Perché ciaraz mi fa venire
idee discutibili, e ha input deprecabili da cui io mi faccio contagiare
immantinente, ogni volta.
Panta rei
Ha gli occhi grandi, nerissimi, lunghi ed eleganti. Sul suo
visetto etereo dall’incarnato candido spiccano come larghe gemme,
scintillanti di infantile malizia. Fa ondeggiare tra le dita sottili la penna
svogliatamente, osservando distrattamente il soffitto dell’aula. Una
lunga ciocca corvina dondola davanti alle sue labbra e la soffia via
silenziosamente, muovendo anche quelle più corte che incorniciano la sua
fronte e il profilo armonioso del viso.
Quando si riscuote al richiamo del sensei che sta per
assegnare i compiti vede Takao, seduto a un paio di
banchi di distanza, con lo sguardo perso nella sua direzione e la bocca
semiaperta, adorante. Sorride con leggero scherno, soave, e il ragazzino
arrossisce distogliendo lo sguardo. Allora lei soffoca un risolino divertito,
senza cattiveria, e poggia distrattamente la penna fra le labbra con
fanciullesco compiacimento.
Fa appena in tempo a finire di scrivere gli esercizi che
dovranno svolgere per la prossima lezione che il maestro dà alla classe
il permesso di uscire, e quando alza lo sguardo dalla pagina scritta si trova
puntualmente davanti Raidou.
“Posso portarti la cartella?” si propone il
ragazzino, speranzoso.
“Vuoi un po’ del mio dolce di riso?”
interviene Torazo, lanciando al rivale uno sguardo
incendiario.
Lei si limita ad alzarsi con un generico sorriso di una
dolcezza disarmante.
“Grazie,” risponde semplicemente, perché
tanto non serve allontanarli: tornano sempre, lei se n’è accorta.
Perché Mikoto Uchiha è l’allieva
più bella dell’accademia. E lo sa. Lo sa eccome.
Così si limita a farsi accompagnare verso
l’uscita senza particolare attenzione verso nessuno dei suoi pretendenti.
Questo almeno finchè sua cugina Anami non sparisce tra la folla,
lasciandola senza testimoni familiari: allora Mikoto
tira un gran sospiro di sollievo, rimbocca le maniche dello scamiciato e si
scompiglia un po’ i capelli con un sogghigno compiaciuto.
“Grazie, Raidou, ora la cartella la porto da
sola!” afferma energica, strappando via la sacca di mano al compagno di
classe. Quello resta lì rassegnato, come sempre, mentre lei raggiunge
saltellando con la vitalità dei suoi dieci anni un gruppo di ragazzini
di un paio d’anni più piccoli che iniziano a schiamazzare e
sciamano fuori, e lei in mezzo: Mikoto Uchiha, il maschiaccio.
Lo sanno tutti – tutti, tranne i genitori e i parenti
stretti – e tutti ne sorridono: Mikoto Uchiha è un peperino che
non ha peli sulla lingua, che ne combina una più del più discolo
dei maschi dell’accademia e che sa sfoderare all’occorrenza un
sorriso di una bellezza angelica e le più adorabili moine. Non si
può che perdonarle qualunque cosa, impossibile non avere un debole per
lei.
Balza qua e là ridendo mentre si precipita fuori
dalla scuola con gli amici, beata. Nel pomeriggio andranno ad allenarsi nella
foresta e forse faranno la lotta giù al lago, e lei non vede
l’ora.
“Chi arriva per ultimo in fondo alla strada è
una mammoletta!” esclama vivace, scattando avanti.
Hideo corre appena dietro di lei,
tenendo il passo, e gli altri al seguito. Poi è come se una folata di
vento li raggiungesse.
“Piiiiistaaaaaaaaaa!” squilla una voce ben
nota; Mikoto intravede un lampo di giallo sfrecciarle
accanto, superandola. I capelli le si infilano tra le labbra mentre strilla,
indignata.
“Minato-kuuuun!”
Tira sugli ultimi metri per distanziare almeno gli altri e
all’arrivo si piega sulle ginocchia ed ansima, è seconda.
“Tu non eri in gara!” esclama poi,
imbronciandosi.
Il bambinetto si passa una mano sulla nuca, nella zazzera
bionda, e sogghigna candido.
“Me lo dovevi dire prima, ‘Koto-chan,”
ridacchia a mo’ di scusa, mentre gli altri sopraggiungono pian piano.
Lei storce un po’ il naso, indispettita, quindi
sbuffa compita e gli volta il profilo risentita. Minato sporge un po’ la
testa in avanti, sgranando gli occhioni azzurri come un gufo, e Mikoto sorride.
“Non fa niente, moccioso,” sentenzia altera.
Minato sta al gioco, s’imbroncia e incrocia le braccia al petto con
altrettanta fierezza.
“Ci mancherebbe, nonnetta,” replica sostenuto.
Gli altri ragazzini un po’ più grandi iniziano
ad allontanarsi cianciando, mentre riprendono fiato. Mikoto infila una mano tra
i capelli del più piccolo e glieli scompiglia, dispettosa.
“A domani, bimbo,” saluta, seguendoli.
“Ehi, non sono un bimbo!” protesta Minato,
composto. “Quando sarò Hokage…” proclama serio, alzando
la voce con solenne minaccia “….ti farò capo degli
ANBU!” ormai quasi urla con un sorriso, per coprire la distanza.
Mikoto scoppia a ridere, salutandolo con la mano.
Raggiunge Hideo e gli altri amici
riprendendo a organizzare il resto pomeriggio: ufficialmente continueranno a
studiare ed allenarsi all’accademia, ma spesso bigiano per uscire a
giocare. Alcuni suoi compagni vengono spesso sgridati per questo, ma Mikoto ha
voti così eccellenti che nemmeno su quelli la si può riprendere
– perché lei è un’Uchiha, e gli Uchiha sono i
migliori: è un dato di fatto, e Mikoto non fa
alto che confermarlo con compiacimento.
Hiroshi le cammina accanto, blaterando allegro.
“…Mangiare qualcosa e poi sai cosa, pensavo…ehi,
ragazzi ascoltatemi tutti! Possiamo fare un torneo ad eliminazione, combattimenti
individuali e…”
“…Chi perde finisce a mollo!” completa
Mikoto, entusiasta.
L’amico ridacchia, si spintonano scherzosi. Di tutti
i maschi della sua stessa età che conosce, Hiroshi Umino è
l’unico che non sia strano con lei: non la guarda imbambolato e non
balbetta in sua presenza; è il suo migliore amico. Anche Anami lo
è, ma non nello stesso modo.
Quando si dirige verso casa, al termine di un lungo
pomeriggio di schermaglie e risate, Mikoto Uchiha ha ben poco dell’impeccabile,
perfetta ragazzina che ha lasciato il quartiere Uchiha al mattino: i vestiti
sono stropicciati, bagnati e sporchi di terra, come le mani, la faccia e
così i capelli. Persino la cartella sembra sgangherata, adesso.
Mikoto si ferma alla fontana poco lontana
dall’ingresso del quartiere del clan, poggia la gamba piegata sul muretto
studiando un graffio che le adorna il polpaccio prima di iniziare a pulirsi con
il getto cristallino: lava le mani, sciacqua il viso e poi, gocciolante, inizia
a smacchiare gli abiti. È scostando una ciocca di capelli umidi che
intravede le due sagome avvicinarsi, riconoscendole all’istante: il
più giovane, due anni più grandi di lei, è suo cugino
Taro. L’altro è Fugaku.
