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Autore: Curleyswife3    20/12/2015    2 recensioni
Dieci anni prima degli avvenimenti raccontati nell'anime, Natale: dov'erano Marin, Jamie, Aphrodia e tutti gli altri? Cosa facevano?
Un esperimento di fanfiction de-aged, un pot-pourri natalizio di missing moments, un regalino per tutti gli appassionati di questo struggente cartone animato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: questi personaggi non appartengono a me, bensì ad Akiyoshi Sakai e alla Ashi Productions co. ltd.; questa storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro, ma solo per il mio (e il vostro, spero) piacere.
 
 
 
“Complimenti!” il presidente Albright gli strinse calorosamente la mano.
“Adesso ” aggiunse il vicepresidente Morgan, con un sorriso appena accennato “è diventato il comandante più giovane della storia dell’esercito dell’Unione…”.
Jonathan Bannister, in imbarazzo, sollevò per un istante gli occhi dal pavimento.
“Andiamo!” la voce del tenente Harman era sottile come una lama “Non mi dica che non è contento: è un grandissimo onore!”.
Il militare annuì piano.
Si era immaginato di fare un articolato discorso, ma riuscì solo a emettere un semplice “Grazie”.
Non era abituato alle lodi e l’atteggiamento di quegli alti papaveri dell’Unione Mondiale, sempre così formalmente perfetti mentre sotto sotto si pugnalavano alle spalle a vicenda, non gli piaceva per niente.
Però - doveva ammetterlo - c’era una parte di lui che si sentiva lusingata per quella inaspettata promozione.
Finalmente sorrise e parve rilassarsi un po’.
Di sicuro anche per Meg sarebbe stato un meraviglioso regalo di Natale!
Albright gli si avvicinò.
“Comandante Bannister” disse, mentre il giovane ufficiale beveva il suono di quella parola accanto al suo nome “l’Unione ha deciso di affidarle una missione della massima importanza…”.
Il neonominato sgranò gli occhi, trattenendo il fiato.
“Lei guiderà un corpo di eccellenza destinato a essere la prima linea di difesa della Terra in caso di attacchi: si chiameranno Blue Fixer”.
Bannister serrò le mascelle.
Un compito difficile, ma assolutamente esaltante.
“Inoltre” intervenne Morgan “supervisionerà i lavori di realizzazione della nuova base segreta dove queste unità speciali avranno la loro sede”.
“Inutile dire” aggiunse dopo un istante, guardandolo negli occhi “che si tratta di operazioni riservatissime…”.
Bannister strinse i pugni.
“Immagino lei abbia capito a cosa mi riferisco” concluse, nel suo solito tono imperturbabile.
Il comandante deglutì silenziosamente: certo che aveva compreso. Gli avevano appena ordinato di lasciare la base per trasferirsi in una località segreta dove sarebbe rimasto, senza avere contatti con la sua famiglia, per un tempo imprevedibilmente lungo.
Come avrebbe reagito Meg? In fondo erano sposati da così poco…
“Spero che questo non sia un problema, per lei” esclamò il presidente Albright.
L’altro esitò una frazione di secondo prima di rispondere.
Poi scosse la testa.
“No, signore” rispose con voce ferma.
“Ne sono contento” replicò l’altro “Anche perché la partenza è prevista per domattina”.
 
