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Autore: suni    07/03/2009    3 recensioni
Ci è stata raccontata la fine. Ora, proviamo a immaginare l’inizio.
C’è una ragazzina incantevole e spensierata, c’è un giovane uomo ambizioso con velleità rivoluzionarie. C’è un clan che ricerca il potere, c’è un villaggio che non vuole vedere, c’è l’amore che nasce come capita capita a dispetto di qualunque pianificazione. C’è la vita, che non si può progettare in nessun modo.
Perché tutto scorre, tracciando un percorso che non ci è dato prevedere.
{Fugaku/Mikoto}
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ha gli occhi grandi, nerissimi, lunghi e ed eleganti

Perché ciaraz mi fa venire idee discutibili, e ha input deprecabili da cui io mi faccio contagiare immantinente, ogni volta.

 

Panta rei

 

 

 

Ha gli occhi grandi, nerissimi, lunghi ed eleganti. Sul suo visetto etereo dall’incarnato candido spiccano come larghe gemme, scintillanti di infantile malizia. Fa ondeggiare tra le dita sottili la penna svogliatamente, osservando distrattamente il soffitto dell’aula. Una lunga ciocca corvina dondola davanti alle sue labbra e la soffia via silenziosamente, muovendo anche quelle più corte che incorniciano la sua fronte e il profilo armonioso del viso.

Quando si riscuote al richiamo del sensei che sta per assegnare i compiti vede Takao, seduto a un paio di banchi di distanza, con lo sguardo perso nella sua direzione e la bocca semiaperta, adorante. Sorride con leggero scherno, soave, e il ragazzino arrossisce distogliendo lo sguardo. Allora lei soffoca un risolino divertito, senza cattiveria, e poggia distrattamente la penna fra le labbra con fanciullesco compiacimento.

Fa appena in tempo a finire di scrivere gli esercizi che dovranno svolgere per la prossima lezione che il maestro dà alla classe il permesso di uscire, e quando alza lo sguardo dalla pagina scritta si trova puntualmente davanti Raidou.

“Posso portarti la cartella?” si propone il ragazzino, speranzoso.

“Vuoi un po’ del mio dolce di riso?” interviene Torazo, lanciando al rivale uno sguardo incendiario.

Lei si limita ad alzarsi con un generico sorriso di una dolcezza disarmante.

“Grazie,” risponde semplicemente, perché tanto non serve allontanarli: tornano sempre, lei se n’è accorta.

Perché Mikoto Uchiha è l’allieva più bella dell’accademia. E lo sa. Lo sa eccome.

Così si limita a farsi accompagnare verso l’uscita senza particolare attenzione verso nessuno dei suoi pretendenti. Questo almeno finchè sua cugina Anami non sparisce tra la folla, lasciandola senza testimoni familiari: allora Mikoto tira un gran sospiro di sollievo, rimbocca le maniche dello scamiciato e si scompiglia un po’ i capelli con un sogghigno compiaciuto.

“Grazie, Raidou, ora la cartella la porto da sola!” afferma energica, strappando via la sacca di mano al compagno di classe. Quello resta lì rassegnato, come sempre, mentre lei raggiunge saltellando con la vitalità dei suoi dieci anni un gruppo di ragazzini di un paio d’anni più piccoli che iniziano a schiamazzare e sciamano fuori, e lei in mezzo: Mikoto Uchiha, il maschiaccio.

Lo sanno tutti – tutti, tranne i genitori e i parenti stretti – e tutti ne sorridono: Mikoto Uchiha è un peperino che non ha peli sulla lingua, che ne combina una più del più discolo dei maschi dell’accademia e che sa sfoderare all’occorrenza un sorriso di una bellezza angelica e le più adorabili moine. Non si può che perdonarle qualunque cosa, impossibile non avere un debole per lei.

Balza qua e là ridendo mentre si precipita fuori dalla scuola con gli amici, beata. Nel pomeriggio andranno ad allenarsi nella foresta e forse faranno la lotta giù al lago, e lei non vede l’ora.

“Chi arriva per ultimo in fondo alla strada è una mammoletta!” esclama vivace, scattando avanti.

Hideo corre appena dietro di lei, tenendo il passo, e gli altri al seguito. Poi è come se una folata di vento li raggiungesse.

“Piiiiistaaaaaaaaaa!” squilla una voce ben nota; Mikoto intravede un lampo di giallo sfrecciarle accanto, superandola. I capelli le si infilano tra le labbra mentre strilla, indignata.

“Minato-kuuuun!”

Tira sugli ultimi metri per distanziare almeno gli altri e all’arrivo si piega sulle ginocchia ed ansima, è seconda.

“Tu non eri in gara!” esclama poi, imbronciandosi.

Il bambinetto si passa una mano sulla nuca, nella zazzera bionda, e sogghigna candido.

“Me lo dovevi dire prima, ‘Koto-chan,” ridacchia a mo’ di scusa, mentre gli altri sopraggiungono pian piano.

Lei storce un po’ il naso, indispettita, quindi sbuffa compita e gli volta il profilo risentita. Minato sporge un po’ la testa in avanti, sgranando gli occhioni azzurri come un gufo, e Mikoto sorride.

“Non fa niente, moccioso,” sentenzia altera. Minato sta al gioco, s’imbroncia e incrocia le braccia al petto con altrettanta fierezza.

“Ci mancherebbe, nonnetta,” replica sostenuto.

Gli altri ragazzini un po’ più grandi iniziano ad allontanarsi cianciando, mentre riprendono fiato. Mikoto infila una mano tra i capelli del più piccolo e glieli scompiglia, dispettosa.

“A domani, bimbo,” saluta, seguendoli.

“Ehi, non sono un bimbo!” protesta Minato, composto. “Quando sarò Hokage…” proclama serio, alzando la voce con solenne minaccia “….ti farò capo degli ANBU!” ormai quasi urla con un sorriso, per coprire la distanza.

Mikoto scoppia a ridere, salutandolo con la mano.

Raggiunge Hideo e gli altri amici riprendendo a organizzare il resto pomeriggio: ufficialmente continueranno a studiare ed allenarsi all’accademia, ma spesso bigiano per uscire a giocare. Alcuni suoi compagni vengono spesso sgridati per questo, ma Mikoto ha voti così eccellenti che nemmeno su quelli la si può riprendere – perché lei è un’Uchiha, e gli Uchiha sono i migliori: è un dato di fatto, e Mikoto non fa alto che confermarlo con compiacimento.

Hiroshi le cammina accanto, blaterando allegro.

“…Mangiare qualcosa e poi sai cosa, pensavo…ehi, ragazzi ascoltatemi tutti! Possiamo fare un torneo ad eliminazione, combattimenti individuali e…”

“…Chi perde finisce a mollo!” completa Mikoto, entusiasta.

L’amico ridacchia, si spintonano scherzosi. Di tutti i maschi della sua stessa età che conosce, Hiroshi Umino è l’unico che non sia strano con lei: non la guarda imbambolato e non balbetta in sua presenza; è il suo migliore amico. Anche Anami lo è, ma non nello stesso modo.

Quando si dirige verso casa, al termine di un lungo pomeriggio di schermaglie e risate, Mikoto Uchiha ha ben poco dell’impeccabile, perfetta ragazzina che ha lasciato il quartiere Uchiha al mattino: i vestiti sono stropicciati, bagnati e sporchi di terra, come le mani, la faccia e così i capelli. Persino la cartella sembra sgangherata, adesso.

