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Autore: Flora    19/12/2015    8 recensioni
Alcuni anni prima di diventare generale - e poi gladiatore - Massimo fa ritorno in Hispania dalle terre del nord, per recare l'unica notizia che mai avrebbe voluto dare.
Questa è la storia di come Massimo Decimo Meridio ha conosciuto la donna che è diventata sua moglie.
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Clelia solleva il viso e i loro sguardi si incrociano di nuovo. "Ti rivedrò ancora, Tribuno Meridio?" Poi, dopo un attimo: "… Massimo?"
È solo un sussurro. Ha la leggerezza del vento che abbraccia le spighe. E, per un attimo, sembra lenire anche il suo cuore.
"Se è quello che desideri‎."

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Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Massimo Decimo Meridio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo racconto è dedicato a ValorosaViperaGentile.



‘La terra è scura come i capelli di mia moglie’
 
 
 
 
 
 
Hispalis, Hispania[1] – 174 d.c.
 
 
 
 
 
 
Il sole filtra tra i rami degli alberi in lame d’argento screziate di verde, e si riflette sull'onda di grano che si gonfia e si increspa al ritmo di un vento lieve.
Massimo deve schermarsi gli occhi dal riverbero mentre si appresta alla casa di mattoni neri e rossi, che spunta come uno scoglio solitario nel mare riarso della campagna baetica.[2]
Nel lungo tragitto dal nord ha fatto riposare il cavallo in ogni stazione di posta, ma può percepire la stanchezza di Scarto nel tremolio nervoso del collo sotto le dita e nell'odore acre di sudore del suo corpo accaldato. ‎
Potrai riposare molto presto, amico mio, lo rassicura senza parlare e, come sempre, la bestia sembra percepire i suoi pensieri, sollevando la testa scura e scuotendo la criniera con un nitrito sonoro.
Il sentiero d'ingresso alla magione è fiancheggiato da alti alberi di cipresso, ed è strano constatare come tutto, in quel luogo, gli ricordi casa sua: l'odore di fieno e i ciottoli aguzzi della strada, il rumore degli zoccoli dei puledri lasciati liberi nel recinto e i colori caldi della terra appena smossa dopo l'aratura. Nonostante i quindici anni di conoscenza, questa è la prima volta che visita la casa di Tiberio, e prova una fitta alla gola nel notare come, anche nel luogo che li ha visti nascere e crescere, fossero così simili.
Porta una mano al fianco a sfiorare la daga che pende dal balteus,[3] e riconosce al tatto le iniziali incise sul fodero di cuoio, appena sformate dal tempo e dall'usura. Quella daga fu donata a Tiberio da Marco Aurelio nello stesso giorno in cui l'imperatore gli fece dono della sua, come simbolo della loro elezione alla carica di alti tribuni dell'ordine equestre.[4]
Da allora non se ne è mai separato – come mai l'ha fatto Tiberio, fin quando ‎la daga gli è stata strappata a forza dalle mani, indurite dal freddo e rese scivolose dal suo sangue.
Ha dragato il fango impolpato d'acqua e neve per ritrovarla, l'ha ripulita e limata con punte di selce per ridarle l'affilatura – ha inciso la sagoma del suo cavallo sul manico di legno e infine se l'è appesa al fianco dopo aver lasciato Vindobona[5] diretto a sud, verso il sole.
Ferma il cavallo nello spiazzo polveroso davanti all'ingresso e un ragazzo gli viene incontro, dapprima sollecito poi timoroso, quando scorge le insegne delle legioni. ‎Per questa visita ha indossato l'alta panoplia, come dovesse presenziare a un ufficio di importanza sacrale: la preziosa lorica di lino sagomato e la tunica orlata di porpora, lunga al ginocchio; gli stivali bordati di pelo leonino e la spada lunga, con le insegne di cesare; l'elmo è quello crestato di rosso, simile ai cimieri attici, ma non è il suo. Lo porta sotto il braccio, lo squarcio sul lato nascosto contro il fianco, in un ultimo gesto di pudore e protezione.
Il ragazzo lo sta fissando, forse ha intuito qualcosa perché gli occhi si sono fatti grandi sul viso scuro, da contadino. Senza dire una parola prende in consegna il cavallo; Massimo gli rivolge solo poche indicazioni su come vuole che la bestia venga accudita – poi, finalmente, gli chiede l'unica cosa importante.
Il ragazzo ‎indica un punto dietro la casa, dove i cespugli di caprifoglio crescono alti, spandendo un odore pungente che lo stordisce.
Lei è lì, chinata nell'orto a raccogliere piante aromatiche in una piega dell'abito di tela ruvida e scura. Anche i capelli sono neri – una cascata d'ebano morbido che le ricade sulle spalle fino alla vita, e in ciocche scomposte sul viso abbassato; appare intenta e concentrata come una ninfa agreste tra gli arbusti scheletriti.
Massimo rimane a osservarla in silenzio per qualche istante, poi un nitrito più forte alle sue spalle le fa alzare la testa, e lei finalmente lo vede.
Si rimette in piedi e per un attimo sembra solo sorpresa, forse spaventata dai bagliori del sole sulle fibule in bronzo, ma poi lascia andare la gonna e le piante raccolte cadono a terra, planando piano nell'aria. Si porta una mano alla bocca e Massimo sente di nuovo la punta di lancia che lo punge alla gola, crudele.
Lentamente, abbassa lo sguardo e solleva una mano al petto, concedendole il riserbo e l'onore delle armi.
 