***

Bannister esitò un istante prima di attivare il comando vocale che gli avrebbe spalancato la porta del suo alloggio; in verità - non riuscì a impedirsi di pensare - quando lui e Margaret si erano sposati lei si era semplicemente trasferita lì, presso la sede principale delle forze armate dell’Unione Mondiale.
Tuttavia, il loro progetto era di comprare una casa, una casa vera.
In Giappone, magari vicino ai genitori di lei, avevano anche discusso qualche volta di come sarebbe stata…
Progetti, speranze.
Tutto svanito, polverizzato, cancellato all’improvviso.
Guardò fuori dall’ampia vetrata sul corridoio: nebbia e freddo, un gelo acuto, pungente, penetrante.
Ma in fondo era bello, doveva essere così a Natale. Il primo Natale da sposati… di sicuro non avrebbe mai immaginato di trascorrerlo a rimuginare su come dire a sua moglie che l’indomani se ne sarebbe andato via per chissà quanti mesi.
Gli sfuggì un sospiro.
Attese ancora un istante e poi aprì la porta.   
Margaret - Meg come la chiamavano i suoi amici - era intenta a tirare fuori la spesa da due ampi sacchetti di carta, traboccanti di ogni ben di Dio.
L’ufficiale si guardò intorno e istintivamente sorrise: sua moglie non aveva mai fatto mistero di adorare le decorazioni natalizie e quell’anno si era decisamente superata!
La punta di un maestoso abete, troppo grande per il piccolo alloggio del militare, sfiorava il soffitto mentre i rami laterali si piegavano contro le nude pareti tinteggiate di bianco.
Il suo profumo inconfondibile riempiva tutta la stanza, ancora più delle luci intermittenti che accendevano di scintille colorate i festoni e le palline lucenti.
La giovane donna gli si avvicinò con dipinta sul viso un’espressione indecifrabile, gli tese una mano e gli sorrise.
“Tutto bene, tesoro?” domandò, scorgendo l’espressione cupa del marito.
Lui annuì debolmente.
“Sì, non preoccuparti” rispose. La sua voce suonò strana, quasi stonata.
“Meg, devo dirti una cosa…” aggiunse.
“Anch’io!” esclamò lei all’improvviso e, prima che lui potesse dire altro, lo trascinò verso il tavolo dove aveva appoggiato la borsa; ne tirò fuori una specie di foto confusa in bianco e nero e gliela mostrò con aria trionfante.
Allo stesso tempo, guardandolo esattamente negli occhi, disse: “Ascolta, so che siamo sposati da pochi mesi, che il tuo lavoro è molto impegnativo e che forse non è il momento più adatto, ma…” esitò un istante, travolta dall’emozione.
“Sono incinta! Questa è l’ecografia!”.
Lo gridò e gli gettò le braccia al collo.
Il comandante ricambiò il suo abbraccio e anzi la strinse più forte aggrappandosi disperatamente a lei come se, facendolo, potesse sperare di non perderla; gli occhi colmi di lacrime di felicità e di dolore, nel cuore gioia e tristezza egualmente mischiate come non avrebbe mai creduto possibile.
“Ti amo, ti amo tanto” mormorò.
Sorrise, mentre il suo cuore segretamente si consumava.
Margaret notò quel turbamento e un po’ se ne sorprese; anzi, le parve meraviglioso che un uomo come lui si commuovesse tanto per una notizia del genere.
“Sono così felice!” gli bisbigliò all’orecchio.
“Amore…” gli disse poi, carezzandogli dolcemente il volto “Tu invece cosa dovevi dirmi?”.
Per tutta risposta lui la strinse ancora di più, le baciò piano le labbra e rispose: “Non preoccuparti, ne parliamo dopo cena”.
Mentre la teneva stretta, il suo sguardo si posò sulla finestra: proprio sopra di loro, tra le nubi color inchiostro, balenava ora un piccolo foro turchino, immensamente profondo.
Lo fissò e all’improvviso si accorse - e fu per lui come se ciò avvenisse per la prima volta -  dell’incredibile altezza del cielo.
“Non preoccuparti” ripeté.
“Non era niente d’importante”.
Oltre la neve, oltre il gelo e l’oscurità l’occhio pallido della Luna s’apriva in un sorriso.
 
 
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Il ragazzino era disteso sul futon, coperto dal piumone, e fingeva di dormire mentre in realtà era roso dalla curiosità di sapere in anticipo cosa gli avrebbe portato Babbo Natale in regalo quell’anno.
Aveva davvero letto la sua lettera? Avrebbe esaudito il suo desiderio? A dire il vero,  a scuola non era mai stato il primo della classe e spesso, per essere accettato dai compagni più grandi, aveva pure combinato qualche guaio, sebbene dentro di sé sapesse perfettamente che stava sbagliando; ma il desiderio di fare parte del gruppo era più forte del suo buon senso.
A un tratto il piccolo si alzò, nonostante il freddo pungente della notte, e iniziò scendere le scale più silenziosamente possibile. Si fermò nell’udire un rumore dabbasso, in salotto, e sbirciò col cuore che batteva all’impazzata: allora, quei passi che aveva sentito… stava per incontrare Babbo Natale!
La sorpresa e la delusione segnarono i suoi tratti infantili quando si accorse che a posare sotto l’albero una grossa scatola avvolta nella carta rossa e dorata non era il famoso vecchio con la barba bianca, ma soltanto… sua madre.
Il piccolo fece una smorfia e, in silenzio, se ne tornò in camera sua.
Però la mattina seguente… oh, la mattina seguente!
Raita Hokuto venne svegliato dalla luce del sole che entrava dalla finestra.
Aprì le imposte e respirò: niente nebbia, niente bruma, un freddo cristallino, luminoso, gioviale, stimolante, un freddo che chiamava il sangue a danzare nelle vene.
Dorata la luce del sole, cielo divino, aria fresca e pura, allegro scampanare dalle chiese della città. Oh splendido! Splendido!
Se dentro al suo cuore non avesse saputo che era tutto artificiale - solo una perfetta ricostruzione di una finta città creata a Little Japan a immagine e somiglianza di quelle terrestri - avrebbe veramente potuto credere che fosse reale.
 