Mikoto si ferma alla fontana poco lontana dall’ingresso del quartiere del clan, poggia la gamba piegata sul muretto studiando un graffio che le adorna il polpaccio prima di iniziare a pulirsi con il getto cristallino: lava le mani, sciacqua il viso e poi, gocciolante, inizia a smacchiare gli abiti. È scostando una ciocca di capelli umidi che intravede le due sagome avvicinarsi, riconoscendole all’istante: il più giovane, due anni più grandi di lei, è suo cugino Taro. L’altro è Fugaku.

Mikoto sussulta, arrossendo imbarazzata.

Fugaku Uchiha, quindici anni, è la punta di diamante del clan, il più promettente shinobi della nuova generazione. Mikoto lo ha visto allenarsi, qualche volta, rimanendo incantata dalla sua abilità e della sua potenza. Fugaku promette di diventare il leader del clan e assume con coscienziosa fierezza la sua posizione: di tutto lo sciame dei giovani Uchiha, è il più maturo e il più consapevole. In sua presenza, l’uragano Mikoto s’immobilizza sotto l’effetto di una soggezione assoluta, che a stento le permette di spiccicare qualche frase: diventa goffa, impacciata e silenziosa, limitandosi a rimirarlo con qualcosa di molto simile alla venerazione; quello è lo strabiliante cugino grande, Uchiha Fugaku.

Mikoto,” la saluta Taro, sorridendo bonario nel riconoscerla. “Cosa stai combinando?”

Lei si rende conto solo in quel momento: i vestiti sporchi, i capelli in disordine, la faccia ancora bagnata. Un disastro. Normalmente imbastirebbe una scusa credibile con l’ausilio del suo sorriso irresistibile, ma quando gli occhi neri di Fugaku si spostano noncuranti su di lei, mentre la testa del ragazzo si muove in un cenno di riconoscimento, Mikoto si scopre del tutto incapace non solo di parlare, ma anche semplicemente di pensare.

“Ciao… I-io…” balbetta incerta, rimanendo li ferma con le mani strette sulla stoffa del vestito.

“Non sarai andata al lago?” la punzecchia Taro, con una punta di rimprovero che gli adombra il viso.

“N-no!” si affretta a negare Mikoto, avvampando ancor di più. “I-io…” E di nuovo si blocca, impacciata.

Fugaku sposta, finalmente, un parte più sostanziosa della sua attenzione su di lei, grave. La osserva in silenzio per qualche secondo, e lei rimane solo ancor più immobile. Normalmente non la degna di particolare considerazione, è soltanto una dei ragazzini più piccoli del clan. Non è sgradevole nei suoi confronti, semplicemente indifferente, né avrebbe motivo per comportarsi diversamente: è una bambina.

“Sì, invece,” afferma poi, sicuro. “Eri al lago.”

Mikoto china immediatamente la testa, mordendosi le labbra. Il tono di Fugaku non era particolarmente aspro, ma lei si sente lo stesso come se l’avesse apertamente rimproverata. Il ragazzo scrolla appena la testa, voltando lo sguardo verso l’amico.

“Siamo in ritardo, Taro,” osserva autoritario, di nuovo abbandonandola nella sua invisibilità.

“Hai ragione,” annuisce l’altro, prima di sorriderle, “Datti una pulita, Mikoto, se non vuoi una bella sgridata,” conclude scherzoso, prima di rimettersi in marcia con un cenno di saluto.

Lei annuisce mentre Fugaku s’incammina a sua volta, già dandole quasi del tutto le spalle.

“E magari resta in accademia ad allenarti, qualche volta,” dice sbrigativo, la testa alta e lo sguardo puntato altrove, già proiettato in chissà quale impegno. “Mi hanno detto che te la cavi piuttosto bene.”

Mikoto trattiene il respiro e lo osserva intontita mentre si allontana con passo sicuro. Gli hanno detto che è brava in accademia, qualcuno gliel’ha detto, e lui se ne ricorda.

Si porta una mano al petto, proprio sotto il collo, e sorride tra sé.

 

 

Mikoto si guarda nel grande specchio a figura intera, sorpresa. Della quattordicenne pratica e un po’ brusca che è di solito rimane ben poco, oggi: niente abiti comodi, niente chiome libere e selvatiche, nessun Hideo di fianco a lei pronto a combinarne di nascosto una delle solite.

Nello specchio c’è un’adolescente fasciata in un pregiato kimono d’un lilla tenue, dal taglio semplice e fine che la avvolge con grazia. I capelli, lucidi e serici dopo il lungo impacco cui sua madre li ha sottoposti, sono raccolti in un delicato chignon da cui sfugge solo qualche ciocca che fa da petalo intorno al suo viso, lindo e curato ed ombreggiato da un leggerissimo filo di trucco.

Mikoto si guarda ancora e fatica a riconoscersi.

Lei non ha mai colto a fondo, nella quotidianità, quella bellezza naturale e stravolgente che ha sempre emanato e che l’ha continuamente messa in posizioni vantaggiose, fin da quando i suoi compagni si offrivano di farle i compiti o portare le sue cose: sapeva di piacere a tutti e di essere molto carina, ma ora lo vede. Ed è quasi sbigottita.

“Sei perfetta, tesoro. Su, andiamo o faremo tardi,” la sprona sua madre, osservandola dalla porta. Mikoto si riscuote, getta allo specchio un ultimo sguardo ed annuisce, seguendola. Oggi si festeggiano i cinquant’anni di Kaito, il capoclan: tutti gli Uchiha saranno presenti per porgere i dovuti onori. Perciò Mikoto, per una volta composta e aggraziata, segue i genitori fino al grande salone del quartier generale della polizia, sale le scale dietro di loro e non solleva nemmeno lo sguardo, pudica, quando il suo ingresso è accompagnato da mormorii ammirati, mentre in qualunque altro momento si guarderebbe intorno sorridendo con delicata sfrontatezza. È Anami a raggiungerla, perché lei osa a malapena sollevare la testa, e trascinarla verso un buffet subito dopo che lei ha salutato il festeggiato. Sua cugina le ficca in mano un calice colmo di succo al melone  e lei lo sorseggia lentamente, salutando vaga questo o quel cugino, un paio di zii e le sorelle di suo padre. Sente gli sguardi addosso diversamente dal solito.

Poi Taro le avvicina, gioviale come al solito, e la tranquilla, invariata familiarità con cui la tratta la rasserena un pochino. Riprende a sorridere, sentendosi più rilassata, si fa dare da Sanae dell’altro succo e chiacchiera.

“…Ti dico!” sta esclamando Anami in un enfatico mormorio, mentre Taro scuote la testa. “Si fidanzeranno, me l’ha detto lei!”

Lui scuote la testa, perplesso.

“Sono sicuro di no. Shinichi me l’avrebbe detto, se avesse in mente una cosa del genere,” osserva scettico.

Anami sbuffa, spazientita.

“Ma se ti dico… Mikoto, fammi un favore,” attacca, illuminandosi. “Tu che non c’entri nulla, vai a cercare Naeko e dille di venire a bere una bevanda fresca qui con noi.” Si volta verso il ragazzo, saputa. “Vedrai, te lo dirà lei stessa.”