Mikoto sussulta, arrossendo imbarazzata.
Fugaku Uchiha, quindici anni, è la punta di diamante
del clan, il più promettente shinobi della nuova generazione. Mikoto lo
ha visto allenarsi, qualche volta, rimanendo incantata dalla sua abilità
e della sua potenza. Fugaku promette di diventare il leader del clan e assume
con coscienziosa fierezza la sua posizione: di tutto lo sciame dei giovani
Uchiha, è il più maturo e il più consapevole. In sua
presenza, l’uragano Mikoto s’immobilizza sotto l’effetto di
una soggezione assoluta, che a stento le permette di spiccicare qualche frase:
diventa goffa, impacciata e silenziosa, limitandosi a rimirarlo con qualcosa di molto simile alla
venerazione; quello è lo strabiliante cugino grande, Uchiha Fugaku.
“Mikoto,” la saluta
Taro, sorridendo bonario nel riconoscerla. “Cosa stai combinando?”
Lei si rende conto solo in quel momento: i vestiti sporchi,
i capelli in disordine, la faccia ancora bagnata. Un disastro. Normalmente
imbastirebbe una scusa credibile con l’ausilio del suo sorriso irresistibile,
ma quando gli occhi neri di Fugaku si spostano noncuranti su di lei, mentre la
testa del ragazzo si muove in un cenno di riconoscimento, Mikoto si scopre del
tutto incapace non solo di parlare, ma anche semplicemente di pensare.
“Ciao… I-io…” balbetta incerta,
rimanendo li ferma con le mani strette sulla stoffa del vestito.
“Non sarai andata al lago?”
“N-no!” si affretta a negare Mikoto, avvampando
ancor di più. “I-io…” E di nuovo si blocca,
impacciata.
Fugaku sposta, finalmente, un parte
più sostanziosa della sua attenzione su di lei, grave. La osserva in
silenzio per qualche secondo, e lei rimane solo ancor più immobile.
Normalmente non la degna di particolare considerazione, è soltanto una
dei ragazzini più piccoli del clan. Non è sgradevole nei suoi
confronti, semplicemente indifferente, né avrebbe motivo per comportarsi
diversamente: è una bambina.
“Sì, invece,” afferma poi, sicuro.
“Eri al lago.”
Mikoto china immediatamente la testa, mordendosi le labbra.
Il tono di Fugaku non era particolarmente aspro, ma lei si sente lo stesso come
se l’avesse apertamente rimproverata. Il ragazzo scrolla appena la testa,
voltando lo sguardo verso l’amico.
“Siamo in ritardo, Taro,” osserva autoritario,
di nuovo abbandonandola nella sua invisibilità.
“Hai ragione,” annuisce l’altro, prima di
sorriderle, “Datti una pulita, Mikoto, se non vuoi una bella
sgridata,” conclude scherzoso, prima di rimettersi in marcia con un cenno
di saluto.
Lei annuisce mentre Fugaku s’incammina a sua volta,
già dandole quasi del tutto le spalle.
“E magari resta in accademia ad allenarti, qualche
volta,” dice sbrigativo, la testa alta e lo sguardo puntato altrove,
già proiettato in chissà quale impegno. “Mi hanno detto che
te la cavi piuttosto bene.”
Mikoto trattiene il respiro e lo osserva intontita mentre
si allontana con passo sicuro. Gli hanno detto che è brava in accademia,
qualcuno gliel’ha detto, e lui se
ne ricorda.
Si porta una mano al petto, proprio sotto il collo, e
sorride tra sé.
Mikoto si guarda nel grande specchio a figura intera,
sorpresa. Della quattordicenne pratica e un po’ brusca che è di
solito rimane ben poco, oggi: niente abiti comodi, niente chiome libere e
selvatiche, nessun Hideo di fianco a lei pronto a combinarne di nascosto una
delle solite.
Nello specchio c’è un’adolescente
fasciata in un pregiato kimono d’un lilla tenue, dal taglio semplice e
fine che la avvolge con grazia. I capelli, lucidi e serici dopo il lungo
impacco cui sua madre li ha sottoposti, sono raccolti in un delicato chignon da
cui sfugge solo qualche ciocca che fa da petalo intorno al suo viso, lindo e
curato ed ombreggiato da un leggerissimo filo di trucco.
Mikoto si guarda ancora e fatica a
riconoscersi.
Lei non ha mai colto a fondo, nella quotidianità,
quella bellezza naturale e stravolgente che ha sempre emanato e che l’ha
continuamente messa in posizioni vantaggiose, fin da quando i suoi compagni si
offrivano di farle i compiti o portare le sue cose: sapeva di piacere a tutti e
di essere molto carina, ma ora lo vede.
Ed è quasi sbigottita.
“Sei perfetta, tesoro. Su, andiamo o faremo
tardi,” la sprona sua madre, osservandola dalla porta. Mikoto si
riscuote, getta allo specchio un ultimo sguardo ed annuisce, seguendola. Oggi
si festeggiano i cinquant’anni di Kaito, il capoclan: tutti gli Uchiha
saranno presenti per porgere i dovuti onori. Perciò Mikoto, per una
volta composta e aggraziata, segue i genitori fino al grande salone del
quartier generale della polizia, sale le scale dietro di loro e non solleva
nemmeno lo sguardo, pudica, quando il suo ingresso è accompagnato da
mormorii ammirati, mentre in qualunque altro momento si guarderebbe intorno
sorridendo con delicata sfrontatezza. È Anami a raggiungerla, perché
lei osa a malapena sollevare la testa, e trascinarla verso un buffet subito
dopo che lei ha salutato il festeggiato. Sua cugina le ficca in mano un calice
colmo di succo al melone e lei lo
sorseggia lentamente, salutando vaga questo o quel cugino, un paio di zii e le
sorelle di suo padre. Sente gli sguardi addosso diversamente dal solito.
Poi Taro le avvicina, gioviale come al solito, e la
tranquilla, invariata familiarità con cui la tratta la rasserena un
pochino. Riprende a sorridere, sentendosi più rilassata, si fa dare da
Sanae dell’altro succo e chiacchiera.
“…Ti dico!” sta esclamando Anami in un
enfatico mormorio, mentre Taro scuote la testa. “Si fidanzeranno, me
l’ha detto lei!”
Lui scuote la testa, perplesso.
“Sono sicuro di no. Shinichi me l’avrebbe
detto, se avesse in mente una cosa del genere,” osserva scettico.
Anami sbuffa, spazientita.
“Ma se ti dico… Mikoto, fammi un favore,”
attacca, illuminandosi. “Tu che non c’entri nulla, vai a cercare
Naeko e dille di venire a bere una bevanda fresca qui con noi.” Si volta
verso il ragazzo, saputa. “Vedrai, te lo dirà lei stessa.”
Mikoto getta un’occhiata incerta alla sala ormai
affollata, per nulla entusiasta. Non ha molta voglia di infilarsi lì in
mezzo, ma se rifiutasse sembrerebbe una sciocca.
“Va bene,” cede, stringendo la presa sul
bicchiere. S’incammina guardandosi quasi ininterrottamente i piedi, si fa
largo tra i parenti scivolando discreta, cerca di attirare l’attenzione
meno che può.