***
Raita si precipitò per le scale rischiando almeno due volte di rompersi l’osso del collo; diede un bacetto frettoloso al papà che, allungandosi più che poteva sulle gambe malferme, tentava di arrivare alla cima dell’albero di Natale stracarico di lucine, festoni e palline colorate per sistemare il puntale a forma di stella cometa che anche quell’anno non voleva saperne di restare al suo posto.
Sfrecciò accanto alla tavola dove, per l’occasione, era stata stesa una tovaglia ricamata con stelle di Natale verdi e rosse.
La signora Hokuto fece il suo trionfale ingresso portando un vassoio sul quale troneggiava un fenomeno pennuto al cui confronto un cigno nero sarebbe stato una visione ordinaria: un’oca ripiena di salvia e cipolle, con salsa alle mele e patate schiacciate.
Il bimbo le lanciò un’occhiata famelica, ma poi si diresse verso l’abete e s’avventò sul pacco più grande.
Lacerò la carta variopinta come se da quello dipendesse la sua stessa vita: sorrise, sorrise di nuovo, e ancora.
Perché dentro c’era proprio il regalo che tanto aveva desiderato.
 
***

Jamie Oshino, il visetto rotondo posato sulle manine grassottelle, guardava con curiosità le ombre di passanti che andavano avanti e indietro e le auto che si contendevano il passaggio; faceva freddissimo e la gente, carica degli ultimi pacchetti confezionati in fretta e furia, si affrettava a tornare a casa, al caldo.
La bimba sospirò.
Come tutti gli anni, aveva scritto la sua letterina indirizzata a Babbo Natale; e come tutti gli anni gli aveva chiesto qualche sciocco oggetto luccicante che le sue amichette già possedevano. L’aveva fatto perché tutte lo facevano e perché lei era una brava bambina che non voleva far preoccupare la sua mamma, ma in cuor suo sapeva che non era quello ciò che desiderava davvero.
La verità era che le mancava suo padre.
Non l’aveva mai conosciuto e l’unico regalo che davvero avrebbe voluto era poterlo guardare in faccia, poterlo abbracciare, sentire la sua voce. Una volta, solo una volta.
Ogni anno, ogni Natale, esprimeva lo stesso desiderio e anche se non ne aveva mai parlato con sua madre - si era abituata fin da piccola a rispettare il suo dolore nascosto - sapeva, per qualche strana ragione dentro di sé sapeva, che prima o poi il suo desiderio si sarebbe avverato.
In fondo, la mamma non diceva sempre che quella era la notte più magica dell’anno, quella in cui tutto può accadere nel mondo perché il suo potente creatore è egli stesso un fanciullino?
 