Mikoto getta un’occhiata incerta alla sala ormai affollata, per nulla entusiasta. Non ha molta voglia di infilarsi lì in mezzo, ma se rifiutasse sembrerebbe una sciocca.

“Va bene,” cede, stringendo la presa sul bicchiere. S’incammina guardandosi quasi ininterrottamente i piedi, si fa largo tra i parenti scivolando discreta, cerca di attirare l’attenzione meno che può.

“…Mikoto?”

I suoi occhi si spalancano nel riconoscere quella voce, con un moto di dispetto. È proprio l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare infilata in quel kimono che la fa sentire così a disagio e che la fa sembrare qualcun’altra, proprio quando si è accorta di non essere più bambina, proprio adesso. Solleva lo sguardo e sorride, cercando di fare buon viso a cattivo gioco.

“Cia…o, Fugaku-san.”

Non è più una bambina, adesso, a parlargli ci riesce. Non che succeda spesso, perché Fugaku ormai, a diciannove anni, è considerato un adulto a tutti gli effetti e non ha molto a che fare con chi non è parte della créme del clan. Ma se non altro non diventa muta quando l’ha davanti e si limita a guardarlo senza quella spasmodica venerazione, con l’ammirazione un po’ malinconica e distante di chi osserva qualcosa di gradito che tanto non potrà avere.

Lui è inguainato in un kimono azzurro, sopra pantaloni neri e sobri che gli slanciano le gambe. Emana il consueto fascino un po’ brusco ma, al momento, ha gli occhi leggermente sgranati e sembra vagamente sconcertato. Sbatte un paio di volte le palpebre, quasi fosse indeciso sul da farsi, quindi si gratta educatamente una guancia.

“Sì, sei tu,” conclude, di nuovo fermo.

È il turno di Mikoto di spalancare un po’ gli occhi, sbigottita, e di storcere il naso mezza contrariata.

“Non mi avevi riconosciuta?” chiede, quasi condiscendente. Ma tu guarda a vestirsi da signora, cosa non succede.

“Non ero…del tutto certo…” Fugaku si schiarisce la voce, dandosi un contegno più formale. “Ti trovo… Rinfrescami la memoria,” suggerisce, diretto. “…Quanti anni hai, adesso? Eri più o meno alta così,” esclama austero, nel far calare la mano verso terra. Evidentemente non gli è piaciuto, rimanere lì come un babbeo.

“Quattordici,” risponde Mikoto, domandandosi se magari il suo ineccepibile cugino non abbia tracannato un paio di bicchieri di troppo.

“Oh,” fa Fugaku, annuendo compreso. Getta un’occhiata intorno, come se stesse pensando qualcosa di estremamente importante.

“Cerchi qualcuno?” chiede lei, disponibile.

Fugaku torna a guardarla con lieve esitazione, sbuffa un po’ cupo.

“Per essere del tutto schietto,” brontola a voce bassa, discreto, “cercavo di uscire un attimo senza farmi notare. Non che voglia andarmene,” si affretta a precisare, sostenuto. “Soltanto…prendere aria, sai. Pensare.”

Lo dice con un tono quasi sofferto, comunque molto coscienzioso, e per la verità Mikoto non capisce. Che voler uscire da lì sia una cosa del tutto naturale le pare ovvio anche a lei, ma cosa mai ci sia da pensare, proprio oggi, le sfugge. Tuttavia annuisce con comprensione, per non spezzare quella vaghissima confidenza.

“Certo. Va’ pure,” commenta gentile.

Fugaku annuisce, serio, muove appena una gamba in avanti e poi si volta di nuovo, meditabondo.

“Tu…?” E Mikoto sporge leggermente il capo in avanti, aggrappandosi al bicchiere senza proferire verbo. “Intendo, stai facendo qualcosa, in particolare?” continua lui, più apertamente.

Lei sgrana gli occhi, incredula.

“Oh, no! No,” risponde di slancio, portando il calice alle labbra per bere un’altra generosa sorsata e nascondere il viso bianco e rosso.

Lui si limita a fare un cenno col capo verso la porta che dà sull’esterno, misurato, e Mikoto annuisce nuovamente in perfetto silenzio. Fugaku si incammina composto, senza dare nell’occhio, e lei dietro.

“Allora,” inizia lui, quasi paterno, “ti sei diplomata?”

Mikoto scoppia a ridere nel bicchiere, proprio mentre varca la soglia. Piega leggermente il capo indietro, allibita.

“Sì,” esclama, ilare. “Due anni fa, Fugaku-san.” E ridacchia, esterrefatta.

“Mh. Già,” borbotta lui, sistemando rigido il collo del kimono. “Ha un senso.”

Eri la ragazza più bella che avessi mai visto, le confesserà tra anni, ancora sulla difensiva, non capivo più niente.

Mikoto annuisce, ancora sorridendo, lo trova divertente. Anche troppo.

“E dimmi, Fugaku-san,” azzarda, seguendolo sulla piazza verso una panchina. “A cos’è che devi pensare, se posso chiederlo?” E beve un altro sorsetto, imbarazzata.

Lui sposta lo sguardo sulla via che conduce verso il resto di Konoha, indecifrabile.

“Oh, sai, questioni del clan. Mi è stato offerto…un compito delicato, di una certa importanza,” taglia corto, fiero.

“Quanto importante?” continua lei, sentendosi decisamente indiscreta. Pazienza, si dice con insolita tranquillità.

“Capitale,” risponde Fugaku, assorto e lievemente accigliato.

Mikoto soffoca un’altra risata nel bicchiere, sorpresa. Arrossisce, tossicchiando.

“Scusami,” mormora vergognosa. “Solo…quel che si dice la modestia, eh?” commenta, e ridacchia di nuovo, a scroscio e incontrollatamente.

Fugaku torna a guardarla con un sopracciglio sollevato, penetrante. La osserva immobile per qualche altro secondo, mettendola immensamente a disagio e facendole sembrare che le gambe quasi non la reggano, prima di serrare un attimo gli occhi e sporgersi verso di lei.

“Permetti?” chiede elegantemente, allungando la mano verso il suo bicchiere. Mikoto glielo lascia, perplessa, e lo guarda senza capire mentre se lo porta verso il viso e ne annusa gravemente il contenuto, quindi lo vede prende un lungo sospiro rassegnato, un po’ cupo.

“Mikoto, chi ti ha servito da bere?” chiede atono.

“Anami,” risponde prontamente lei. “E’ il secondo bicchiere,” aggiunge, diligente.

Fugaku allarga leggermente le palpebre, scostando istintivamente i capelli dal viso.

“Pieno?” continua, mostrando il calice che ormai è effettivamente quasi vuoto.

Lei scrolla distrattamente la testa.

“Sì. E’ succo al melone, non…” spiega, alzando leggermente la voce senza volere.

“No, Mikoto,” sospira Fugaku, pazientemente dolente. “Questo è liquore al melone. Decisamente alcolico.”

Mikoto spalanca gli occhi stupefatta, quasi sussultando. Lo osserva per qualche secondo, come assicurandosi che non stia scherzando, ma lui rimane fermo e serio, controllato. E Mikoto gli scoppia a ridere in faccia, di gusto. La sua risata si leva alta e cristallina, esilarata, mentre arretra lasciandosi cadere seduta sulla panchina senza smettere di ridere freneticamente, coprendosi la bocca con la mano.

