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Autore: Fissie    08/03/2009    12 recensioni
Le cose che non diciamo sono come tossine che, trattenute nell’anima, l’avvelenano.
Bella non l'ha mai detto; Renesmee non l'ha mai chiesto. Eppure è come se lo avessero fatto.
[ Piccola one-shot introspettiva sul rapporto tra Bella e Nessie: può una figlia amare l'uomo che anche la madre, un tempo, ha amato? ]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan, Renesmee Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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Il mio angolino
Ciàh, gente! ^-^
Torno con una breve one-shot (ho messo come avvertimento "flash-fic", ma, deBBBo essere sincera, è una definizione impropria, in quanto supera di 246 parole il limite di 500 *coff* chiedo venia!). Questa cosuccia mi è stata ispirata da una riflessione, coltivata mentre leggevo BD: con ogni probabilità Renesmee, una volta cresciuta, ricambierà i sentimenti di Jacob, ma… abbiamo mai provato ad inquadrare la situéscion dal punto di vista del rapporto tra Renesmee e sua madre? Bella non ama più Jacob, e questo è un dato di fatto, ma ciò non toglie che l’abbia amato. Concedetemi che la circostanza è un po’ anomala XD Come deve essere per una figlia amare una persona che anche la propria madre ha amato? Come deve essere per la madre, e come deve essere per entrambe, sostenere l’imbarazzo? Non pretendo di rispondere a queste domande con una brevissima one-shot, ma solo di cogliere una manciata di istanti tra loro due. Qui Renesmee è cresciuta (datele l'età che più gradite), non sta ancora con Jacob ma ha capito di amarlo.
Ultima cosa. L’input decisivo per scriverla, mi è stato dato da una minuzia notata nel mezzo delle mie pare mentali: in Eclipse Jacob regala a Bella il famoso bracciale con il lupo. Dal momento, però, che l’ultimo riferimento a quel bracciale lo abbiamo quando Bella decide di non toglierlo, ho supposto che l’abbia tenuto. Ma in BD Jacob regala a Renesmee un bracciale intrecciato…
Bè, buona (spero) lettura ^.^