***

Luisa Oshino diede un’ultima, leggerissima, pennellata. Poi si rialzò e fece due passi indietro, piegando la testa di lato e socchiudendo gli occhi per ammirare il risultato: perfetto, davanti a lei la natività di Caravaggio ardeva di nuovo con tutti i suoi meravigliosi chiaroscuri e i suoi lampi emozionanti di colore.
Sorrise in silenzio e infilò il pennellino nel barattolo con l’acquaragia.
“Mamma…”
Era così concentrata che la vocina di Jamie quasi la spaventò.
La bambina si avvicinò al quadro, contemplandolo senza fiato.
“…è bellissimo!” esclamò.
La giovane donna le si avvicinò, si piegò sulle ginocchia e la abbracciò forte: era Natale, il giorno dell’anno in cui tutti amano stare con la famiglia, il giorno in cui chi una vera famiglia non ce l’ha soffre e si sente diverso.
In quella piccola casetta erano solo lei e la piccolina… lui, il suo principe, l’unico uomo che avesse mai amato in tutta la vita era lontano mille miglia, rinchiuso nel suo magnifico palazzo come in una prigione dorata.
Chissà se in quel momento anche Bard stava pensando ai giorni meravigliosi che avevano vissuto a Roma, quando il mondo sorrideva loro e tutto sembrava possibile? O invece si era dimenticato di lei? No, anche se aveva fatto di tutto perché ciò avvenisse, non poteva crederlo. Non poteva.
Ricacciò indietro il groppo che le serrava la gola e si sollevò. Prese per mano la bimbetta.
“Allora, Jamie” disse dolcemente “che ne dici di aiutarmi a preparare il Christmas pudding?”.
“Dici davvero? E posso metterci pure il cioccolato?” domandò lei, entusiasta.
“Mmmmm… credo che non ci sia nella ricetta originale” replicò Luisa sorridendo “però secondo me ci starebbe proprio bene!”. 
“Evviva!” trillò Jamie, correndo verso la cucina.
Risero entrambe, sonoramente: non c’era nulla di straordinario in tutto questo, non era una famiglia particolarmente ricca o influente, la loro era una casa del tutto normale, ma erano felici e riconoscenti per il presente e si amavano.
E lo Spirito del Natale, che in silenzio le osservava da dietro i vetri, sorridendo levò una mano e fece scendere su di loro una pioggia di luce dalla torcia spendente a forma di cornucopia che teneva in mano.
“Piccola Jamie, sì che il tuo desiderio si avvererà!” mormorò, mentre pian piano svaniva nell’aria tersa.
Madre e figlia, senza sapere perché, sorrisero entrambe. Nel medesimo istante.
 
***
 
Era Quinstein guardò fuori dalla finestra e sorrise: non andare all’università dove insegnava era un evento raro per lei. I giorni in cui rimaneva a casa si contavano sulle dita di una mano.
Però quello era un giorno speciale, la vigilia di Natale.
Fuori c’era un tempo freddo, tetro, pungente e per di più nebbioso; era come se si potesse sentire la gente che in strada andava sbuffando su e giù, battendo le braccia sul petto e i piedi sull’asfalto della via nel tentativo di scaldarsi.
Gli orologi della città avevano appena battuto le tre, ma era già abbastanza buio (per tutto il giorno il sole non si era fatto vedere) e le luci negli uffici vicini affioravano tremule, simili a macchie rossastre nella palpabile aria scura.
Rabbrividì, rannicchiata sul divano.
La nebbia s’intrufolava da ogni fessura e fuori era tanto densa che, nonostante il palazzo di fronte fosse a poche decine di metri di distanza, le sue finestre illuminate non erano più che dei fantasmi.
Quando sentì aprirsi la porta del piccolo appartamento, però, il suo cuore iniziò a battere più forte e il freddo si dissolse come per magia.
 
***

Neld avanzò nella penombra, cercando di non inciampare nei libri sparsi dappertutto disordinatamente, persino impilati uno sull’altro sul pavimento; la sua fidanzata aveva un vestito rosso e si era drappeggiata intorno al collo, come fosse un’originale sciarpa, un festone natalizio rosso e argento.
“Avanti! Sono troppo curiosa, mostrami il tuo regalo” gli disse implorante, cercando di agguantare il pacco che lui teneva dietro la schiena.
Lui fece segno di no con il dito.
“Non si può: i regali si aprono la mattina del 25…”.
“Uffa! Ma devi sempre fare il professore severo anche con me?” chiese lei, divertita, continuando a tentare di infilargli le mani dietro la schiena.
Fu una lotta breve, ma molto piacevole per entrambi i contendenti.
“E va bene…” si arrese alla fine il giovane scienziato, mostrando alla ragazza ciò che teneva nascosto dietro la schiena.
A lei ridevano gli occhi, ma fece una smorfia di delusione quando si vide mettere davanti un enorme pacco sontuosamente incartato; era evidente che si aspettava un pacchetto ben più piccolo e significativo…
“Voglio sperare che non sia un altro microscopio di precisione” fece, gelida, mentre lacerava la carta dorata “Sai che qualunque altra donna ti avrebbe lasciato dopo uno scherzetto come quello dell’anno scorso”.
“Avanti, aprilo!” disse lui, incrociando le braccia con aria divertita.
Senza nutrire grandi speranze, Era Quinstein tirò fuori una scatola di cartone, la aprì e dentro trovò…un’altra scatola, un po’ più piccola della prima, pure infiocchettata e bene incartata.
“Se non fossi innamorata di te penserei che sei completamente pazzo” esclamò.
Senza riuscire a smettere di ridacchiare per l’emozione e la felicità, dato che ormai stava cominciando a capire quale trattamento le avesse riservato il suo sadico fidanzato, le toccò scartare e aprire almeno altre cinque scatole da regalo, sempre più piccole, accuratamente sistemate l’una dentro all’altra.
Prima di tirare fuori un pacchettino che aveva esattamente le dimensioni giuste: riconobbe all’istante la sofisticata carta da regalo turchese ornata di un nastro bianco latte.
Tiffany.
Con il cuore che le batteva all’impazzata, fece a pezzi la carta e aprì l’astuccio foderato di raso, al cui interno splendeva un meraviglioso anello di diamanti.
Era guardò l’uomo che aveva davanti giusto per una frazione di secondo prima di gettargli le braccia al collo e baciarlo con passione.
Fuori, silenziosa, aveva iniziato a cadere la prima neve dell’anno.
 