“Liq…?” esala, prima che un nuovo accesso d’ilarità la colga.

Fugaku porta una mano al viso e la passa sul lato del setto nasale, rassegnato. Si guarda intorno, forse incerto sul da farsi, quindi sospira con fastidio.

“Va bene, senti, è meglio se resti qui fuori a prendere un po’ d’aria,” ipotizza, razionale. Lei annuisce con convinzione, solenne.

“Certo. Un po’ d’aria, passerà subito,” afferma decisa, continuando ad annuire all’infinito ma con innata eleganza, per sua immensa fortuna.

Lui reclina appena la testa, dubbioso.

“Su questo non ci giurerei,” commenta scettico. “Io vado a prenderti qualcosa per…”

“No!” trilla Mikoto, atterrita. “Non puoi lasciare qui da sola un ragazza ubriaca! Che razza…di Uchiha sei?” esclama veemente.

Fugaku la osserva perplesso, aggrottando un po’ la fronte.

“Vuoi dire che un altro potrebbe, ma un Uchiha no?” commenta, ironico. “Tu staresti bene al governo di Konoha, Mikoto.” E sospira, rassegnato.

“Sì, Minato-kun dice sempre che vuol farmi capo degli ANBU, quando sarà Hokage,” concorda lei, svagata.

“Minato? Namikaze?... Hokage?”

Mikoto annuisce ancora e ancora. Fugaku getta intorno un’ultima occhiata riluttante prima di sedersi accanto a lei, intrecciando le mani giunte sotto il viso.

“Perché starei bene al governo di Konoha?” chiede poi lei di getto, curiosa.

Fugaku sbuffa tra sé, noncurante.

“Ma niente. Solo sai, anche loro pensano che noi Uchiha siamo particolari. E lo penso anche io, ovviamente,” commenta, orgoglioso. “Ma non nello stesso modo.”

Il suo tono suona definitivo, l’argomento è chiuso. Mikoto ci ragiona su per qualche istante, profondamente assorta e concentrata, anche se il filo delle sue idee va un po’ a casaccio. Sospira, pensosa.

“Mi piacerebbe andare ad abitare da un’altra parte,” afferma giuliva, osservando il cielo.

“Da un’altra parte?” ripete Fugaku, che sembra – a ragione – non riuscire bene a seguirla.

“Sì, io…uff.” Mikoto s’imbroncia leggermente: i capelli le tirano su tutta la nuca, e lei si strappa via il fermaglio che li tiene raccolti, lasciandoli scivolare sulle spalle in onde nere. “Io…in un’altra zona di Konoha, forse.”

Fugaku osserva per qualche secondo, in tralice, le punte dei capelli che accarezzano le braccia di Mikoto, prima di scuotere la testa.

“Magari, un giorno,” ipotizza, criptico, facendo una lunga pausa. “Con Namikaze?” aggiunge, leggermente asciutto.

Mikoto prende di nuovo a sghignazzare, piegandosi in avanti di scatto.

“C-con Minato-kun?” balbetta, sommamente divertita. “Tu sei pazzo! Ha undici anni!”

Fugaku si stringe nelle spalle, sostenuto. Non dicono altro per diversi minuti, lui meditabondo e un po’ rabbuiato, lei intenta a contemplarlo distrattamente. Ha una bella figura longilinea, un viso deciso, mascolino e definito. Le piace.

“Fugaku-san?”

“Dimmi, Mikoto.”

“Hai dei begli occhi, sai?”

Lui trasale, impacciato, poi si acciglia leggermente.

“Sei ubriaca marcia,” commenta, duro.

“Questo cosa c’entra? Hai dei begli occhi anche quando non lo sono,” replica lei, candida.

Fugaku esita per qualche secondo, sembra non sapere cosa replicare.

“Vado a prenderti qualcosa per smaltire,” borbotta secco, alzandosi.

Mikoto annuisce placida, nemmeno smette di sorridere.

“Va bene. Ti aspetto qui,” commenta, e lui annuisce fermo. “Torna, eh.”

Fugaku si volta indietro, con un leggero sorriso.

“Torno.”

 

 

Mikoto zampetta silenziosa nel cortile di casa, cercando di non farsi vedere da nessuno. Saltella circospetta verso la porta sul retro e la socchiude, aguzzando lo sguardo per accertarsi che sua madre non sia negli imminenti paraggi. Sente la sua voce risuonare ciarliera dall’altro capo del piano terra, in cucina, e sbuffa sollevata. E’ in ritardo di circa tre ore per pranzo e Hideo l’ha appena buttata in acqua – Minato, simpaticamente, ha infierito lanciandole manate di terra: gocciola ancora come uno straccetto da strizzare.

Sua madre parla concitata, melliflua, mentre lei costeggia la cucina cercando di salire verso le scale. Forse ci sono le zie, con lei. Mikoto porta avanti un piede dopo l’altro nel silenzio assoluto, spostando lentamente il peso del corpo, quand’ecco Zarbon zampettarle incontro scodinzolando felice e poi lanciarsi al trotto verso di lei, giù per le scale.

“Nononono,” sillaba lei impotente, sventolando le mani. Inutile: il cane le balza addosso, la cartella le casca di mano, il pavimento cigola sinistro, la sua suola bagnata della sua scarpa scivola e Mikoto atterra sul pavimento con un tonfo.

“Mikoto!” trilla sua madre, e la porta della cucina si spalanca. “Mik...”

Lei è accartocciata in terra, Zarbon le sta leccando tutta la faccia e i suoi vestiti fradici hanno ormai allagato il pavimento. Sorride accattivamente alla madre, con aria mansueta ed innocente, mentre quella la guarda con esasperazione, rimprovero e un’inspiegabile vergogna. Mikoto si riscuote stupita e spinge lo sguardo oltre la porta alla ricerca di eventuali ospiti, poi spalanca appena la bocca.

Già. Ovviamente, inginocchiato davanti al tavolo con una tazza di tè tra le mani e intento a guardarla un po’ inquieto, c’è Fugaku Uchiha.

“Che diamine stai combinando?” sibila impercettibilmente sua madre spalancando minacciosa gli occhi, prima di voltarsi verso il ragazzo con un sorriso accomodante.

“Ti chiedo scusa da parte sua, Fugaku-san,” inizia cerimoniosa. “Purtroppo la mia bambina...”

“Non...fa niente,” la interrompe lui, cortese. “Buongiorno, Mikoto,” agggiunge formale.

Lei scocca alla madre un’occhiata risentita per l’appellativo infamante, scaccia il cane per poi allungargli pentita una carezza. Raddrizza le spalle, mento all’aria, mentre si strizza i capelli e marcia in cucina disinvolta, con dignità di regina. Tanto, ormai è fatta.

“Buongiorno a te, Fugaku-san,” risponde, cercando di darsi un contegno. Accenna un sorriso genuino nell’incrociare gli occhi neri del cugino, che esprimono qualcosa tra il rimprovero e il divertimento, insieme a un che di leggermente ebete che non gli si confà.

“Io vi lascio un minuto, ragazzi, devo finire di stendere,” cinguetta sua madre compiaciuta. “Forse dovresti andare a cambiarti, Mikoto,” aggiunge, ragionevole.