“…Mikoto?”
I suoi occhi si spalancano nel riconoscere quella voce, con un moto di dispetto.
È proprio l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare infilata
in quel kimono che la fa sentire così a disagio e che la fa sembrare
qualcun’altra, proprio quando si è accorta di non essere
più bambina, proprio adesso. Solleva lo sguardo e sorride, cercando di
fare buon viso a cattivo gioco.
“Cia…o, Fugaku-san.”
Non è più una bambina, adesso, a parlargli ci
riesce. Non che succeda spesso, perché Fugaku ormai, a diciannove anni,
è considerato un adulto a tutti gli effetti e non ha molto a che fare
con chi non è parte della créme del clan. Ma se non altro non
diventa muta quando l’ha davanti e si limita a guardarlo senza quella spasmodica
venerazione, con l’ammirazione un po’ malinconica e distante di chi
osserva qualcosa di gradito che tanto non potrà avere.
Lui è inguainato in un kimono azzurro, sopra
pantaloni neri e sobri che gli slanciano le gambe. Emana il consueto fascino un
po’ brusco ma, al momento, ha gli occhi leggermente sgranati e sembra
vagamente sconcertato. Sbatte un paio di volte le palpebre, quasi fosse
indeciso sul da farsi, quindi si gratta educatamente una guancia.
“Sì, sei tu,” conclude, di nuovo fermo.
È il turno di Mikoto di spalancare un po’ gli
occhi, sbigottita, e di storcere il naso mezza contrariata.
“Non mi avevi riconosciuta?” chiede, quasi
condiscendente. Ma tu guarda a vestirsi da signora, cosa non succede.
“Non ero…del tutto certo…” Fugaku
si schiarisce la voce, dandosi un contegno più formale. “Ti
trovo… Rinfrescami la memoria,” suggerisce, diretto.
“…Quanti anni hai, adesso? Eri più o meno alta
così,” esclama austero, nel far calare la mano verso terra.
Evidentemente non gli è piaciuto, rimanere lì come un babbeo.
“Quattordici,” risponde Mikoto,
domandandosi se magari il suo ineccepibile cugino non abbia tracannato un paio
di bicchieri di troppo.
“Oh,” fa Fugaku,
annuendo compreso. Getta un’occhiata intorno, come se stesse pensando
qualcosa di estremamente importante.
“Cerchi qualcuno?” chiede lei, disponibile.
Fugaku torna a guardarla con lieve esitazione, sbuffa un
po’ cupo.
“Per essere del tutto schietto,” brontola a
voce bassa, discreto, “cercavo di uscire un attimo senza farmi notare.
Non che voglia andarmene,” si affretta a precisare, sostenuto.
“Soltanto…prendere aria, sai. Pensare.”
Lo dice con un tono quasi sofferto, comunque molto
coscienzioso, e per la verità Mikoto non
capisce. Che voler uscire da lì sia una cosa del tutto naturale le pare
ovvio anche a lei, ma cosa mai ci sia da pensare, proprio oggi, le sfugge.
Tuttavia annuisce con comprensione, per non spezzare quella vaghissima
confidenza.
“Certo. Va’ pure,” commenta gentile.
Fugaku annuisce, serio, muove appena una gamba in avanti e
poi si volta di nuovo, meditabondo.
“Tu…?” E Mikoto sporge leggermente il
capo in avanti, aggrappandosi al bicchiere senza proferire verbo.
“Intendo, stai facendo qualcosa, in particolare?” continua lui,
più apertamente.
Lei sgrana gli occhi, incredula.
“Oh, no! No,” risponde di slancio, portando il
calice alle labbra per bere un’altra generosa sorsata e nascondere il
viso bianco e rosso.
Lui si limita a fare un cenno col capo verso la porta che
dà sull’esterno, misurato, e Mikoto annuisce nuovamente in
perfetto silenzio. Fugaku si incammina composto, senza dare nell’occhio,
e lei dietro.
“Allora,” inizia lui, quasi paterno, “ti
sei diplomata?”
Mikoto scoppia a ridere nel bicchiere, proprio mentre varca
“Sì,” esclama, ilare. “Due anni
fa, Fugaku-san.” E ridacchia, esterrefatta.
“Mh. Già,” borbotta lui, sistemando
rigido il collo del kimono. “Ha un senso.”
Eri la ragazza
più bella che avessi mai visto, le confesserà tra anni, ancora sulla difensiva, non capivo più niente.
Mikoto annuisce, ancora sorridendo, lo trova divertente.
Anche troppo.
“E dimmi, Fugaku-san,” azzarda, seguendolo
sulla piazza verso una panchina. “A cos’è che devi pensare,
se posso chiederlo?” E beve un altro sorsetto, imbarazzata.
Lui sposta lo sguardo sulla via che conduce verso il resto
di Konoha, indecifrabile.
“Oh, sai, questioni del clan. Mi è stato
offerto…un compito delicato, di una certa importanza,” taglia
corto, fiero.
“Quanto importante?” continua lei, sentendosi
decisamente indiscreta. Pazienza, si dice con insolita tranquillità.
“Capitale,” risponde Fugaku, assorto e
lievemente accigliato.
Mikoto soffoca un’altra risata nel bicchiere,
sorpresa. Arrossisce, tossicchiando.
“Scusami,” mormora vergognosa.
“Solo…quel che si dice la modestia, eh?” commenta, e
ridacchia di nuovo, a scroscio e incontrollatamente.
Fugaku torna a guardarla con un sopracciglio sollevato,
penetrante. La osserva immobile per qualche altro secondo, mettendola
immensamente a disagio e facendole sembrare che le gambe quasi non la reggano,
prima di serrare un attimo gli occhi e sporgersi verso di lei.
“Permetti?” chiede elegantemente, allungando la
mano verso il suo bicchiere. Mikoto glielo lascia, perplessa, e lo guarda senza
capire mentre se lo porta verso il viso e ne annusa gravemente il contenuto,
quindi lo vede prende un lungo sospiro rassegnato, un po’ cupo.
“Mikoto, chi ti ha servito da bere?” chiede
atono.
“Anami,” risponde prontamente lei.
“E’ il secondo bicchiere,” aggiunge, diligente.
Fugaku allarga leggermente le palpebre, scostando
istintivamente i capelli dal viso.
“Pieno?” continua, mostrando il calice che
ormai è effettivamente quasi vuoto.
Lei scrolla distrattamente la testa.
“Sì. E’ succo al melone,
non…” spiega, alzando leggermente la voce senza volere.
“No, Mikoto,” sospira Fugaku, pazientemente
dolente. “Questo è liquore
al melone. Decisamente alcolico.”
Mikoto spalanca gli occhi stupefatta, quasi sussultando. Lo
osserva per qualche secondo, come assicurandosi che non stia scherzando, ma lui
rimane fermo e serio, controllato. E Mikoto gli scoppia a ridere in faccia, di
gusto. La sua risata si leva alta e cristallina, esilarata, mentre arretra
lasciandosi cadere seduta sulla panchina senza smettere di ridere
freneticamente, coprendosi la bocca con la mano.
“Liq…?” esala, prima che un nuovo accesso
d’ilarità la colga.
Fugaku porta una mano al viso e la passa sul lato del setto
nasale, rassegnato. Si guarda intorno, forse incerto sul da farsi, quindi
sospira con fastidio.
