tentato stupro. – una piccola pausa. – La seduta è tolta.
Knock.
Marina scoppiò in lacrime e lo abbracciò: aveva vinto, era finita. Non avrebbe più dovuto sopportare, era libero.
I suoi occhi chiari continuavano a fissare il vuoto, come se quella consapevolezza l’avesse investito con troppa violenza.
Mentre Marina affondava il viso nel suo petto, Josh lo affiancava e batteva una mano sulla sua spalla. Lo guardò negli occhi, cercando di non dimenticarsi di respirare, e sospirò, finalmente.
  • Ce l’hai fatta. – disse quello, stringendogli la spalla.
Lo tsunami di sentimenti che fino a quel momento aveva trattenuto, si infranse contro il suo cuore e in un solo istante, mille percezioni lo investirono: il profumo di Marina, la presa di Josh, la voce di Pit, la gratitudine.
Scosse la testa per scacciare la confusione e senza pensarci due volte, prese il suo amico in un abbraccio.
  • Grazie. – gli disse, cercando di non piangere.
Josh lasciò il posto a Pit e a Kadmon. Quelle persone avevano cambiato la sua vita.
  • Ragazzo, sabato si suona e non voglio sentire scuse! – disse il suo capo, lasciandolo.
  • Sì, signore. – quasi rise.
Ian avanzò verso di lui, risvegliandolo del tutto. Suo padre era lì per lui. Quando aveva sentito che non avessero più una casa, che ogni cosa fosse perduta, non aveva battuto ciglio ed era rimasto.
  • Sono contento per te, figliolo. – disse, posando la sua mano grande sulla spalla di suo figlio, più basso di lui, ma più uomo di quanto avesse creduto.
Non importava da quanto tempo non si parlassero, non importava più cosa avessero fatto, suo padre era lì e non sapeva spiegare il sentimento che provava, sentendolo pronunciare quelle parole.
Lo guardò per pochi secondi, senza sapere cosa fare, poi lo abbracciò.
  • Grazie, papà.
Nel momento in cui Ian lo strinse a sé, come quando aveva 6 anni, Ed sentì di non essere più l’ultimo rimasto: la sua famiglia era ancora viva, stretta in quell’abbraccio.
Il padre che gli era sempre mancato, stava abbracciando ancora il suo bambino.
Marina li guardò, con gli occhi ancora lucidi e non osò interromperli. Riusciva a sentire il cuore di Edward battere semplicemente guardando la sua nuca scoperta.
Quando quell’abbraccio si sciolse, lui si voltò subito verso di lei e le andò incontro.
Stava per parlargli, ma Ed non le permise di aprire bocca: la baciò, con le mani sul suo viso e gli occhi chiusi.
  • La mia fidanzata, eh? – la prese in giro, quando poi l’abbracciò. Il pensiero volò ad Evangeline.
  • Non mi sembra che ti dispiaccia. – sorrise lei, con gli occhi chiusi, poggiata sulla sua spalla.
  • Grazie. – sussurrò.
Quando uscirono da lì e rimasero soli, Edward aveva ancora mille preoccupazioni, ma non riusciva più a sentirsi infelice. Non aveva niente, ma si sentiva amato.
Era libero.
 
 

 
 