Unspoken words

I cardini scivolano silenziosamente e la porta non emette alcun rumore aprendosi.
C’è una tale assenza di suoni da farti sentire come un'attrice in un film muto.
Osservi con sguardo vacuo la fenditura di luce che squarcia la penombra della tua cameretta. Quel fascio perlaceo proiettato dallo spiraglio della porta disegna un trapezio sul pavimento e colpisce dei poveri calzini per terra, abbacinati come sotto i riflettori di un palcoscenico.
Finalmente, tua madre si decide a entrare.
La senti incedere con l’eleganza che contraddistingue la vostra specie – la loro, ti correggi; perché è così complicato, umana o vampira, luce oppure ombra, che stenti ancora a capire a quale emisfero appartieni; come l’Africa, che sta su entrambi e in nessuno dei due soltanto.
Tua madre si adagia con grazia sul divano e ti siede accanto. Dovresti sollevare lo sguardo dal pavimento, adesso, invece non riesci a distoglierlo dalla breccia di luce che si riemargina, come una ferita, mentre la porta si chiude dolcemente. Per un'inerte associazione d'idee, ricordi che anche le ferite sulla pelle di Jacob si riemarginano con la stessa rapidità, e la cosa non ha mai smesso di causarti stupore - hai sempre distinto il lupo e l'umano, non sei mai riuscita a identificarlo soltanto con l'uno o con l'altro, perchè non ci riesci neanche con te stessa che sei più di un'umana e meno di un vampiro.
Siete entrambi due metà non classificate, e nella dolcezza di questa somiglianza ami perderti spesso.
Tua madre batte due volte i palmi sulle ginocchia, forse incoraggiandosi a prendere parola, ma il suono secco di quei colpi ti richiama alla realtà, come una zavorra che, allacciata alle tue gambe, ti avesse trascinata giù dai tuoi pensieri per farti nuovamente piombare sul divano, rannicchiata in posizione fetale. Quando fa così sembra che abbia dimenticato di poter anche smettere di fingersi umana, davanti a te - pensi -, o, piuttosto, che abbia scordato di non esserlo più da un pezzo.
«Com’è andata ieri sera?», dice, quando finalmente si persuade a parlare.
Tu stringi con più vigore le gambe, raccolte contro il petto, e rotei gli occhi. «E dai ma’», sbuffi, «ce l’hai scritto in faccia che sai già tutto.»
Tua madre indugia, combattuta tra il dichiarare la resa e il proseguire strenuamente la sua recita. Ma è sempre stata un'attrice piuttosto scarsa - le sovviene, ricordando che Jacob glielo diceva spesso -, perciò getta presto le armi.
«Non te la prendere con papà, però», mormora.
«Figurati, ormai mi sono rassegnata all’idea di non avere una vita privata», rispondi sarcastica, pur non avendocela davvero con nessuno.
«Quindi», continua lei, facendo una buffa smorfia che ti sembra quella dipinta spesso sul volto di Jacob quando cerca di cavarsi di bocca le parole giuste. «Ti piace?»
Fai spallucce e ti raccogli ancora di più nel tuo cantuccio, imbarazzata. «Eh, cioè… bè, sì.»
Tua madre ride e tu vorresti sprofondare, anche perchè non sei sicura che proprio lei sia la persona più adatta con la quale parlare di lui.
«Bene», dice, quando il suo riso affettato si esaurisce. È strano, perché non riesci a decifrare la sua espressione, e non sai se è contentezza o amarezza, o forse entrambe, quella piega delle sue labbra. «E com’è successo? Come l’hai capito, intendo, che ti piace».
Adesso è il suo turno di sentirsi a disagio e tu le passi volentieri l'impaccio, benchè un pò ti faccia tenerezza. E' solo così intimamente goffa, a dispetto delle sue movenze, che inevitabilmente pensi a quanto debba essere complicato, per lei. Tutti i genitori sono destinati a fare i conti, prima o poi, con l'evidenza che il proprio bambino è cresciuto, ma in genere hanno una quindicina d’anni per abituarsi all’idea - a lei, invece, ne erano stati concessi così pochi.
Inclini la testa di lato e ti imponi di non prenderla troppo in giro. «Tu come l’avevi capito?», dici, ma ti accorgi dell'errore solo mentre le pronunci e non fai in tempo a serrare la bocca per impedire loro di uscire: quelle parole inciampano sull'orlo delle tue labbra e sono già fuori; parole già dette.
Sgrani gli occhi, mentre lei si irrigidisce e lo sapete entrambe che state pensando la stessa cosa. Dovevi formulare meglio la domanda.
“Di papà”, vorresti dire, ma dirlo equivarrebbe ad esplicitare l’altro senso: tu come avevi capito di amare Jacob?
«Forse non dovrei impicciarmi», mormora tua madre, aggirando il malinteso.
Eppure restano là, dove sono sempre state, lo sai tu, e lo sa lei, solo che per la prima volta le percepite entrambe: quelle parole silenziose che si interpongono fra di voi, quelle parole che non avete il coraggio di esprimere a voce. Parole fantasma, sedute tra te e lei, incorporee eppure abbastanza spesse da rendervi così distanti.

Le cose che non diciamo sono come tossine che,
trattenute nell’anima,
l’avvelenano.

Tua madre allunga la sua mano per coprire, col palmo, il dorso della tua. «Sono contenta per te» dice, ma tu annuisci soltanto, ipnotizzata dalla minuscola scultura di legno che penzola dal suo polso: il piccolo lupo oscilla, aggrappato al filo che gli impedisce di precipitare; oscilla tra salvezza e abbandono, sospeso su una caduta libera, eppure mai lasciato andare.
«Sono contenta per te», ripete.
E sai che dice il vero, anche se la morsa di quel bracciale intrecciato che indossi da sempre non ti era mai sembrata tanto stretta.

   
 
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