“Va bene, senti, è meglio se resti qui fuori a
prendere un po’ d’aria,” ipotizza, razionale. Lei annuisce
con convinzione, solenne.
“Certo. Un po’ d’aria, passerà
subito,” afferma decisa, continuando ad annuire all’infinito ma con
innata eleganza, per sua immensa fortuna.
Lui reclina appena la testa, dubbioso.
“Su questo non ci
giurerei,” commenta scettico. “Io vado a prenderti qualcosa
per…”
“No!” trilla Mikoto, atterrita. “Non puoi
lasciare qui da sola un ragazza ubriaca! Che razza…di Uchiha sei?”
esclama veemente.
Fugaku la osserva perplesso, aggrottando un po’ la
fronte.
“Vuoi dire che un altro potrebbe, ma un Uchiha
no?” commenta, ironico. “Tu staresti bene al governo di Konoha,
Mikoto.” E sospira, rassegnato.
“Sì, Minato-kun dice sempre che vuol farmi
capo degli ANBU, quando sarà Hokage,” concorda lei, svagata.
“Minato? Namikaze?... Hokage?”
Mikoto annuisce ancora e ancora. Fugaku getta intorno
un’ultima occhiata riluttante prima di sedersi accanto a lei,
intrecciando le mani giunte sotto il viso.
“Perché starei bene al governo di
Konoha?” chiede poi lei di getto, curiosa.
Fugaku sbuffa tra sé, noncurante.
“Ma niente. Solo sai, anche loro pensano che noi
Uchiha siamo particolari. E lo penso anche io, ovviamente,” commenta,
orgoglioso. “Ma non nello stesso modo.”
Il suo tono suona definitivo, l’argomento è
chiuso. Mikoto ci ragiona su per qualche istante, profondamente assorta e
concentrata, anche se il filo delle sue idee va un po’ a casaccio.
Sospira, pensosa.
“Mi piacerebbe andare ad abitare da un’altra
parte,” afferma giuliva, osservando il cielo.
“Da un’altra parte?” ripete Fugaku, che
sembra – a ragione – non riuscire bene a seguirla.
“Sì, io…uff.” Mikoto
s’imbroncia leggermente: i capelli le tirano su tutta la nuca, e lei si
strappa via il fermaglio che li tiene raccolti, lasciandoli scivolare sulle
spalle in onde nere. “Io…in un’altra zona di Konoha, forse.”
Fugaku osserva per qualche secondo, in tralice, le punte
dei capelli che accarezzano le braccia di Mikoto, prima di scuotere la testa.
“Magari, un giorno,” ipotizza, criptico,
facendo una lunga pausa. “Con Namikaze?” aggiunge, leggermente
asciutto.
Mikoto prende di nuovo a sghignazzare, piegandosi in avanti
di scatto.
“C-con Minato-kun?” balbetta, sommamente divertita.
“Tu sei pazzo! Ha undici anni!”
Fugaku si stringe nelle spalle,
sostenuto. Non dicono altro per diversi minuti, lui meditabondo e un po’
rabbuiato, lei intenta a contemplarlo distrattamente. Ha una bella figura
longilinea, un viso deciso, mascolino e definito. Le piace.
“Fugaku-san?”
“Dimmi, Mikoto.”
“Hai dei begli occhi, sai?”
Lui trasale, impacciato, poi si acciglia leggermente.
“Sei ubriaca marcia,” commenta, duro.
“Questo cosa c’entra? Hai dei begli occhi anche
quando non lo sono,” replica lei, candida.
Fugaku esita per qualche secondo, sembra non sapere cosa
replicare.
“Vado a prenderti qualcosa per smaltire,”
borbotta secco, alzandosi.
Mikoto annuisce placida, nemmeno smette di sorridere.
“Va bene. Ti aspetto qui,” commenta, e lui
annuisce fermo. “Torna, eh.”
Fugaku si volta indietro, con un leggero sorriso.
“Torno.”
Mikoto zampetta silenziosa nel cortile di casa, cercando di
non farsi vedere da nessuno. Saltella circospetta verso la porta sul retro e la
socchiude, aguzzando lo sguardo per accertarsi che sua madre non sia negli
imminenti paraggi. Sente la sua voce risuonare ciarliera dall’altro capo
del piano terra, in cucina, e sbuffa sollevata. E’ in ritardo di circa
tre ore per pranzo e Hideo l’ha appena buttata
in acqua – Minato, simpaticamente, ha infierito lanciandole manate di
terra: gocciola ancora come uno straccetto da strizzare.
Sua madre parla concitata, melliflua, mentre lei costeggia
la cucina cercando di salire verso le scale. Forse ci sono le zie, con lei.
Mikoto porta avanti un piede dopo l’altro nel silenzio assoluto,
spostando lentamente il peso del corpo, quand’ecco Zarbon zampettarle
incontro scodinzolando felice e poi lanciarsi al trotto verso di lei,
giù per le scale.
“Nononono,” sillaba lei impotente, sventolando
le mani. Inutile: il cane le balza addosso, la cartella le casca di mano, il
pavimento cigola sinistro, la sua suola bagnata della sua scarpa scivola e Mikoto atterra sul pavimento con un tonfo.
“Mikoto!” trilla sua madre, e la porta della
cucina si spalanca. “Mik...”
Lei è accartocciata in terra, Zarbon le sta leccando
tutta la faccia e i suoi vestiti fradici hanno ormai allagato il pavimento.
Sorride accattivamente alla madre, con aria mansueta ed innocente, mentre
quella la guarda con esasperazione, rimprovero e un’inspiegabile
vergogna. Mikoto si riscuote stupita e spinge lo sguardo oltre la porta alla
ricerca di eventuali ospiti, poi spalanca appena la bocca.
Già. Ovviamente,
inginocchiato davanti al tavolo con una tazza di tè tra le mani e
intento a guardarla un po’ inquieto, c’è Fugaku Uchiha.
“Che diamine stai combinando?” sibila
impercettibilmente sua madre spalancando minacciosa gli occhi, prima di
voltarsi verso il ragazzo con un sorriso accomodante.
“Ti chiedo scusa da parte sua, Fugaku-san,”
inizia cerimoniosa. “Purtroppo la mia bambina...”
“Non...fa niente,” la interrompe lui, cortese.
“Buongiorno, Mikoto,” agggiunge formale.
Lei scocca alla madre un’occhiata risentita per
l’appellativo infamante, scaccia il cane per poi allungargli pentita una
carezza. Raddrizza le spalle, mento all’aria, mentre si strizza i capelli
e marcia in cucina disinvolta, con dignità di regina. Tanto, ormai
è fatta.
“Buongiorno a te, Fugaku-san,” risponde,
cercando di darsi un contegno. Accenna un sorriso genuino nell’incrociare
gli occhi neri del cugino, che esprimono qualcosa tra il rimprovero e il
divertimento, insieme a un che di leggermente ebete che non gli si confà.
“Io vi lascio un minuto, ragazzi, devo finire di
stendere,” cinguetta sua madre compiaciuta. “Forse dovresti andare
a cambiarti, Mikoto,” aggiunge, ragionevole.
“Mi serviro del tè, mamma, e poi lo
farò,” risponde lei pazientemente. L’altra sospira avviandosi
all’esterno e Mikoto giocherella con un lembo dello scamiciato,
strizzandolo appena. Fissa la superficie del tavolo, prima di scrollare la
testa ed accennare un altro sorriso cortese.