Era difficile per lui spiegare cosa fosse la sua vita, a quel punto.
Non sapeva da dove cominciare per rimettere insieme i suoi pezzi, le parti che lo avevano sempre definito non esistevano più ed ora si ritrovava spaesato, perso nella casa di Marina senza sapere se sentirsi bene o male.
Aveva ricominciato a lavorare e Marina era tornata a scuola, ma continuava a sentirsi fuori posto. Kadmon, dopo il processo, aveva voluto la metà dei soldi che gli doveva, dicendogli che praticamente aveva fatto tutto lui e aveva litigato furiosamente con Marina, perché non voleva dipendere da lei, per vivere. Alla fine, lo aveva costretto a restare con lei, promettendogli che quando avrebbe ritrovato la stabilità, avrebbe potuto fare ciò che voleva.
Quando si svegliava la mattina, accanto a lei, si rendeva conto di non aver sognato: lei esisteva davvero e la sua casa non c’era più.
Quel sabato, Pit gli propose di lavorare come cameriere per tutta la settimana, dato che Josh si era “licenziato” per tornare a fare il poliziotto a tempo pieno. Accettò, sperando di riuscire a restituire i soldi alla banca nel minor tempo possibile, ma era una speranza fragile.
Le settimane presero a scorrere con una lentezza indicibile, scandite dallo stesso ritmo giornaliero lavoro – casa – lavoro, in cui lui e Marina si vedevano solo la sera, a cena e poi crollavano stanchi sul letto, spesso senza nemmeno parlare.
Era difficile per entrambi sforzarsi in quel modo: lei aveva consegnato la tesi e si preparava a discuterla, lavorava a scuola e all’Hawking e cercava in tutti i modi di evitare che lui cadesse in depressione; dal suo canto, Ed viveva in un limbo buio, fatto di ansia e paura, gli unici demoni che continuavano a tormentarlo.
Tuttavia, guardare nei suoi occhi al mattino, gli dava il coraggio di vivere il nuovo giorno.
I giorni in cui si era sentito davvero felice sembravano lontani, ma una sera Marina trovò la sua agendina, quella su cui abbozzava i testi delle sue canzoni. Trovò il testo che gli aveva dato a Natale e scoprì che lo aveva trasformato in una canzone.
“Tenerife Sea” non parlava più soltanto di lui e si commosse, percependo la profondità del loro legame. Da quella sera, quando lui tornava a casa, lavoravano a qualche testo, ritrovando in quei momenti la loro serenità. Si accorse che quando Edward suonava, era meno triste.
  • Secondo me, un giorno avrai successo. – gli disse, sapendo di risvegliare in lui qualcosa che si era spento.
Febbraio era arrivato già da un po’ e ben presto Marina festeggiò la sua specializzazione, insieme a lui e ai suoi genitori, a Londra. Era il giorno del compleanno di Edward.
Avevano organizzato una piccola festicciola per entrambi e sua madre aveva insistito per invitare anche Ian a pranzo. Probabilmente quello fu il giorno in cui Edward aveva ricominciato a sperare. Seduti intorno al tavolo, si sentì a casa, in famiglia. Spegnere le candeline sulla torta, scattare delle foto, ridere, era qualcosa che non faceva da tempo. Gli amici e le amiche di Marina erano entusiasti di conoscerlo, di conoscere l’uomo che l’aveva rapita e non gliel’aveva più restituita.
Mangiando il dolce, Jody raccontava divertita aneddoti sulla loro storia e Josh raccoglieva materiale per prenderli in giro.
Più tardi, seduti nella sua vecchia stanza, Marina gli porse il suo regalo.
  • Marina, non dovevi. – disse, prendendo la piccola scatola dalle sue mani. – Io non ho niente per te.
  • Tu mi hai già dato tutto. – rispose lei.
Quando aprì la scatola, rimase senza fiato.
Paw miagolava e lo fissava, cercando le sue coccole. Senza fiato, guardò la sua fidanzata senza riuscire a parlare.
  • L’ho adottato. – gli confermò lei.
Edward prese il gatto dalla scatola e col braccio libero, avvolse lei. Con la fronte sulla sua, cercò di respirare. Non riuscì a dire niente.
Sapeva solo che la amava.
 