“Mi serviro del tè, mamma, e poi lo farò,” risponde lei pazientemente. L’altra sospira avviandosi all’esterno e Mikoto giocherella con un lembo dello scamiciato, strizzandolo appena. Fissa la superficie del tavolo, prima di scrollare la testa ed accennare un altro sorriso cortese.

“Come mai qui, Fugaku-san? Posso esserti utile?” chiede, gentilmente.

Fugaku posa la tazza controllato, scuotendo lentamente il capo.

“No. Io non ti ho vista in giro in queste due settimane e volevo essere sicuro che andasse tutto bene, dopo...” E s’interrompe, indeciso forse su quale termine utilizzare.

“...La sbronza?” suggerisce Mikoto, soave.

Fugaku dà un colpetto di tosse, annuendo, e il sorriso di Mikoto si allarga. Si è preoccupato per lei. “Benissimo, ti ringrazio,” risponde convinta, come se non fosse seduta in cucina zuppa d’acqua e con della terra in testa. Lei non lo sa, coscientemente, ma la grazia e la finezza sono sue doti innate in qualunque momento, come Fugaku sta scoprendo di volta in volta.

Lui aggrotta leggermente la fronte.

“Sicura?” chiede grave. “Hai del fango...” inizia, sfiorandosi i capelli per indicarle il punto.

Mikoto sgrana gli occhi, prima di ridacchiare sbuffando.

“Oh, è quello scemo di Minato-kun,” sospira distrattamente. Fugaku tende la fronte con un che di tediato.

“Namikaze,” constata, piatto. “E’ sempre lui che ti ha buttata a mollo?”

“Oh, no,” si affretta ad assicurare Mikoto, leggiadra. “Quello è Hideo,” spiega, comicamente martirea.

Hideo?” ripete Fugaku, atono e immobile.

“Umino. Lui è il mio migliore amico. E invece Minato-kun...” attacca, vivace. Che poi cosa può importare a Fugaku dei suoi amici non lo saprebbe, ma vorrebbe raccontargli. Vorrebbe che lui la conoscesse.

“Ma tu stai sempre con i ragazzi dell’accademia?” interviene Fugaku altero, lievemente irritato.

Mikoto fa spallucce, noncurante.

“Quando ho del tempo libero,” commenta vaga. “Perché?”

Fugaku aggrotta la fronte, infastidito.

“Sei un’Uchiha,” le fa notare, severo. “Quei tizi non...”

“Non sono tizi,” lo corregge Mikoto, vagamente petulente. “Sono miei amlci.”

Lui sbuffa, leggermente sprezzante.

“Comunque non sono come noi.”

Mikoto si acciglia, indignata. Forse non sono Uchiha, d’accordo, ma sono lo stesso brave persone.

“Tanto meglio!” sbotta stizzita, con sfida. “Invece di passare le mie giornate a fare la poliziotta in mezzo a dei poliziotti che parlano di polizia, io...”

“Forse bisognerebbe cambiare questo, anziché mischiarsi...” inizia Fugaku veemente, poii sbuffa. “Noi possiamo essere molto di più,”

“Ma che t’importa dei miei amici?” lo tronca lei, indispettita seppure non del tutto in disaccordo sul principio di fondo: anche lei è fiera di essere un’Uchiha, è un onore e un privilegio.

Fugaku serra le labbra, irato.

“Assolutamente nulla,” ringhia con fastidio. “Bene, Mikoto, vedo che stai magnificamente. Ho svolto il mio dovere,” aggiunge, duro.

“Perfettamente,” conferma lei con sfida. “Grazie della visita,” aggiunge fredda.

“Non c’è di che.”

“Bene.”

“Bene.”

Fugaku si alza, annuendo cupo. Lei lo imita bruscamente, avviandosi alla porta.

“Ti auguro una buona giornata.”

“Altrettanto.”

Lo guarda allontanarsi a passo deciso, risoluto. Sospira tra sé con rammarico, irritata, arricciando le labbra in un broncio torvo.

 

 

Fugaku Uchiha, vent’anni, è un ragazzo tutto d’un pezzo. È lo shinobi più talentuoso del clan cui appartiene, di cui è destinato a prendere le redini. È fiero, solerte, ambizioso: nelle sue mani, un giorno, verrà messo il destino della sua genia e forse dell’intera nazione del Fuoco. Fugaku Uchiha ritiene frustrante la condizione di élite messa a lato in cui pensa versi la famiglia Uchiha. Giudica che la grandezza del suo clan dovrebbe aprire di diritto, a lui e ai suoi, le porte del governo di Konoha e concedere loro un ruolo primario.

Fugaku Uchiha è una persona austera, frugale. Dedica la quasi totale interezza del proprio tempo e dei propri pensieri all’affermazione del suo clan. Non ama le frivolezze e le distrazioni, ride raramente e sempre più spesso la sua fronte è marcata da un ruga profonda che poco si adatta alla sua giovane età. Il peso che gli è stato affidato, quello di portare il clan Uchiha al suo massimo splendore, è per lui motivo di vanto ed orgoglio: non potrebbe essere uno qualunque a prendersene carica.

Fugaku Uchiha, tuttavia, è distratto da mesi.

La sua testa vaga spesso per conto proprio, del tutto in contrasto con la sua ferrea volontà, e sovente si sorprende con irritazione a rimuginare su questioni che ha sempre ritenuto di nessuna importanza; troppe volte si ritrova a guardarsi intorno cercando involontariamente una sagoma sinuosa, lunghi occhi neri e guance candide, dandosi automaticamente del deficiente. Ha sempre pensato che presto o tardi gli sarebbe toccato di dover mettere su famiglia ed ha avuto le idee chiare, fin dall’inizio, su cosa cercare nella donna cui avrebbe concesso di affiancarlo: finezza, grazia, docilità, remissione, accondiscendenza. Se le prime due qualità trovano in lei la più alta realizzazione, le altre non hanno a che vedere con sua cugina Mikoto. Forse non alza quasi mai la voce e non si atteggia platealmente a ribelle, ma di sicuro non è il tipo di ragazza che si pieghi silenziosamente ai voleri di qualcun altro. Sembra più il genere che ti prende per il naso con un sorriso soave.

Mikoto Uchiha non è, definitivamente, la ragazza giusta. Quindi è piuttosto disdicevole continuare a pensarla. Per giunta, non si parlano da mesi, il che rende ancora più contraddittorio il suo garbuglio emotivo: da un lato se ne sente sollevato, perché così forse se la leverà dalla testa, dall’altro si sente spinto verso di lei da una necessità di rappacificazione che gli risulta quasi più seccante di tutto il resto. Non è così che aveva previsto le cose.

Il problema primario di Fugaku Uchiha è il non voler prendere atto di come nulla sia schematizzabile, nella vita. Ben poco può essere calcolato in modo scientifico e quasi nulla del futuro si può stabilire razionalmente, a tavolino. Ci sono variabili che non si possono indovinare in anticipo e che dipendono dalla profonda, istintiva natura del singolo, riflettendosi sugli eventi in grande scala: si chiamano vita. E’ esattamente questa la ragione che, tra anni, lo porterà a trascurare un dettaglio fondamentale del suo piano insurrezionale per conquistare le alte sfere di Konoha: la totalità dell’amore di un fratello maggiore per il più piccolo.

Un insignificante errore statistico che costerà decine di vite, compresa la sua, e la distruzione del clan.