“Come mai qui, Fugaku-san? Posso esserti
utile?” chiede, gentilmente.
Fugaku posa la tazza controllato, scuotendo lentamente il
capo.
“No. Io non ti ho vista in giro in queste due
settimane e volevo essere sicuro che andasse tutto bene, dopo...” E
s’interrompe, indeciso forse su quale termine utilizzare.
“...La sbronza?” suggerisce Mikoto, soave.
Fugaku dà un colpetto di tosse,
annuendo, e il sorriso di Mikoto si allarga. Si è preoccupato per lei. “Benissimo, ti ringrazio,”
risponde convinta, come se non fosse seduta in cucina zuppa d’acqua e con
della terra in testa. Lei non lo sa, coscientemente, ma la grazia e la finezza
sono sue doti innate in qualunque momento, come Fugaku sta scoprendo di volta
in volta.
Lui aggrotta leggermente la fronte.
“Sicura?” chiede grave. “Hai del
fango...” inizia, sfiorandosi i capelli per indicarle il punto.
Mikoto sgrana gli occhi, prima di ridacchiare sbuffando.
“Oh, è quello scemo di Minato-kun,”
sospira distrattamente. Fugaku tende la fronte con un che di tediato.
“Namikaze,” constata, piatto. “E’
sempre lui che ti ha buttata a mollo?”
“Oh, no,” si affretta ad assicurare Mikoto,
leggiadra. “Quello è Hideo,” spiega, comicamente martirea.
“Hideo?” ripete
Fugaku, atono e immobile.
“Umino. Lui è il mio migliore amico. E invece
Minato-kun...” attacca, vivace. Che poi cosa può importare a Fugaku
dei suoi amici non lo saprebbe, ma vorrebbe raccontargli. Vorrebbe che lui la
conoscesse.
“Ma tu stai sempre con i ragazzi
dell’accademia?” interviene Fugaku altero, lievemente irritato.
Mikoto fa spallucce, noncurante.
“Quando ho del tempo libero,” commenta vaga.
“Perché?”
Fugaku aggrotta la fronte, infastidito.
“Sei un’Uchiha,” le fa notare, severo.
“Quei tizi non...”
“Non sono tizi,”
lo corregge Mikoto, vagamente petulente. “Sono
miei amlci.”
Lui sbuffa, leggermente sprezzante.
“Comunque non sono come noi.”
Mikoto si acciglia, indignata. Forse non sono Uchiha,
d’accordo, ma sono lo stesso brave persone.
“Tanto meglio!” sbotta stizzita, con sfida.
“Invece di passare le mie giornate a fare la poliziotta in mezzo a dei
poliziotti che parlano di polizia, io...”
“Forse bisognerebbe cambiare questo, anziché mischiarsi...” inizia Fugaku veemente,
poii sbuffa. “Noi possiamo essere molto di più,”
“Ma che t’importa dei miei amici?” lo
tronca lei, indispettita seppure non del tutto in disaccordo sul principio di fondo:
anche lei è fiera di essere un’Uchiha, è un onore e un
privilegio.
Fugaku serra le labbra, irato.
“Assolutamente nulla,” ringhia con fastidio.
“Bene, Mikoto, vedo che stai magnificamente. Ho svolto il mio
dovere,” aggiunge, duro.
“Perfettamente,” conferma lei con sfida.
“Grazie della visita,” aggiunge fredda.
“Non c’è di che.”
“Bene.”
“Bene.”
Fugaku si alza, annuendo cupo. Lei lo imita bruscamente,
avviandosi alla porta.
“Ti auguro una buona giornata.”
“Altrettanto.”
Lo guarda allontanarsi a passo deciso, risoluto. Sospira
tra sé con rammarico, irritata, arricciando le labbra in un broncio
torvo.
Fugaku Uchiha, vent’anni, è un ragazzo tutto
d’un pezzo. È lo shinobi più talentuoso del clan cui
appartiene, di cui è destinato a prendere le redini. È fiero,
solerte, ambizioso: nelle sue mani, un giorno, verrà messo il destino
della sua genia e forse dell’intera nazione del Fuoco. Fugaku Uchiha
ritiene frustrante la condizione di élite messa a lato in cui pensa
versi
Fugaku Uchiha è una persona austera, frugale. Dedica
la quasi totale interezza del proprio tempo e dei propri pensieri all’affermazione
del suo clan. Non ama le frivolezze e le distrazioni, ride raramente e sempre
più spesso la sua fronte è marcata da un ruga profonda che poco
si adatta alla sua giovane età. Il peso che gli è stato affidato,
quello di portare il clan Uchiha al suo massimo splendore, è per lui
motivo di vanto ed orgoglio: non potrebbe essere uno qualunque a prendersene
carica.
Fugaku Uchiha, tuttavia, è distratto da mesi.
La sua testa vaga spesso per conto proprio, del tutto in
contrasto con la sua ferrea volontà, e sovente si sorprende con
irritazione a rimuginare su questioni che ha sempre ritenuto di nessuna
importanza; troppe volte si ritrova a guardarsi intorno cercando
involontariamente una sagoma sinuosa, lunghi occhi neri e guance candide,
dandosi automaticamente del deficiente. Ha sempre pensato che presto o tardi
gli sarebbe toccato di dover mettere su famiglia ed ha avuto le idee chiare,
fin dall’inizio, su cosa cercare nella donna cui avrebbe concesso di
affiancarlo: finezza, grazia, docilità, remissione, accondiscendenza. Se
le prime due qualità trovano in lei la più alta realizzazione, le
altre non hanno a che vedere con sua cugina Mikoto. Forse non alza quasi mai la
voce e non si atteggia platealmente a ribelle, ma di sicuro non è il
tipo di ragazza che si pieghi silenziosamente ai voleri di qualcun altro.
Sembra più il genere che ti prende per il naso con un sorriso soave.
Mikoto Uchiha non è, definitivamente, la ragazza
giusta. Quindi è piuttosto disdicevole continuare a pensarla. Per
giunta, non si parlano da mesi, il che rende ancora più contraddittorio
il suo garbuglio emotivo: da un lato se ne sente sollevato, perché
così forse se la leverà dalla testa, dall’altro si sente
spinto verso di lei da una necessità di rappacificazione che gli risulta
quasi più seccante di tutto il resto. Non è così che aveva
previsto le cose.
Il problema primario di Fugaku
Uchiha è il non voler prendere atto di come nulla sia schematizzabile,
nella vita. Ben poco può essere calcolato in modo scientifico e quasi
nulla del futuro si può stabilire razionalmente, a tavolino. Ci sono
variabili che non si possono indovinare in anticipo e che dipendono dalla
profonda, istintiva natura del singolo, riflettendosi sugli eventi in grande
scala: si chiamano vita. E’
esattamente questa la ragione che, tra anni, lo porterà a trascurare un
dettaglio fondamentale del suo piano insurrezionale per conquistare le alte
sfere di Konoha: la totalità dell’amore di un fratello maggiore
per il più piccolo.
Un insignificante errore statistico che costerà
decine di vite, compresa la sua, e la distruzione del clan.
Ma, ovviamente, questo Fugaku non
lo può nemmeno lontanamente immaginare. Si limita a dibattersi nelle sue
contraddizioni, frustrato e combattuto.