Entro Marzo, Edward recuperò il sorriso e cominciò a versare soldi alla banca. Una piccola luce lo attendeva infondo al tunnel.
Suonando all’Hawking, sotto gli occhi di Marina che lavorava, riusciva a sperare che un giorno avrebbe potuto offrirle una vera casa, una vera vita, ma la strada era ancora così lunga da far paura. A volte temeva che lei si sarebbe stancata di lui, della sua tristezza. Se avesse perso lei, la sua vita sarebbe valsa a nulla.
Quella sera, però, qualcuno doveva aver ascoltato le sue preghiere, perché quando il locale si fu svuotato, il misterioso signore che gli offriva da bere gli si avvicinò per la prima volta dopo mesi e gli rivolse la parola.
  • Mi chiamo Stuart Camp. – disse quello, tendendogli la mano tozza.
  • Edward Sheeran, piacere mio. – lo guardò senza mostrare emozioni, ma stava morendo dalla curosità di sapere cosa volesse da lui un uomo sulla quaratina, grosso e tarchiato. Cercò di leggere nei suoi occhi.
  • So che hai avuto un po’ di problemi ultimamente. – disse, con una certa confidenza.
  • Già. – disse, aggrottando lo sguardo e lasciando le sue mille domande senza risposta.
  • Pensi che ora siano finiti?
  • Ne dubito, signore. – disse soltanto, senza capire il punto.
  • Di cosa hai bisogno? – gli chiese, come se potesse davvero dargli una casa e dei soldi.
  • N-non credo che lei possa aiutarmi. – gli disse. – A meno che non sia un miliardario che può regalarmi una casa e dei soldi. – sorrise a se stesso, chiedendosi dove volesse arrivare qello Stuart.
  • No, di certo non posso. – sorrise quello – Ma se sei disposto a lavorare seriamente, posso aiutarti.
Si fermò, tenendo sospeso il cavo acustico che stava avvolgento intorno al braccio e si fermò a riflettere. Il signor Camp doveva aver capito di non essersi spiegato abbastanza.
  • Se vuoi, posso aiutarti a trovare un’etichetta discografica.
  • C-cosa?! – quasi urlò.
  • Dovrai lavorare parecchio, è bene che tu lo sappia, ma credo che tu abbia talento. – disse, puntando il dito verso di lui e parlando con una certa enfasi.
  • Mi sta prendendo in giro? – chiese, con gli occhi fuori dalle orbite.
  • Certo che no. – rise quello. – Vieni con me a Londra e vedrò di inserirti nel giro. Non guadagnerai subito, non avrai una casa, ma abbi fiducia – continuò – e presto qualcuno ti chiederà di incidere un album.
In quel momento Marina si avvicinò, avendo ascoltato l’ultima parte del discorso. Il viso di Edward era ceruleo e il suo stesso cuore aveva sospeso i battiti.
Ed guardava quell’uomo negli occhi come per capire se fosse un sogno, ma quel tipo era reale. Erano mesi che era lì dentro quasi tutte le sere.
Cominciarono a formicolargli le mani capendo che aveva avuto un manager davanti per tutto il tempo.
  • Lei è un manager. – disse, manifestando i suoi pensieri ad alta voce. Marina lo affiancò.
  • Cosa ne pensi? Sei disposto a farlo?
  • Io… - guardò Marina.
Non riusciva a decifrare i suoi pensieri dalla sua espressione, ma anche il suo viso aveva perso il colorito. La sua testa prese a viaggiare, simulando le mille possibilità che aveva davanti.
  • P-posso pensarci? – disse alla fine, senza smettere di guardarla.
  • Certo, prenditi il tempo che ti serve. – disse Camp. – Mi troverai qui.
L’uomo alzò la mano in segno di saluto, poi voltò le spalle e lasciò il locale.
 