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La nebbia e l’oscurità si erano talmente infittite che per strada, nonostante le luci dei lampioni, a stento si vedeva davanti a sé; il campanile di una chiesa vicina divenne invisibile e suonò le ore e i quarti nelle nuvole, facendole seguire da tremule vibrazioni, come se lassù il gelo gli facesse battere i denti.
Un idrante danneggiato era stato abbandonato in solitudine e il getto d’acqua che ne sgorgava si era astiosamente indurito, trasformandosi in un misantropo pezzo di ghiaccio. Lo splendore dei negozi, dove rami e bacche di agrifoglio scricchiolavano sotto il calore delle lampade delle vetrine, arrossava le facce di chi vi passava davanti.
Oliver Jack rabbrividì nella sua giacca troppo leggera per quel clima e si alitò sulle mani; la neve penetrava negli stivaletti consumati, i pantaloni erano pieni di buchi che lasciavano passare l’aria gelida. E, come se non bastasse, non mangiava dalla sera prima.
Era Natale. Sì.
Ma cosa significava Natale per uno come lui?
Era un giorno come gli altri, anzi no, era un giorno peggiore: un giorno in cui le famiglie stanno insieme, un momento di amore e armonia…il momento più triste dell’anno per chi, come lui, non possedeva né l’uno né l’altra.
Sua madre a stento la ricordava, e forse era meglio così.
Suo padre era chissà dove a ubriacarsi e la cosa migliore che lui poteva augurarsi era che non tornasse prima dell’indomani a casa e che non fosse troppo desideroso di usarlo come punching ball.
Il ragazzino mormorò un’imprecazione e si strinse nelle spalle: doveva cercare di rimediare qualcosa da mangiare per lui e per Emily.    
Gli si fece incontro un uomo vestito con eleganza, carico di pacchetti.
Il piccolo gli si fermò davanti e cominciò a cantare, con voce tremante
 
“We wish you a merry Christmas/ we wish you a merry Christmas/ we wish you a merry Christmas and Happy New Year!”.
 
L’uomo fece un gesto di stizza e gli lanciò un’occhiata talmente torva che il bambino si allontanò, temendo volesse picchiarlo.
 
***

A questo punto si stava facendo buio e nevicava ancora più forte. Da quante ore Oliver stava girovagando, lo stomaco a pezzi e i piedi ghiacciati?
Mentre camminava nella neve non poteva che fissare la luce che splendeva nelle cucine, nei salotti e in ogni camera: era qualcosa di meraviglioso.
Qui il guizzare delle fiamme mostrava i preparativi di una cena intima, oltre pesanti tendaggi rossi pronti per essere tirati a chiudere fuori freddo e oscurità; là tutti i bambini della casa correvano fuori nella neve per incontrare le sorelle sposate, i fratelli, i cugini, gli zii, le zie, ed essere i primi a salutarli.
Qui, ancora, sulle tende alle finestre si proiettavano le ombre di ospiti riuniti; là un gruppo di affascinanti fanciulle, tutte incappucciate e con gli stivali foderati di pelliccia, immerse in chiacchiere, si dirigevano saltellando verso la casa di qualche amico.    
Si fermò davanti alla vetrina di un grande negozio di alimentari, splendente da ogni parte di bacche luccicanti.
Le foglie fresche dell’agrifoglio, dell’edera e del vischio riflettevano la luce come se tanti piccoli specchi fossero stati sparsi tutt’intorno; ammucchiati sul pavimento a formare una specie di trono c’erano tacchini, oche cacciagione, pollame, cosciotti, grandi pezzi di carne, maialini da latte, lunghe file di salsicce, pasticci di carne tritata, dolci, barilotti di ostriche, caldarroste roventi, mele rosse, arance succose, pere succulente, immense torte dell’Epifania e fumanti tazze di punch che annebbiavano la stanza con i loro deliziosi vapori.
Senza rendersene conto, appoggiò la faccia contro la vetrata gelida.
“Ehi, ragazzino, levati di lì!” la voce dell’omone col grembiule richiamò Oliver alla realtà.
Uscì sulla soglia, agitando le braccia contro di lui.
“Vattene, mi fai scappare tutti i clienti!” ringhiò.
Oliver fece un passo indietro e cadde a sedere nella neve gelata.
D’un tratto agrifoglio, vischio, bacche rosse, edera, tacchini, oche, cacciagione, pollame, cosciotti, carne, maiali, salsicce, ostriche, pasticci di carne, dolci, frutta e punch…tutto scomparve all’istante.
Il ragazzino tirò su col naso e si rialzò, tremando.
Levò il pugno, gridò un insulto e corse via nella neve alta, scivolando e incespicando.
 