La cosa, nei fatti, si traduce in un malumore e una durezza
particolarmente marcati nel suo atteggiamento quotidiano; la sua stessa postura
è più rigida del solito, i suoi scatti di collera e autorevolezza
più veementi. Persino suo cugino Taro comincia a manifestare una certa
insofferenza, lui che è il più pacato del clan.
“Perché non ti trovi una ragazza?” gli
suggerisce un pomeriggio, scocciato. “Magari ti rilassi. Comunque,
l’età per fidanzarti ce l’hai.”
Fugaku si fa fosco, scrutandolo astioso.
“E perché tu non ti fai i fatti tuoi?”
risponde tagliente, sulla difensiva. “Comunque, l’età per
non impicciarti ce l’hai, mi pare.”
Taro sospira pazientemente, scrollando la testa.
“Anami ha un gigantesca cotta per te. E
c’è quella ragazza, quella biondina del cla...” aggiunge,
magnanimo.
“Cosa non è chiaro in quel che ti ho appena
detto?” ringhia Fugaku, la pazienza già agli sgoccioli.
Taro leva gli occhi al cielo, esasperato. Getta lo sguardo
un po’ vacuo davanti a sé ed è allora che sulle sue labbra
passa un’ombra di sorriso malizioso.
“Oh, guarda chi c’é,” commenta,
noncurante. “
Fugaku volta la testa di scatto e suo cugino è
costretto a mordersi le labbra per non ridacchiare. Mikoto sta camminando
accanto alla cugina Anami, parlando animatamente. Le sue mani esili, bianche,
si muovono nell’aria senza perdere una naturale eleganza nei movimenti.
Scrolla la testa di tanto in tanto e i capelli le danzano intorno al viso,
tutto smorfiette e delicatezza.
Incantevole.
“Mikoto! Anami!” chiama Taro, prima che
l’altro glielo possa impedire. Gli lancia comuque un’occhiata
infuocata, mentre le due ragazzine li notano. Anami si sbraccia immediatamente,
afferra il polso dell’amica e se la tira appresso nonostante una sua leggera
riluttanza.
“Buongiorno,” saluta Anami allegra, sbattendo i
grandi occhi scuri. Mikoto borbotta a sua volta un saluto a mezza voce, sorride
all’indirizzo di Taro.
“Buongiorno a voi,” risponde Fugaku noncurante.
Anami s’illumina ulteriormente, mentre Mikoto
conserva intatta la sua espressione da principessina indispettita. Mentre sia
lei che Fugaku si chiudono in uno spigoloso silenzio gli altri due prendono a
chiacchierare svagati, commentando le novità del clan. Facezie che a Fugaku non interessano minimamente, tanto più mentre
osserva Mikoto guardarsi i sandali con educato distacco, nei suoi quindici anni
di sfolgorante bellezza. Rimane muto, le mani incrociate dietro la schiena e le
spalle larghe, quasi in posa militare.
E poi lei lo guarda, un po’ bizzosa.
“Come va, Fugaku-san?” chiede cortesemente.
“Benissimo,” risponde istintivamente.
“Tu?”
Mikoto annuisce graziosamente, in silenzio.
“…Ci andiamo?” propone in quel momento
Taro, alzando la voce.
“Dove?” domanda Fugaku, ritroso.
“A vedere i ragazzi in accademia che si diplomano.
È tra poco più di mezz’ora e il piccolo Obito...”
spiega Anami, invogliante, guardandolo speranzosa.
“Io adesso ho da fare,” risponde lui
sbrigativo, proprio mentre Mikoto replica “ho promesso a mamma che non
avrei tardato troppo.”
“Come non detto,” brontola Taro, mentre Anami
sospira avvilita. “Ci andiamo noi?” continua il giovane, scrollando
le spalle. L’altra annuisce in conferma, si salutano pigramente e Fugaku
li guarda allontanarsi, intimamente soddisfatto di avere Mikoto ancora accanto.
Ma poi s’incupisce, deprecandosi.
“Bene, Mikoto, allora io...” inizia marziale.
“Immagino che non sia stato molto carino da parte
mia, quella volta. Sei stato gentile a venire a informarti su come
stavo,” osserva Mikoto esitante, spostando lo sguardo con imbarazzo.
Nemmeno lui è stato esattamente adorabile, all’occasione,
ma non lo dice, preso alla sprovvista. Rimane fermo e assorto per qualche
secondo, prima di annuire con calma.
“Suppongo che non ci siamo capiti,” concede,
apatico.
“Suppongo di no,” conferma Mikoto pacata.
Tacciono per qualche secondo, poi lui socchiude le labbra
– senza sapere bene cosa dire – ma Mikoto lo anticipa.
“Quello che volevo dire,” attacca sicura, con
la sua bella voce musicale,” è che è carino avere anche degli
amici che non c’entrano niente con noi. A volte è noioso, stare
solo con il clan,” si giustifica, un po’ incerta.
Fugaku le getta un’occhiata non molto convinta. Non
è quella la soluzione, non serve cercare qualcos’altro fuori:
è la posizione del clan che va cambiata.
“Poliziotti che parlano di polizia...”
commenta, sarcastico.
Mikoto avvampa, prima di scrollare fieramente la testa.
“Quando avrò dei figli impedirò loro di
fare i poliziotti!” afferma decisa, con orgoglio. “Voglio che
possano scegliere la loro posizione e diventare magari ANBU o consiglieri o
quello che gli pare. E prenderò Minato-kun a
testate se non darà loro le mansioni che meriteranno!”
“Min...? Oh, giusto, quando sarà
Hokage,” commenta Fugaku, caustico, prima di raddrizzare la testa.
“E’ esattamente quello che penso anche io. I miei figli dirigeranno
questo villaggio, e i figli dei miei figli, e...”
“Una dinastia di piccoli Fugaku?” interviene
Mikoto, scherzosa.
A lui sfugge un sorriso, nonostante la foga dovuta
all’argomento estremamante serio. Le lancia un’occhiata obliqua,
esitando, poi scaccia i capelli dalla fronte con un movimento rapido del capo.
“Stai andando a casa?” chiede, vago.
Lei annuisce in conferma, mordicchiandosi un labbro.
“Vado anche io in quella direzione,” annuncia
lui, con fare estremamante impegnato.
Mikoto sorride, incamminandosi leggera. Attraversano il
quartiere fianco a fianco, e Mikoto non si pavoneggia né sembra volerlo
far notare, sicché la loro passeggiata non attira l’attenzione:
due lontani cugini che attraversano la zona familiare. Fugaku si accorge, piacevolmente,
che due passi leggiadri di Mikoto equivalgono esattamente a una sua falcata.
Si cataloga immediatamente come un imbecille, subito dopo
averlo pensato.
Si schiarisce signorilmente la voce quando giungono davanti
a casa di lei. Mikoto si volta con un sorriso di congedo, piegando leggermente
la testa, e Fugaku istintivamente pensa che sia un peccato lasciarla andare.
“Mikoto,” inizia di slancio, prima di poterselo
impedire. Lei lo guarda, forse trepidante, se non se lo sta immaginando. Il suo
cervello è un po’ avariato, quest’oggi. Si fa altero,
sussiegoso. “Io...avrò il pomeriggio libero, questo sabato.”
Mikoto sussulta leggermente, sbianca un po’ e si fa
rosata, poi sorride con infinta dolcezza e con una punta di perfidia.