Ma, ovviamente, questo Fugaku non lo può nemmeno lontanamente immaginare. Si limita a dibattersi nelle sue contraddizioni, frustrato e combattuto.

La cosa, nei fatti, si traduce in un malumore e una durezza particolarmente marcati nel suo atteggiamento quotidiano; la sua stessa postura è più rigida del solito, i suoi scatti di collera e autorevolezza più veementi. Persino suo cugino Taro comincia a manifestare una certa insofferenza, lui che è il più pacato del clan.

“Perché non ti trovi una ragazza?” gli suggerisce un pomeriggio, scocciato. “Magari ti rilassi. Comunque, l’età per fidanzarti ce l’hai.”

Fugaku si fa fosco, scrutandolo astioso.

“E perché tu non ti fai i fatti tuoi?” risponde tagliente, sulla difensiva. “Comunque, l’età per non impicciarti ce l’hai, mi pare.”

Taro sospira pazientemente, scrollando la testa.

“Anami ha un gigantesca cotta per te. E c’è quella ragazza, quella biondina del cla...” aggiunge, magnanimo.

“Cosa non è chiaro in quel che ti ho appena detto?” ringhia Fugaku, la pazienza già agli sgoccioli.

Taro leva gli occhi al cielo, esasperato. Getta lo sguardo un po’ vacuo davanti a sé ed è allora che sulle sue labbra passa un’ombra di sorriso malizioso.

“Oh, guarda chi c’é,” commenta, noncurante. “La piccola Mikoto.”

Fugaku volta la testa di scatto e suo cugino è costretto a mordersi le labbra per non ridacchiare. Mikoto sta camminando accanto alla cugina Anami, parlando animatamente. Le sue mani esili, bianche, si muovono nell’aria senza perdere una naturale eleganza nei movimenti. Scrolla la testa di tanto in tanto e i capelli le danzano intorno al viso, tutto smorfiette e delicatezza.

Incantevole.

“Mikoto! Anami!” chiama Taro, prima che l’altro glielo possa impedire. Gli lancia comuque un’occhiata infuocata, mentre le due ragazzine li notano. Anami si sbraccia immediatamente, afferra il polso dell’amica e se la tira appresso nonostante una sua leggera riluttanza.

“Buongiorno,” saluta Anami allegra, sbattendo i grandi occhi scuri. Mikoto borbotta a sua volta un saluto a mezza voce, sorride all’indirizzo di Taro.

“Buongiorno a voi,” risponde Fugaku noncurante. Anami s’illumina ulteriormente, mentre Mikoto conserva intatta la sua espressione da principessina indispettita. Mentre sia lei che Fugaku si chiudono in uno spigoloso silenzio gli altri due prendono a chiacchierare svagati, commentando le novità del clan. Facezie che a Fugaku non interessano minimamente, tanto più mentre osserva Mikoto guardarsi i sandali con educato distacco, nei suoi quindici anni di sfolgorante bellezza. Rimane muto, le mani incrociate dietro la schiena e le spalle larghe, quasi in posa militare.

E poi lei lo guarda, un po’ bizzosa.

“Come va, Fugaku-san?” chiede cortesemente.

“Benissimo,” risponde istintivamente. “Tu?”

Mikoto annuisce graziosamente, in silenzio.

“…Ci andiamo?” propone in quel momento Taro, alzando la voce.

“Dove?” domanda Fugaku, ritroso.

“A vedere i ragazzi in accademia che si diplomano. È tra poco più di mezz’ora e il piccolo Obito...” spiega Anami, invogliante, guardandolo speranzosa.

“Io adesso ho da fare,” risponde lui sbrigativo, proprio mentre Mikoto replica “ho promesso a mamma che non avrei tardato troppo.”

“Come non detto,” brontola Taro, mentre Anami sospira avvilita. “Ci andiamo noi?” continua il giovane, scrollando le spalle. L’altra annuisce in conferma, si salutano pigramente e Fugaku li guarda allontanarsi, intimamente soddisfatto di avere Mikoto ancora accanto. Ma poi s’incupisce, deprecandosi.

“Bene, Mikoto, allora io...” inizia marziale.

“Immagino che non sia stato molto carino da parte mia, quella volta. Sei stato gentile a venire a informarti su come stavo,” osserva Mikoto esitante, spostando lo sguardo con imbarazzo.

Nemmeno lui è stato esattamente adorabile, all’occasione, ma non lo dice, preso alla sprovvista. Rimane fermo e assorto per qualche secondo, prima di annuire con calma.

“Suppongo che non ci siamo capiti,” concede, apatico.

“Suppongo di no,” conferma Mikoto pacata.

Tacciono per qualche secondo, poi lui socchiude le labbra – senza sapere bene cosa dire – ma Mikoto lo anticipa.

“Quello che volevo dire,” attacca sicura, con la sua bella voce musicale,” è che è carino avere anche degli amici che non c’entrano niente con noi. A volte è noioso, stare solo con il clan,” si giustifica, un po’ incerta.

Fugaku le getta un’occhiata non molto convinta. Non è quella la soluzione, non serve cercare qualcos’altro fuori: è la posizione del clan che va cambiata.

“Poliziotti che parlano di polizia...” commenta, sarcastico.

Mikoto avvampa, prima di scrollare fieramente la testa.

“Quando avrò dei figli impedirò loro di fare i poliziotti!” afferma decisa, con orgoglio. “Voglio che possano scegliere la loro posizione e diventare magari ANBU o consiglieri o quello che gli pare. E prenderò Minato-kun a testate se non darà loro le mansioni che meriteranno!”

“Min...? Oh, giusto, quando sarà Hokage,” commenta Fugaku, caustico, prima di raddrizzare la testa. “E’ esattamente quello che penso anche io. I miei figli dirigeranno questo villaggio, e i figli dei miei figli, e...”

“Una dinastia di piccoli Fugaku?” interviene Mikoto, scherzosa.

A lui sfugge un sorriso, nonostante la foga dovuta all’argomento estremamante serio. Le lancia un’occhiata obliqua, esitando, poi scaccia i capelli dalla fronte con un movimento rapido del capo.

“Stai andando a casa?” chiede, vago.

Lei annuisce in conferma, mordicchiandosi un labbro.

“Vado anche io in quella direzione,” annuncia lui, con fare estremamante impegnato.

Mikoto sorride, incamminandosi leggera. Attraversano il quartiere fianco a fianco, e Mikoto non si pavoneggia né sembra volerlo far notare, sicché la loro passeggiata non attira l’attenzione: due lontani cugini che attraversano la zona familiare. Fugaku si accorge, piacevolmente, che due passi leggiadri di Mikoto equivalgono esattamente a una sua falcata.

Si cataloga immediatamente come un imbecille, subito dopo averlo pensato.

Si schiarisce signorilmente la voce quando giungono davanti a casa di lei. Mikoto si volta con un sorriso di congedo, piegando leggermente la testa, e Fugaku istintivamente pensa che sia un peccato lasciarla andare.

“Mikoto,” inizia di slancio, prima di poterselo impedire. Lei lo guarda, forse trepidante, se non se lo sta immaginando. Il suo cervello è un po’ avariato, quest’oggi. Si fa altero, sussiegoso. “Io...avrò il pomeriggio libero, questo sabato.”

Mikoto sussulta leggermente, sbianca un po’ e si fa rosata, poi sorride con infinta dolcezza e con una punta di perfidia.