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Oliver si affacciò alla finestra e guardò verso il basso, rabbrividendo quando l’aria fredda lo colpì in viso.
Al sordo brontolio del suo stomaco vuoto si era ormai quasi abituato.
Le facciate delle case e ancor più le finestre parevano nere al confronto con il soffice mano di neve candida che copriva i tetti e con quella più sporca per terra; nell’ultimo strato le ruote delle auto avevano tracciato solchi profondi, che si incrociavano e re-incrociavano centinaia di volte alle diramazioni delle strade principali, creando un intrico di canaletti difficile da seguire nella densa mota giallastra e nell’acqua gelata.
Il cielo era cupo e le strade più strette soffocate da una nebbia satura di smog, metà ghiacciata e metà acquosa: non c’era niente di particolarmente felice nella città o nel clima, eppure aleggiava un’atmosfera di tale letizia che il più limpido cielo estivo e la più splendida notte d’estate avrebbero invano cercato di eguagliare.
Infatti, la gente che stava spalando la neve dai tetti era festosa e affabile, si chiamava dai parapetti e tirava di tanto in tanto una scherzosa palla di neve - missile più benevolo di tanti lazzi verbali - ridendo di gusto se colpiva il bersaglio e non meno di gusto se non lo colpiva. I negozi erano ancora per metà aperti e splendevano gloriosamente; i clienti erano così di fretta e trepidanti nell’attesa fiduciosa della festa, che inciampavano l’uno nell’altro, urtandosi fragorosamente con i loro pacchetti, dimenticandosi gli acquisti sul bancone, ritornando poi indietro di corsa per recuperarli e facendo cento altri errori del genere, ma sempre mantenendo il migliore umore possibile.
Ma presto le campane chiamarono a raccolta nelle chiese e nelle cappelle le persone di buona volontà, che uscirono in strada con i vestiti migliori e le espressioni più gaie.
Oliver Jack sospirò.
Un altro Natale era scivolato via, un altro giorno inutile.
Fissò Emily raggomitolata sotto il plaid, sul lercio divano sfondato; poi il suo sguardo si spostò tutt’intorno, nella fredda stanza disadorna.
Si morse le labbra, sul viso ancora infantile un’espressione dura, decisa. L’espressione di chi è cresciuto troppo e troppo in fretta.
Fissò il cielo terso, dove in alto – quanto in alto! – splendeva un timido sole invernale.
“Giuro che la mia vita cambierà” disse a mezza voce.
“Lo giuro”.
 
***
    
La voce del cappellano militare attraversa alta e ferma l’aria innaturalmente tiepida:
la data sulla lapide è chiara - 25 dicembre 2090 - ma su S1 ormai le stagioni non significano più niente.
Secoli di inquinamento hanno assottigliato così tanto l’atmosfera che quel poco che ne rimane è quasi irrespirabile e non riesce a schermare a sufficienza i raggi del sole.
Le sue parole non tradiscono alcuna emozione, non c’è nessun tremito a incrinarle: fa il suo dovere alla perfezione e tutti lo ascoltano in silenzio, seri seri, pallidi in volto.
È così che deve essere: mio padre era il Comandante in capo delle forze armate di Aldebaran.
Mio padre.
Se n’è andato troppo presto, troppo all’improvviso, portandosi via mia madre e lasciandoci soli.
Fa caldo, l’aria è soffocante e dal deserto spira una brezza sulfurea; i raggi del sole appena calante bagnano di luce dorata le croci bianche, tutte uguali.
I cipressi si stagliano neri contro il cielo che s’oscura, non ho mai visto un posto così impregnato di dolore.
Papà, mamma… possibile che voi non siate più da nessuna parte? Davvero non ci siete proprio più?
Il cielo è così cupo, le ombre così dense che a prenderne coscienza il terrore mi spezza il respiro.
Ho paura… papà, mamma, non potete più sentire neanche questo?
Mi guardo intorno: siamo tutti qui per voi, riuniti intorno a una nuda croce di marmo; Milan è accanto a me, lo sguardo assente, come impietrito da un dolore muto, senza più lacrime. 
 