“Buon per te, Fugaku-san,” commenta, affettuosa.
“Buon fine settimana,” aggiunge, voltandogli le spalle per sparire
in casa.
Fugaku rimane piantato per qualche secondo davanti alla
porta, gli occhi neri spalancati con aperto disappunto. Si guarda intorno
inebetito e serra le labbra vagamente offeso.
“Che razza di...” sibila oltraggiato,
accigliandosi. “...Testa quadra,” conclude, dopo una breve
riflessione atta a reperire l’espressione che più gli aggrada.
Si volta impettito, marciando via deciso. Sulle labbra,
tuttavia, ha un accenno di sorriso divertito.
“Auguri, Mikoto-chan.”
“Sedici anni, sei davvero una signorina ormai!”
“Ti sei fatta proprio graziosa, piccola.”
Lei sorride gentile, accogliendo i convenevoli dei
familiari con composta riconoscenza. Stringe mani e accenna inchini qui e
là, fa cenni ai membri della ristretta cerchia di parenti prossimi
intenti a festeggiare il suo sedicesimo compleanno. Non si azzarda a toccare
nemmeno la brocca dell’acqua, memore dell’inconveniente intercorso
l’ultima volta che si è dissetata in un’occasione ufficiale.
L’ubriacatura presa da lei e Anami per errore rimane indimenticabile.
Quando l’attenzione scema un po’ da lei, tira
un lungo sospiro, stremata. I capelli le tirano di nuovo e le pizzica la nuca,
ma si rassegna e si muove per andare a sedersi accanto a sua madre, che ciarla
con la cugina Uruchi. Nell’angolo della sala Anami chiacchiera fitto con
Taro. Li si vede spesso insieme, di questi tempi, e difatti lo zio Shisui, il
padre di lei, lancia nella loro direzione occhiate vigili. C’è
puzza di fiori d’arancio.
“Niente succo, oggi, Mikoto?”
Volta la testa di scatto con un sorriso spontaneo che le
nasce dentro: Fugaku la osserva vagamente sornione, composto e con
un’aria un po’ stanca. Lei ridacchia, cercando di non mostrare
troppo l’entusiasmo per la sua presenza.
“No, ma sto abbondando col sushi per
compensare,” risponde divertita. Fugaku annuisce con approvazione,
distendendo un po’ il viso troppo teso. La percorre con uno sguardo di
discreta ammirazione e si discosta per sistemarsi accanto al muro, senza
palesare la minima intenzione di allontanarsi da lei. Mikoto lo imita,
stringendo un po’ le mani per restare perfettamente calma.
Lui le fa qualche domanda vaga, cui lei risponde con un
chiacchiericcio leggero e poco impegnato. Fugaku sembra particolarmente grave,
oggi, ma man mano che lei parla la sua espressione si fa rilassata e quella
brutta ruga si appiana. Lei ne è contenta.
E pensa che, in fondo, è il suo compleanno. Bisogna
osare.
“Fugaku-san,” azzarda, celando un vago tremore
nella voce, dopo aver finito di spiegare che il suo migliore amico si è
fidanzato. “Per caso...hai di nuovo il sabato libero?”
Deglutisce ansiosamente, faticando a non chinare
vergognosamente
“No,” risponde fermo. “... Questa
settimana è il giovedì,” aggiunge, con leggera ironia.
“Oh.” Mikoto annuisce sperando che lui la
inviti da qualche parte, ma Fugaku la guarda soltanto, in silenzio.
“Beh,” farfuglia lei rabbuiandosi. “Non
è che fossero fatti miei, non...”
“Stai per caso aspettandoti che ti chieda
qualcosa?” chiede grave Fugaku, con malefica ingenuità.
Mikoto arrosisce, stringendo le labbra. Dispettoso,
arrogante e vendicativo ragazzaccio.
“Niente affatto,” cinguetta altera, voltando la
testa e facendo per andarsene.
“Forse potremmo vederci, giovedì
pomeriggio?” ipotizza Fugaku, con tono vago.
Mikoto storce il naso, sdegnosa.
“Potrei aspettarti verso le due,” concede
generosamente.
“Due e mezza?”
Lei sbuffa spazientita, guardandolo storto.
“Devi avere sempre l’ultima parola,
vero?” osserva, tagliente.
“Tassativamente,” conferma Fugaku senza
un’ombra di vergogna. “E, Mikoto... Io non sceglierei mai come
fidanzata una scimmietta che fa la lotta col fango,” aggiune, più
serio.
Lei resta per un paio di secondi senza fiato, scombussolata
dalle implicazioni di quella frase, poi serra le labbra a testa alta un
po’ risentita.
“Me lo ricorderò,” commenta altezzosa.
“Cosi la potrò avvisare, quando ne troverai una.”
Fugaku accenna un sorriso, annuendo contegnoso.
“Già fatto, credo,” precisa,
sfacciatamente sicuro.
“Ciao.”
“Ciao.”
Si guardano per qualche secondo circospetti, incerti.
Fugaku ha un bel kimono bianco, sobrio e lindo, su pantaloni blu scuro un
po’ larghi. Ha l’aria di trovarsi lì un po’ per caso e
quasi controvoglia, ma i suoi occhi non la mollano un secondo.
Mikoto prende un lungo respiro, cercando di rilassarsi, e
sorride.
“Dove andiamo?” chiede tranquilla,
affiancandolo.
“Dove vuoi. Hai la totale libertà decisionale.
Oggi,” precisa, beffardo.
“Immagino sia un evento del tutto eccezionale,”
commenta Mikoto condiscendente.
“Ovviamente,” conferma lui, solenne.
Mikoto fa scorrere le dita sul mento, pensosa, quindi
soride più ampiamente.
“Hai detto totale,
giusto?” chiede dolcemente. “Ottimo. Andiamo, allora,”
stabilisce allegra.
Fugaku aggrotta la fronte, seguendola.
“Dove?” s’informa cauto.
Il sorriso di Mikoto si fa angelico, mentre scuote piano la
testa.
“Io decido, tu esegui,” esclama, pacata ma con
un che di lapidario.
“Non è esattamente quello che ho detto,”
borbotta lui contrariato.
Ma Mikoto continua a sorridere radiosa e questo sembra
sortire il solito effetto: quallo di fargliela avere vinta. Lo pilota verso
l’esterno del villaggio depistando un paio di tentativi di indagine sulla
destinazione, mentre gli racconta della sua ultima ronda. Fugaku la ascolta
impenetrabile, ma i suoi minimi cambiamenti d’espressione indicano la sua
attenzione.
E poi sono nella radura accanto all’ansa del lago,
tra le piante.
“Qui è dove vieni a inzaccherarti con...lo
Yondaime?” chiede lui, ironico e non molto entusiasta.
Mikoto annuisce di slancio, poi gli punta un dito contro.
“Noi non facciamo la lotta col fango,”
puntualizza, compita. “Noi facciamo normali duelli, ma chi perde paga
pegno,” aggiunge, dignitosa. “Però, siccome hai dimostrato
tanto interesse,” continua, guardandosi intorno con attenzione prima di
zompettare verso l’acqua e chinarsi, “e io non sono la fidanzata di
nessuno, al momento, posso essere una scimmietta che fa la lotta col fango. Teh!”