Il cassetto che aveva chiuso a chiave, era stato riaperto. Probabilmente, se non fosse stato in quella situazione avrebbe accettato sul momento, ma ora le variabili in gioco erano più importanti di una possibile carriera.
Aveva un debito in banca, un lavoro, Marina. Avrebbe dovuto restituire tutti i soldi, licenziarsi e allontanarsi da lei. E se Marina non volesse? E se l’avesse persa?
Se si trovasse un altro uomo, durante la sua assenza?
  • Puoi andare. – disse Marina, seduta sul divano accanto a lui.
  • Come?
  • Vai. – ripetè.
Lo guardò negli occhi, cercando di nascondere una preoccupazione che lui scorse comunque.
  • Questa è la tua grande occasione, Edward.
  • Sai cosa significa. – le disse.
  • Sì, lo so. Ma ce la possiamo fare. Io ci credo.
Ed sospirò pesantemente, voltando il viso dall’altra parte. Avrebbe voluto portarla con lui o che Stuart Camp non gli avesse mai fatto quella proposta. La sola idea di andarsene per tentare la fortuna lo repelleva, ma allo stesso tempo sentiva che non gli sarebbe capitato mai più.
  • Ehi. – Marina posò la mano sul suo viso per farlo voltare verso di lei. I suoi occhi brillavano. – Hai dimenticato cosa ha detto tuo nonno?
Ed sembrò ricordare quelle parole come se le avesse lette poco prima e in un secondo cambiò espressione.
  • Fai in modo che la gente ti conosca. – disse Marina, seria.
Ed sospirò ancora, gonfiando il petto più che poteva. Carezzò i capelli di Marina, valutando seriamente la possibilità di andarsene.
  • Non voglio perderti. – le disse, motivando la sua indecisione.
  • Non succederà. – disse lei, scuotendo la testa e sorridendo. – Io ti aspetto.
Marina diceva la verità: quella era la sua grande occasione ed aveva fiducia in lui. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Sapeva che sarebbe tornato da lei. L’uomo di cui si era innamorata, il combattente, aveva la possibilità di rinascere ed essere felice.
  • Non sarai gelosa delle mie fan? – finalmente sorrise anche lui, strofinando il naso contro il suo.
  • Tantissimo. – dichiarò con enfasi.
  • La maggior parte delle ragazze vogliono coccolarmi, non portarmi a letto. – fece, vicino alle sue labbra.
  • Oh, credimi. – fece lei – Si innamoreranno tutte di te.
Edward rise, ritenendo che quell’affermazione rasentasse la follia.
Forse, poteva partire.
Forse, poteva realizzare il suo sogno.
La baciò, sentendo l’amarezza della distanza già posarsi sulle loro labbra.
  • Davvero, Edward. – riprese lei, guardandolo negli occhi. – Puoi andare. Provaci.
Ancora una volta non rispose. Il suo cervello era in preda alla confusione, ma più ci pensava, più voleva partire. Rimettersi in gioco.
  • L’hai fatto con me, puoi farlo anche stavolta.
Aveva scritto una valanga di canzoni nelle ultime settimane, aveva recuperato qualche soldo, ma era comunque difficile rinunciare a tre lavori e gettarsi nel vuoto.
Si chiese cosa avrebbe detto sua nonna, in quel caso.

Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?

Probabilmente avrebbe fallito e sarebbe tornato da Marina più povero e inutile di prima. E se invece ce l’avesse fatta?
I suoi occhi verdi accendevano una speranza così brillante in lui che annullava tutti i fiochi dubbi che illuminavano il suo tortuoso cammino.
Prima di Marina, realizzare quel sogno era un’esigenza egoistica, ora invece voleva partire solo per lei.
Voleva essere l’uomo che meritava, darle ciò che poteva renderla felice, costruire una famiglia. Era un sentimento quasi primitivo, un istinto naturale: essere migliore per lei.
  • Promettimi che non smetterai di amarmi. – le disse.
Marina carezzò il suo viso e poi i suoi capelli, nascondendo la paura che provava.
  • Te lo prometto. – rispose. – Tu promettimi di non cambiare.
Edward annuì, giurando in silenzio che non avrebbe mai più disprezzato la vita, finchè avrebbe avuto Marina.
Stringendo di più la sua mano, pregò che il gioco d’azzardo di cui era la pedina giocasse la carta giusta.
Prendendo quella decisione, stava mettendo in gioco tutto ciò che aveva, tutto ciò per cui viveva, ma…se rischiare significava davvero essere felice, allora sarebbe andato in caduta libera e avrebbe visto dove sarebbe atterrato.
 

Il giorno dopo, quando il locale si svuotò, si avvicinò a Stuart Camp tendendogli la mano.
  • Ci sto.







Angolo autrice:

Eccomi, di nuovo in ritardo, ma ci sono.
Non so nemmeno io cosa dire di questo capitolo, solo che avrei voluto e dovuto approfondire la situazione molto di più, ma purtroppo l'università mi ha inghiottito.
Vi prometto che la prossima storia sarà migliore.
Anyway, cosa ne pensate?
Questo, cari Marined, è il penultimo capitolo e sono già in depressione perchè la storia è finita e vorrei ricominciare tutto da capo.
Come sempre, spero di non avervi deluso e di non deludervi.
Devo davvero ringraziare Lunastorta_Weasley e imcecy per le splendide recensioni dello scorso capitolo, avete fatto la differenza nelle mie giornate e non so davvero come dirvi grazie.
Ci vediamo nel weekend per l'ultimo capitolo.
A presto,

S.




Bonus: Ed sul divano di Marina e in compagnia di un grassissimo Paw.


  


 
  
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