“Buon per te, Fugaku-san,” commenta, affettuosa. “Buon fine settimana,” aggiunge, voltandogli le spalle per sparire in casa.

Fugaku rimane piantato per qualche secondo davanti alla porta, gli occhi neri spalancati con aperto disappunto. Si guarda intorno inebetito e serra le labbra vagamente offeso.

“Che razza di...” sibila oltraggiato, accigliandosi. “...Testa quadra,” conclude, dopo una breve riflessione atta a reperire l’espressione che più gli aggrada.

Si volta impettito, marciando via deciso. Sulle labbra, tuttavia, ha un accenno di sorriso divertito.

 

 

“Auguri, Mikoto-chan.”

“Sedici anni, sei davvero una signorina ormai!”

“Ti sei fatta proprio graziosa, piccola.”

Lei sorride gentile, accogliendo i convenevoli dei familiari con composta riconoscenza. Stringe mani e accenna inchini qui e là, fa cenni ai membri della ristretta cerchia di parenti prossimi intenti a festeggiare il suo sedicesimo compleanno. Non si azzarda a toccare nemmeno la brocca dell’acqua, memore dell’inconveniente intercorso l’ultima volta che si è dissetata in un’occasione ufficiale. L’ubriacatura presa da lei e Anami per errore rimane indimenticabile.

Quando l’attenzione scema un po’ da lei, tira un lungo sospiro, stremata. I capelli le tirano di nuovo e le pizzica la nuca, ma si rassegna e si muove per andare a sedersi accanto a sua madre, che ciarla con la cugina Uruchi. Nell’angolo della sala Anami chiacchiera fitto con Taro. Li si vede spesso insieme, di questi tempi, e difatti lo zio Shisui, il padre di lei, lancia nella loro direzione occhiate vigili. C’è puzza di fiori d’arancio.

“Niente succo, oggi, Mikoto?”

Volta la testa di scatto con un sorriso spontaneo che le nasce dentro: Fugaku la osserva vagamente sornione, composto e con un’aria un po’ stanca. Lei ridacchia, cercando di non mostrare troppo l’entusiasmo per la sua presenza.

“No, ma sto abbondando col sushi per compensare,” risponde divertita. Fugaku annuisce con approvazione, distendendo un po’ il viso troppo teso. La percorre con uno sguardo di discreta ammirazione e si discosta per sistemarsi accanto al muro, senza palesare la minima intenzione di allontanarsi da lei. Mikoto lo imita, stringendo un po’ le mani per restare perfettamente calma.

Lui le fa qualche domanda vaga, cui lei risponde con un chiacchiericcio leggero e poco impegnato. Fugaku sembra particolarmente grave, oggi, ma man mano che lei parla la sua espressione si fa rilassata e quella brutta ruga si appiana. Lei ne è contenta.

E pensa che, in fondo, è il suo compleanno. Bisogna osare.

“Fugaku-san,” azzarda, celando un vago tremore nella voce, dopo aver finito di spiegare che il suo migliore amico si è fidanzato. “Per caso...hai di nuovo il sabato libero?”

Deglutisce ansiosamente, faticando a non chinare vergognosamente la testa. Fugaku s’irrigidisce per le sorpresa e poi aggrotta la fronte, con sussiego.

“No,” risponde fermo. “... Questa settimana è il giovedì,” aggiunge, con leggera ironia.

“Oh.” Mikoto annuisce sperando che lui la inviti da qualche parte, ma Fugaku la guarda soltanto, in silenzio.

“Beh,” farfuglia lei rabbuiandosi. “Non è che fossero fatti miei, non...”

“Stai per caso aspettandoti che ti chieda qualcosa?” chiede grave Fugaku, con malefica ingenuità.

Mikoto arrosisce, stringendo le labbra. Dispettoso, arrogante e vendicativo ragazzaccio.

“Niente affatto,” cinguetta altera, voltando la testa e facendo per andarsene.

“Forse potremmo vederci, giovedì pomeriggio?” ipotizza Fugaku, con tono vago.

Mikoto storce il naso, sdegnosa.

“Potrei aspettarti verso le due,” concede generosamente.

“Due e mezza?”

Lei sbuffa spazientita, guardandolo storto.

“Devi avere sempre l’ultima parola, vero?” osserva, tagliente.

“Tassativamente,” conferma Fugaku senza un’ombra di vergogna. “E, Mikoto... Io non sceglierei mai come fidanzata una scimmietta che fa la lotta col fango,” aggiune, più serio.

Lei resta per un paio di secondi senza fiato, scombussolata dalle implicazioni di quella frase, poi serra le labbra a testa alta un po’ risentita.

“Me lo ricorderò,” commenta altezzosa. “Cosi la potrò avvisare, quando ne troverai una.”

Fugaku accenna un sorriso, annuendo contegnoso.

“Già fatto, credo,” precisa, sfacciatamente sicuro.

 

 

“Ciao.”

“Ciao.”

Si guardano per qualche secondo circospetti, incerti. Fugaku ha un bel kimono bianco, sobrio e lindo, su pantaloni blu scuro un po’ larghi. Ha l’aria di trovarsi lì un po’ per caso e quasi controvoglia, ma i suoi occhi non la mollano un secondo.

Mikoto prende un lungo respiro, cercando di rilassarsi, e sorride.

“Dove andiamo?” chiede tranquilla, affiancandolo.

“Dove vuoi. Hai la totale libertà decisionale. Oggi,” precisa, beffardo.

“Immagino sia un evento del tutto eccezionale,” commenta Mikoto condiscendente.

“Ovviamente,” conferma lui, solenne.

Mikoto fa scorrere le dita sul mento, pensosa, quindi soride più ampiamente.

“Hai detto totale, giusto?” chiede dolcemente. “Ottimo. Andiamo, allora,” stabilisce allegra.

Fugaku aggrotta la fronte, seguendola.

“Dove?” s’informa cauto.

Il sorriso di Mikoto si fa angelico, mentre scuote piano la testa.

“Io decido, tu esegui,” esclama, pacata ma con un che di lapidario.

“Non è esattamente quello che ho detto,” borbotta lui contrariato.

Ma Mikoto continua a sorridere radiosa e questo sembra sortire il solito effetto: quallo di fargliela avere vinta. Lo pilota verso l’esterno del villaggio depistando un paio di tentativi di indagine sulla destinazione, mentre gli racconta della sua ultima ronda. Fugaku la ascolta impenetrabile, ma i suoi minimi cambiamenti d’espressione indicano la sua attenzione.

E poi sono nella radura accanto all’ansa del lago, tra le piante.

“Qui è dove vieni a inzaccherarti con...lo Yondaime?” chiede lui, ironico e non molto entusiasta.

Mikoto annuisce di slancio, poi gli punta un dito contro.

“Noi non facciamo la lotta col fango,” puntualizza, compita. “Noi facciamo normali duelli, ma chi perde paga pegno,” aggiunge, dignitosa. “Però, siccome hai dimostrato tanto interesse,” continua, guardandosi intorno con attenzione prima di zompettare verso l’acqua e chinarsi, “e io non sono la fidanzata di nessuno, al momento, posso essere una scimmietta che fa la lotta col fango. Teh!”