Si muove così rapidamente e inaspettatamente che
Fugaku non ha nemmeno il tempo di iniziare a schivarsi: la palla di fanghiglia
si schianta sul suo candido kimono con rumore di spugna bagnata e la sua
espressione è talmente esterrefatta che Mikoto scoppia a ridere di
gusto, scagliando un secondo proiettile che colpisce il suo braccio.
“Mikoto!” ruggisce lui allibito, facendo un
passo rabbioso verso di lei. “Ma sei completamente paz...?”
Il terzo colpo lo centra in piena faccia. Mikoto, che non
ha mirato lì espressamente, porta una mano al viso per soffocare una
sghignazzata particolarmente rumorosa e poi si ritrae leggermente puntando le
mani a terra, nel cogliere la smorfia furente e omicida sul viso di lui. Si
aspetta una solenne sfuriata ed è già pronta al battibecco irreparabile,
ma non sa della virgola di terriccio che, buffa, addobba la sua guancia nivea
né del luccichio entusiasta dei propri occhi sopra il sorriso delizioso.
Percio è altrettanto impreparata quando il bersaglio
di una zolla di terra è lei. Lancia uno strillo e scoppia a ridere di
nuovo all’infuriare di una serrata battaglia a colpi di terriccio, sabbia
bagnata, rametti, manciate di foglie e infine taijutsu. È con lo stesso
sorriso aperto che per una volta è dipinto sulle labbra di Fugaku che
attiva lo sharingan e passano a un duello senza nemmeno farci caso. Non ci
mettono la minima aggressività e Fugaku la respinge e l’attacca
con una mansuetudine quasi commovente, ma Mikoto è soddisfatta della
precisione e l’efficiacia dei propri colpi, dell’espressione
catturata e distesa di Fugaku che finalmente non ha più ombra di cupezza
sul viso e sembra un ventenne qualunque - Mikoto
sarà sempre questo, il suo ponte con la dolcezza. Lei dà il
meglio di sé ed esulta interiormente quando lui è finalmente
costretto a impegnarsi.
E, naturalmente, la mette a tappeto.
“Hai perso,” commenta soddisfatto. Ha delle
foglie in testa e il suo kimono tende a un grigio sporco misto marrone, con
qualche striatura bianchiccia, ma sembra che per una volta la cosa non gli
interessi.
“Adesso mi devi buttare in acqua,” osserva lei,
provocandolo. “Di solito il perdente viene anche infangato, ma noi
abbiamo già dato.”
“Non ci penso nenche,” protesta Fugaku
scandalizzato.
“E’ la regola,” fa lei, severa.
“Io non partecipo ai vostri tornei di
spostati,” ribatte Fugaku sdegnoso.
Mikoto si acciglia, senza acredine.
“No, la nostra regola. Io decido, ricordi?” lo
contraddice, suadente.
Fugaku resta imbronciato ed esita, contrariato.
“Che c’è, non ne sei in grado?” lo
punzecchai lei, rialzandosi in piedi. Scorge il lampo di arroganza
attraversargli lo sguardo e sorride tra sé. “Guarda che
ti...” aggiunge, allungando la mano per colpirlo.
E’ un secondo: il suo polso si storce indietro senza
violenza e un paio di braccia sicure la sollevano da terra, scagliandola in
aria. Mikoto affonda nell’acqua con uno strillo
ilare.
“Contenta?” commenta Fugaku sostenuto, quando
riemerge tossicchiando.
Lei rituffa la testa sotto e si dibatte un po’,
levandosi di dosso lo sporco. Quando finalmente si avvicina alla riva, per
arrampicarsi fuori, lui le tende la mano per aiutarla. Mikoto
la afferra di scatto, senza preavviso, tirando con tutte le sue forze. Accoglie
con espressione compita il tonfo di Fugaku che finisce a mollo e la sua mezza
imprecazione, prima di issarsi sulla terraferma con eleganza.
“Mikoto! Io avevo vinto!” sbraita Fugaku
indignato, non appena la sua testa riesce dall’acqua.
“Ho deciso di cambiare
Lui la osserva malevolo e borbotta chissà che
arrampicandosi fuori. Si rizza in piedi, scrollandosi come nemmeno Zarbon ma
mantiene un’espressione fiera, inalterata.
Anche Mikoto, la vista un po’ oscurata dai capelli,
ritrova la posizione verticale e resta lì, un po’ incerta,
perché Fugaku la sta guardando in modo strano e sembra a stento
respirare, chissà perché.
Il perché è che lei ha gli abiti fradici che
penzolano giù, restandole attaccatati alle gambe, i capelli neri e
lunghi che calano sulla faccia, appiccicati anch’essi, e trema
leggermente. Sembra uno scricciolino sparuto e Fugaku si lascia scappare una
mezza risata sottovoce. Poi le si avvicina e Mikoto resta ferma intravedendo le
sue mani avvicinarsi e poi le dita, leggere, scostare di lato i capelli zuppi
come lembi di una tenda, ritrovando i suoi occhi e la sua fronte. Socchiude le
palpebre senza respirare quando il viso di Fugaku si accosta e le labbra si
posano proprio sotto l’attaccatura dei suoi capelli, per poi scivolare
giù lungo la linea del suo naso e infine trovare le sue labbra. Si
lascia baciare senza quasi reagire, col cuore che sembra battere violentemente
contro le tempie, prima di afferrarsi al kimono di lui e protendere in avanti
la testa.
Fugaku la circonda con entrambe le braccia – è
sottile, Mikoto, una meraviglia in miniatura - e lei gli affonda contro. Poi le
loro labbra si allontanano, si sfiorano un’ultima volta e, infine, Mikoto annega il viso nel kimono fradicio di lui,
stringendo un po’ di più i suoi fianchi. Fugaku la avvolge, prendendo
un lungo respiro profondo.
“Hai finito di fare la scimmietta, signorina,”
annuncia, remotamente serio.
“Vedremo…” mormora Mikoto
contro il tessuto, sorridendo.
________________________________________
Ebbene.
Rispondo subito alla domanda che probabilmente più o
meno tutti vi siete posti, di sfuggita.
Perché “Panta
rei”?
Eraclito di Efeso, filosofico presocratico, sosteneva che
la vita è un flusso in perenne divenire, tutto scorre come un fiume (panta rei,
appunto) a risultato della continua tensione degli opposti, secondo leggi
dovute a un’armonia profonda per noi oscure e inafferrabili (Eraclito la
chiamò Logos). Mi rendo conto
di aver dato un’interpretazione molto personale a questa teoria del
Divenire, ma tanto lo faccio con tutto. Per giunta sono passati parecchi anni
da quando ho studiato la filosofia delle origini, quindi la memoria fa cilecca.
Quello che più mi affascina del pensare la vita come
un fiume che scorre è l’idea che l’uomo di fatto non ne
abbia il controllo. L’imprevedibilità dell’esistenza
costituisce per me la sua massima bellezza, nel bene e nel male. Ed ecco,
dunque, perché Panta Rei.
Anche la mia interpretazione di Fugaku
e Mikoto è molto soggettiva: sono sicuramente
OOC, ma d’altra parte deve passare ancora parecchio tempo prima che
diventino i due genitori che noi abbiamo visto solo negli ultimi giorni della
loro vita. Comunque, mi scuso per tutte le mie solite incongruenze, la
ricostruzione approssimativa, gli errori sul canon.
Spero ugualmente che la lettura non
sia stata spiacevole.
Alla prossima.
[E GRAZIE,
Maura, per la beta.]