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Autore: Macy McKee    25/12/2015    1 recensioni
Nell’anno 2034, alla fine di ogni cosa, due anime spezzate si incontrano in un istante impossibile rubato al tempo.
Sembra passata un’eternità – forse è davvero così, in un certo senso.
«Sei tu» bisbigli, e le tue parole sono inghiottite dal ruggito delle onde e soffocate dal nodo che ti serra la gola.
Okabe allunga una mano verso il tuo volto. Leggi nei suoi occhi l’esitazione, il timore disperato che, tentando di sfiorare la tua pelle, le sue dita possano incontrare il vuoto.
Afferri la sua mano a mezz’aria, stringendola con forza nella tua.
«Sono io».
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest "Quando t'incontrai quell'estate – Non potevamo stare insieme" sul forum di EFP.

 Note dell'autore:Per quanto riguarda il tono e le scelte espressive dei dialoghi, ho cercato di attenermi il più possibile alla scena, mostrata nell’episodio 22, nella quale Okabe e Kurisu si dicono addio prima che Okabe annulli la sua prima D-Mail, lasciando che Kurisu, in un certo senso, muoia. Credo sia uno dei momenti più “sentiti” di tutto l’anime, una delle rare occasioni in cui Kurisu e Okabe si aprono l’una all’altro, abbandonando i continui tentativi di chiudersi in se stessi (nel distacco da una parte, nell’eccentricità dall’altra) e parlandosi in modo sincero e genuino.
Anche per quanto riguarda la struttura della storia in sé, mi sono riallacciata a un paio di scene tratte dall’anime: in particolare, il tono e l’ambientazione sono da ricondursi al passaggio in cui Okabe sogna di trovarsi davanti all’orizzonte degli eventi e a quello in cui sogna di rivedere Mayuri nel “deserto” prima dell’inizio della storia dell’umanità.
Ho inserito nella storia una delle citazioni proposte come prompt dal contest. Si tratta della frase “Anche se quel giorno non ci fossimo incontrati tutto sarebbe andato nello stesso modo. Ci eravamo incontrati perché doveva succedere, e anche se non fosse stato quel giorno, prima o poi ci saremmo sicuramente incontrati da qualche parte”, tratta da Norwegian Wood di Muramaki. È leggermente modificata, affinché suoni più scorrevole all’interno della storia, ma ho cercato di toccarla il meno possibile.
Una precisazione riguardante l’ortografia: in diversi nomi riportati nella storia, è presente il suono “o-lunga”. Esso può essere traslitterato dal giapponese utilizzando sia la forma “ou” sia la forma “ō”. Solitamente nei sottotitoli è utilizzata la prima scrittura, ma per questa storia ho deciso di usare la seconda, perché leggermente più elegante a vedersi.
 
Una breve nota esplicativa riguardante l’ambientazione: Questa storia è ambientata, seppur con qualche piccola licenza personale, nella linea temporale dalla quale proviene Suzuha. O meglio, è ambientata in una linea ispirata a quella di Suzuha, poiché gran parte degli eventi a cui si fa riferimento in questa storia non sono narrati esplicitamente nell’anime, e dunque sono stati ricostruiti da me in un modo che spero possa risultare realistico.
Nell’anime, è raccontato a grandi linee che, in tale timeline, Kurisu è colei che crea la macchina del tempo utilizzata dal SERN per stabilire la propria dittatura, mentre Okabe è il leader della resistenza; sempre secondo il racconto di Suzuha, entrambi sono uccisi nell’anno 2034.
Questa fanfiction è ispirata a tale sintesi, con l’aggiunta di dettagli e situazioni non narrati nella serie e inventati ai fini della storia: poiché non sono raccontate né le modalità della morte di Kurisu e Okabe, né le condizioni che portano Kurisu a costruire la macchina del tempo per il SERN, ho tentato di ricostruire in modo personale e arbitrario una situazione che mi auguro possa essere plausibile come “base” non narrata degli eventi che invece sono mostrati o spiegati nel canon.
In questa storia, dunque, Kurisu è costretta a collaborare con il SERN dopo essere stata catturata e imprigionata da esso, fino al momento in cui, non più necessaria all’organizzazione e vista come possibile fonte di futuri problemi, viene giustiziata.