Si muove così rapidamente e inaspettatamente che Fugaku non ha nemmeno il tempo di iniziare a schivarsi: la palla di fanghiglia si schianta sul suo candido kimono con rumore di spugna bagnata e la sua espressione è talmente esterrefatta che Mikoto scoppia a ridere di gusto, scagliando un secondo proiettile che colpisce il suo braccio.

“Mikoto!” ruggisce lui allibito, facendo un passo rabbioso verso di lei. “Ma sei completamente paz...?”

Il terzo colpo lo centra in piena faccia. Mikoto, che non ha mirato lì espressamente, porta una mano al viso per soffocare una sghignazzata particolarmente rumorosa e poi si ritrae leggermente puntando le mani a terra, nel cogliere la smorfia furente e omicida sul viso di lui. Si aspetta una solenne sfuriata ed è già pronta al battibecco irreparabile, ma non sa della virgola di terriccio che, buffa, addobba la sua guancia nivea né del luccichio entusiasta dei propri occhi sopra il sorriso delizioso.

Percio è altrettanto impreparata quando il bersaglio di una zolla di terra è lei. Lancia uno strillo e scoppia a ridere di nuovo all’infuriare di una serrata battaglia a colpi di terriccio, sabbia bagnata, rametti, manciate di foglie e infine taijutsu. È con lo stesso sorriso aperto che per una volta è dipinto sulle labbra di Fugaku che attiva lo sharingan e passano a un duello senza nemmeno farci caso. Non ci mettono la minima aggressività e Fugaku la respinge e l’attacca con una mansuetudine quasi commovente, ma Mikoto è soddisfatta della precisione e l’efficiacia dei propri colpi, dell’espressione catturata e distesa di Fugaku che finalmente non ha più ombra di cupezza sul viso e sembra un ventenne qualunque - Mikoto sarà sempre questo, il suo ponte con la dolcezza. Lei dà il meglio di sé ed esulta interiormente quando lui è finalmente costretto a impegnarsi.

E, naturalmente, la mette a tappeto.

“Hai perso,” commenta soddisfatto. Ha delle foglie in testa e il suo kimono tende a un grigio sporco misto marrone, con qualche striatura bianchiccia, ma sembra che per una volta la cosa non gli interessi.

“Adesso mi devi buttare in acqua,” osserva lei, provocandolo. “Di solito il perdente viene anche infangato, ma noi abbiamo già dato.”

“Non ci penso nenche,” protesta Fugaku scandalizzato.

“E’ la regola,” fa lei, severa.

“Io non partecipo ai vostri tornei di spostati,” ribatte Fugaku sdegnoso.

Mikoto si acciglia, senza acredine.

“No, la nostra regola. Io decido, ricordi?” lo contraddice, suadente.

Fugaku resta imbronciato ed esita, contrariato.

“Che c’è, non ne sei in grado?” lo punzecchai lei, rialzandosi in piedi. Scorge il lampo di arroganza attraversargli lo sguardo e sorride tra sé. “Guarda che ti...” aggiunge, allungando la mano per colpirlo.

E’ un secondo: il suo polso si storce indietro senza violenza e un paio di braccia sicure la sollevano da terra, scagliandola in aria. Mikoto affonda nell’acqua con uno strillo ilare.

“Contenta?” commenta Fugaku sostenuto, quando riemerge tossicchiando.

Lei rituffa la testa sotto e si dibatte un po’, levandosi di dosso lo sporco. Quando finalmente si avvicina alla riva, per arrampicarsi fuori, lui le tende la mano per aiutarla. Mikoto la afferra di scatto, senza preavviso, tirando con tutte le sue forze. Accoglie con espressione compita il tonfo di Fugaku che finisce a mollo e la sua mezza imprecazione, prima di issarsi sulla terraferma con eleganza.

“Mikoto! Io avevo vinto!” sbraita Fugaku indignato, non appena la sua testa riesce dall’acqua.

“Ho deciso di cambiare la regola. Non ti puoi opporre,” risponde lei, con la massima tranquillità.

Lui la osserva malevolo e borbotta chissà che arrampicandosi fuori. Si rizza in piedi, scrollandosi come nemmeno Zarbon ma mantiene un’espressione fiera, inalterata.

Anche Mikoto, la vista un po’ oscurata dai capelli, ritrova la posizione verticale e resta lì, un po’ incerta, perché Fugaku la sta guardando in modo strano e sembra a stento respirare, chissà perché.

Il perché è che lei ha gli abiti fradici che penzolano giù, restandole attaccatati alle gambe, i capelli neri e lunghi che calano sulla faccia, appiccicati anch’essi, e trema leggermente. Sembra uno scricciolino sparuto e Fugaku si lascia scappare una mezza risata sottovoce. Poi le si avvicina e Mikoto resta ferma intravedendo le sue mani avvicinarsi e poi le dita, leggere, scostare di lato i capelli zuppi come lembi di una tenda, ritrovando i suoi occhi e la sua fronte. Socchiude le palpebre senza respirare quando il viso di Fugaku si accosta e le labbra si posano proprio sotto l’attaccatura dei suoi capelli, per poi scivolare giù lungo la linea del suo naso e infine trovare le sue labbra. Si lascia baciare senza quasi reagire, col cuore che sembra battere violentemente contro le tempie, prima di afferrarsi al kimono di lui e protendere in avanti la testa.

Fugaku la circonda con entrambe le braccia – è sottile, Mikoto, una meraviglia in miniatura - e lei gli affonda contro. Poi le loro labbra si allontanano, si sfiorano un’ultima volta e, infine, Mikoto annega il viso nel kimono fradicio di lui, stringendo un po’ di più i suoi fianchi. Fugaku la avvolge, prendendo un lungo respiro profondo.

“Hai finito di fare la scimmietta, signorina,” annuncia, remotamente serio.

“Vedremo…” mormora Mikoto contro il tessuto, sorridendo.

 

 

 

                                        

 

 

 

 

________________________________________

 

 

 

 

 

 

Ebbene.

Rispondo subito alla domanda che probabilmente più o meno tutti vi siete posti, di sfuggita.

Perché “Panta rei”?

Eraclito di Efeso, filosofico presocratico, sosteneva che la vita è un flusso in perenne divenire, tutto scorre come un fiume (panta rei, appunto) a risultato della continua tensione degli opposti, secondo leggi dovute a un’armonia profonda per noi oscure e inafferrabili (Eraclito la chiamò Logos). Mi rendo conto di aver dato un’interpretazione molto personale a questa teoria del Divenire, ma tanto lo faccio con tutto. Per giunta sono passati parecchi anni da quando ho studiato la filosofia delle origini, quindi la memoria fa cilecca.

 

Quello che più mi affascina del pensare la vita come un fiume che scorre è l’idea che l’uomo di fatto non ne abbia il controllo. L’imprevedibilità dell’esistenza costituisce per me la sua massima bellezza, nel bene e nel male. Ed ecco, dunque, perché Panta Rei.

 

Anche la mia interpretazione di Fugaku e Mikoto è molto soggettiva: sono sicuramente OOC, ma d’altra parte deve passare ancora parecchio tempo prima che diventino i due genitori che noi abbiamo visto solo negli ultimi giorni della loro vita. Comunque, mi scuso per tutte le mie solite incongruenze, la ricostruzione approssimativa, gli errori sul canon.

 

Spero ugualmente che la lettura non sia stata spiacevole.

 

Alla prossima.

 

 

[E GRAZIE, Maura, per la beta.]

   
 
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