***
 
Eccola lì, la mia piccola Aphrodia,  ha gli occhi gonfi e arrossati.
Non ricordo di averla mai vista - lei sempre tanto controllata - così sconvolta; Milan si stringe a lei e fatico a capire chi dei due sostenga l’altro.
È pallida come un cencio e sembra non avere nemmeno la forza di reggersi in piedi; è distrutta, eppure nonostante tutto… ecco, nonostante tutto sento che il suo spirito è forte, indomito.
Una combattente.
Una piccola combattente, già bellissima.
Chissà se l’hai capito: il tuo mondo, ciò che avevi costruito giorno dopo giorno, tutto finisce oggi insieme ai tuoi genitori.
Tutto domani ricomincerà, ma non sarà mai più lo stesso.
Perché al loro posto ci sarò io al tuo fianco: io sarò il tuo sud, il tuo nord, il tuo est, il tuo ovest. Il tuo lavoro e il tuo riposo, il tuo mezzogiorno e la tua mezzanotte. 
Perché tu sarai mia.
I nemici diranno che ho causato l’incidente per diventare sempre più potente, per prendere il posto di tuo padre: ebbene, è così. Ma non solo, l’ho fatto per il fuoco che arde nei tuoi occhi di bambina… ecco, per quello stesso fuoco che mi consuma il cuore.
Sei la mia ossessione, la mia malattia: sarai la mia preda. 
Modellerò il tuo corpo, piegherò la tua anima: un po’ ogni giorno, per ogni giorno della tua vita.
Ecco, il cappellano mi cede il suo posto di fronte alla bara e io percorro i pochi passi che mi separano dal microfono nel silenzio rotto solo da qualche singhiozzo trattenuto.
Sento l’odore della morte, contemplo l’immagine della disperazione.
Il prosciugamento.
La sete.
Ancora uno sguardo a te, mia dolce bambina: la mia faccia è scura, le mie parole gravi, ma dentro di me sorrido.
Perché oggi ho vinto.
 
***

Mamma è morta che io ero ancora molto piccolo e da allora papà, con l’aiuto di una domestica a ore, bada a me in tutto: mi ha insegnato a leggere e a scrivere, mi ha insegnato tutto quello che so.
Oggi è domenica, la cameriera non c’è e lui non è andato al laboratorio; abbiamo preparato insieme il pranzo, io ho apparecchiato e portato in tavola, lui ha cucinato e dopo mangiato io ho lavato i piatti.
Una giornata come tutte le altre, un po’ più solitaria perché senza lavoro e senza scuola.
D’un tratto penso al vecchio libro che ho preso in prestito in biblioteca: è un volumetto con la copertina tutta smangiata dall’umidità e dalla polvere. È evidente che nessuno lo apriva più da anni.
Ho cominciato a leggerlo ieri di nascosto, durante l’ultima ora di lezione… devo stare attento a non farmi scoprire o lo diranno a mio padre: sono molto severi, è la scuola migliore del paese e io sono il figlio del migliore scienziato di S1.
L’ultima cosa che vorrei fare è deluderlo.
Però quel libro…
 