 
 
 
 
 
L'interno è fresco e in penombra, colmo degli odori intensi dell'aglio e del pane appena sfornato. È seduto a un tavolo antico, scheggiato dal tempo, una coppa d'acqua fresca tra le mani; è rimasto da solo per un po', giusto il via vai di un paio di servi e della ragazza che gli ha portato da bere – poi la sua unica compagnia è stata il muggito dei buoi e il frinire assordante delle cicale fuori dalle finestre.
Quando Clelia riappare nel vano d'ingresso e lo raggiunge al tavolo, gli sembra che siano trascorsi solo pochi attimi. Si è cambiata: ha tolto la veste da lavoro e ha indossato una semplice tunica di lino, bordata d'azzurro. Ha legato i capelli, ma alcune ciocche ribelli sfuggono al fermaglio, scivolando sulla fronte liscia – e sugli occhi arrossati.
Massimo si concede di guardarla solo per pochi istanti, i segni del dolore ancora troppo freschi sul suo volto, per imporle il sopruso della sua attenzione.
Così come la casa di Tiberio gli era sconosciuta fino a oggi, così ‎lo è sua moglie, se non per le parole che lui, così tante volte, le ha dedicato davanti a un bivacco o nel buio di una branda.
E di nuovo si sente a disagio di fronte al pensiero di questa estraneità, sebbene non ne sia poi veramente stupito: la sua amicizia con Tiberio è stata forgiata nel fango e nel sangue, non nei morbidi odori della terra arata; si è rinsaldata in anni di battaglie fianco a fianco, scandita dal clangore delle spade e temprata dai venti del nord, solida come una roccia brulla e lucida di ghiaccio, priva della morbidezza delle spighe cresciute sul suolo che pure lì ha cullati entrambi, prima di consegnarli alla guerra.
Nati ispanici e figli di nessuno, in due si sono inchinati al cospetto dell'imperatore, ricevendone gli onori e rendendolo fiero con il loro valore. Hanno condiviso tutto: le paure, le speranze, i desideri – l'orgoglio. E adesso, in questa casa così nuova per lui, davanti a questa donna sconosciuta – ma della quale sa così tanto – è strano ritrovarsi da solo.
Uno strazio segreto l’ha accompagnato come un’ombra nei lunghi giorni in cui non ha fatto altro che cavalcare e ricordare, cercando parole impossibili.
Rialza lo sguardo e non è sorpreso di vedere Clelia che lo fissa. Ha le palpebre gonfie ma gli occhi sono asciutti, scuri come il resto di lei.
Massimo sfila la daga dalla cintura e la poggia sul tavolo, in mezzo a loro. Clelia la guarda un istante, poi torna a osservarlo.
"Com'è successo?" La voce ferma deve esserle costata uno sforzo di cui non dà parvenza.
"‎Durante un assalto, a Vindobona," risponde Massimo. Fa una pausa, incerto se continuare. "È stato un colpo netto. Ero accanto a lui quando la spada l'ha raggiunto." Si ferma ancora, in bilico sulle parole; poi: "Non ha sofferto, questo posso assicurartelo."
Lei sospira, poi si porta una mano alla fronte. Per un attimo gli sembra d'aver percepito un singhiozzo, ma quando Clelia riabbassa la mano, gli occhi sono ancora asciutti. Fa scivolare le dita sul tavolo e avvicina la daga, sfilandola dal fodero con delicatezza. Sfiora la sagoma del cavallo, sul manico, e poi la solleva, portandola davanti al viso.
"Questo è ‎Fulvio?" domanda, gli occhi che seguono i contorni dell'intaglio. "Lo riconosco dalla mezzaluna sulla fronte."