***

Oggi il calendario dice che è il 24 dicembre, un giorno come tutti gli altri.
Quando sono rientrato nella nostra piccola casa, papà mi ha visto gli occhi lucidi e io non sapevo nemmeno di averli, ma lui se n’è accorto subito.
“Cosa c’è?” mi ha chiesto.
Io non lo sapevo, sentivo solo le lacrime spuntarmi dietro le ciglia, e non gli ho risposto.
“Ti ho domandato cosa c’è” ha ripetuto, più duramente “perché piangi?”.
“Non lo so” ho detto. Mi vergognavo di pensare a quelle cose sciocche, morte da secoli… cose che con la nostra vita - col nostro mondo moderno, traslucido e tecnologico - non avevano più niente a che vedere.
Ho fatto il gesto di andare nella mia stanza, ma papà mi ha preso per un braccio.
Il corridoio era buio, buio completo, ma io scorgevo il barlume di luce nei suoi occhi.
“Ti prego…dimmi cos’hai!” ha mormorato ancora una volta.
“Non lo so, papà”.
Lui ha acceso la luce e io sono scappato nella mia stanza, il libro nascosto sotto la giacca.
Mi ha raggiunto dopo poco, che mi ero già messo a letto.
“Cerca di dormire, adesso” mi ha detto sedendosi accanto a me, tra libri di fisica e quaderni strapieni di esercizi.
“È tardi, domani c’è scuola”.
Io ho annuito.
Mi ha sorriso e mi ha fatto una carezza sulla guancia.
Ha spento la luce e chiuso la porta, senza rumore.
Domani c’è scuola, oggi è un giorno come tutti gli altri.
Su S1 non esiste più il Natale: del resto, anche se esistesse a chi mai interesserebbe?
Tiro fuori il libro da sotto il materasso; la micropila scialitica che mi hanno regalato per il compleanno è molto più utile di quanto pensassi.
Sotto le coperte è chiaro come il giorno, mentre il resto della stanza è completamente al buio.
Passo le dita sulla vecchia copertina lisa, le pagine hanno un odore di polvere e di fiori secchi.
Quando lo apro, sento che anche il mio cuore si apre… si spalanca e la mia anima esce dal petto per confondersi nella luce corrusca del cielo.
Dov’ero rimasto?
Ah, ecco, sì.
“Strofa quarta. L’ultimo degli spiriti.
Il Fantasma si avvicinava lentamente, con silenziosa gravità. E, quando gli fu vicino, Scrooge cadde in ginocchio, giacché l’aria stessa attraverso la quale si muoveva questo Spirito sembrava diffondere tutt’intorno l’oscurità e il mistero.
Era avvolto in un’ampia veste nera che gli nascondeva la testa, il volto e la forma, e non lasciava vedere di lui che una mano tesa.
Se non fosse stato per questa, sarebbe stato difficile staccare la figura dall’oscurità che la circondava.
Quando gli fu accanto, Scrooge sentì che era di statura alta e imponente e che la sua presenza misteriosa lo riempiva di un solenne terrore. Altro non sapeva, giacché lo Spirito non parlò né si mosse.
“Sono alla presenza dello Spirito del Natale Futuro?” chiese Scrooge.
Lo spirito…”.
 
FINE




 
Note&credits: della moglie di Bannister non sappiamo il nome, quindi ho scelto a mio gusto; di lei e del figlio si parla qui e là (tipo in “Marin salva il Giappone”).
Raita è nato sulla Luna, nella comunità di Little Japan, ricostruita in tutto e per tutto come una cittadina terrestre (l’episodio è il n. 13, “Little Japan” appunto); la storia d’amore infelice della Quinstein con il collega Neld è descritta nella puntata “Amore nello spazio” e citata in “Operazione Era Glaciale-Terra”; Jamie è figlia di tal Luisa, che fa la restauratrice e incontra il re Bard di Lenia a Roma, poi però lui la lascia per non coinvolgerla negli intrighi di palazzo e lei tace la sua gravidanza (cfr. episodio “Incontro e addio”). La triste infanzia di Oliver e della sorella viene tratteggiata nelle puntate “Operazione Terra arida” e “Addio, cara sorella”; la morte dei genitori di Aphrodia viene raccontata nell’episodio n. 25, “Il complotto”, dove pare di capire che sia stato Gattler il responsabile del finto incidente.
L’anime comincia nell’anno 2100. La parole di Gattler (Sarò il tuo…) sono una parafrasi della poesia “Funeral Blues” di W.H. Auden, resa famosa dal film “Quattro matrimoni e un funerale”.
La lampada “scialitica” è usata in chirurgia e “genera un fascio luminoso uniforme e proveniente da più punti, in modo da minimizzare la presenza di ombre” (fonte: wikipedia).
Infine, ovviamente Marin legge la parte finale di “Canto di Natale” di Charles Dickens: non sarà il massimo dell’originalità, però è la mia favola natalizia preferita, ci ho scritto su un sacco di cose e non potevo non menzionarla qui.
Sparse qua e là potete trovarne varie citazioni.    
Perdonate lo spiegone infinito, sembro il povero narratore di Baldios in crisi depressiva… 
Grazie a chi legge e tanti, tantissimi auguri di buon Natale a tutti voi, popolo di efp!
Ma soprattutto alle mie affettuose lettrici, cui va un augurio speciale.  :)
 
   
 
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