Massimo annuisce. "L'ha seguito nei Campi Elisi. Non avrebbe mai permesso che Tiberio cavalcasse da solo."
Clelia sorride, sfiorando di nuovo l'arma prima di riappoggiarla sul tavolo.
"Tiberio mi ha molto parlato di te, Tribuno Meridio. Ti sono grata per essere stato tu a portarmi questa notizia." Si morde le labbra, scavando un avvallamento nella carne tenera. "Non avrebbe voluto diversamente."
E Massimo vorrebbe rispondere che non avrebbe voluto niente di diverso neanche lui –  se non forse poter varcare quella soglia con Tiberio al fianco, a riconsegnarlo sano e integro alle braccia di sua moglie –  ma sono parole oziose di un uomo stolto, e le ricaccia in gola, offrendole soltanto un sorriso stanco.
Si concede finalmente di guardare il suo volto, e si stupisce di come appaia giovane, nonostante la pelle brunita dal sole e le piccole rughe leggere ai lati degli occhi; sapeva quanto Tiberio si crucciasse di non averle potuto dare dei figli, troppo spesso lontano, fin troppo soldato per poter fare il marito – e di come avesse deciso di anticipare la fine dell’Honesta Missio[6] per poter tornare a casa, e prendere il posto che gli spettava accanto a questa donna.
Ormai non potrà più farlo, e rimarranno solo i figli dei sogni a seccare e sfumare sotto la luce impietosa del sole d'Hispania.
‎Clelia lo sta ancora fissando e Massimo sorride di nuovo, ricambiando lo sguardo di quegli occhi così intensi. "È stato un grande amico, e un soldato valoroso," dice finalmente, stupendosi della naturalezza nella propria voce, "ha dedicato la sua vita alle legioni, ma ciò che desiderava era solo tornare al più presto da te. Sono certo che avrebbe voluto che lo sapessi."
Stavolta gli occhi di Clelia brillano di lacrime, è sicuro di non sbagliarsi; abbassa lo sguardo mentre lei si ‎volta in un gesto di pudore, gli unici suoni il fruscio della tunica e un singhiozzo sfuggito alla gola.
Rimangono in silenzio per un po', senza guardarsi, poi Massimo si alza, risoluto a offrirle il rispetto del suo lutto privato.
"‎Qualunque cosa io possa fare per te, non esitare a chiederla," dice, già voltato verso la porta.
Clelia solleva il viso e i loro sguardi si incrociano di nuovo. "Ti rivedrò ancora, Tribuno Meridio?" Poi, dopo un attimo: "… Massimo?"
È solo un sussurro. Ha la leggerezza del vento che abbraccia le spighe. E, per un attimo, sembra lenire anche il suo cuore.
"Se è quello che desideri‎."
Anche Clelia si alza e per un attimo gli sfiora la mano. La pelle è morbida contro la sua, indurita dai calli e dalla spada. Annuisce piano e poi gli volta le spalle, lasciando la stanza.
Massimo rimane a guardare l'arco di pietra da cui è uscita, le ombre fresche che danzano sul muro, sfiorate appena dalla luce che filtra dalle finestre.
Poi, a passo sicuro, si dirige alla porta, uscendo nel sole.
 
 
 
 
 
 
Note:
 
[1] Nome antico dell’odierna Siviglia.
 
[2] L’odierna Andalusia.
 
[3] Prezioso fodero per la daga.
 
[4] Il tribuno augusticlavio era un alto grado di ufficiale nelle legioni romane. A differenza del tribuno laticlavio (di estrazione senatoria), gli augusticlavi venivano dai ranghi equestri.
 
[5] L’antico nome di Vienna.
 
[6] Il congedo dal servizio militare, a seguito del quale veniva rilasciato un diploma e una rendita in denaro.
  
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