 
Ci incontreremo dove muore il tempo
 
 
«Kurisu».
Una voce si espande nell’infinito.
Puoi vedere davanti a te il suono che serpeggia fra le stelle e i pianeti, danzando attraverso il nulla.
Al suo passaggio, il vuoto si agita un po’.
Come i cerchi nell’acqua quando getti un sasso, pensi.
Ed è un pensiero sciocco, perché un suono non può increspare il nulla.
«Kurisu».
Il vuoto trema attorno a te, e il tuo corpo lo imita. Un singolo brivido ti attraversa la schiena e ti ruba l’aria dai polmoni.
C’è qualcuno, nel vuoto.
E ti sta chiamando.
«La fine si sta avvicinando. Aiutami».
C’è una supernova, in lontananza. Odi il gemito della stella morente, senti la sua energia che crepita mentre consuma se stessa.
Ma è remota, così dolorosamente irraggiungibile.
Non posso aiutarti, sussurri alla supernova, senza muovere le labbra.
«Io sono te» risponde la stella.
La supernova brucia e brucia davanti ai tuoi occhi. È vicinissima, ora. Puoi sentire i nuclei scontrarsi e spezzarsi e fondersi al suo interno.
«Stai per morire, Kurisu».
Allunghi la mano, immergendola nella luce che freme e pulsa e si contorce. Vedi la pelle dissolversi, frammenti pallidi che si disperdono nell’universo.
Occhi tristi ti guardano fra le fiamme – non sono nemmeno fiamme, ti correggi, lo sembrano soltanto.
Sono occhi azzurri – no, blu, come il cielo notturno prima di una tempesta.
Sono i tuoi occhi.
Il tuo viso prende forma nella luce.
Non ha contorni, sfocato e lontano: come una fotografia sbiadita, coperta da un vetro opaco.
«Io sono te» ripete la voce, e vedi le labbra – le tue stesse labbra, come se stessi osservando il tuo riflesso in uno specchio che non obbedisce alla tua volontà – incresparsi e muoversi a ritmo con le parole che ne fuoriescono. «E questo è l’ultimo giorno in cui esisteremo in questo tempo. Domani, moriremo. Questa è la vigilia della fine di Kurisu Makise».
«Non puoi essere me. È impossibile» protesti. La tua stessa voce ti suona estranea, distante; sembra più reale quella dell’altra – l’altra Kurisu, l’altra te stessa che ti guarda in mezzo a una supernova che arde e geme e muore.
«Kurisu Makise, madre della macchina del tempo, c’è ancora posto nella tua mente per l’impossibile
Un sorriso senza corpo.
«Cosa vuoi da me? Se sei me… Mi hai chiesto di aiutarti. Cosa vuoi?»
«Permetterti di dire addio».
Gli occhi dell’altra te si chiudono all’improvviso.
La luce ti avvolge e ti attraversa. Urli, mentre il calore ti scotta la pelle e separa le tue molecole e disperde i tuoi atomi nell’oscurità che cala sui tuoi occhi.
In un istante, ogni cosa è tenebra.
«Sei arrivata».
È un sospiro più che una voce quello che squarcia l’immobilità. Non suona come la tua voce – nemmeno come quella dell’altra te.
È bassa… e disperata.
È terribilmente familiare, e al contempo diversa da qualunque cosa tu abbia mai udito.
È così triste: non può appartenere a lui una voce tanto infelice.
Perché è così tremendamente simile alla sua?
«Okabe?» domandi. Ci sono solo tenebre, nei tuoi occhi, e un silenzio che rimbomba, terrificante, nelle tue orecchie.
«Sei arrivata davvero» ripete, ed è la sua voce, sai che è la sua: non può appartenere a nessun altro. Immensamente triste, come se avesse abbandonato da tempo ogni speranza. E stupita, con la sorpresa di chi ha creduto in un ultimo, folle miracolo che, alla fine e solo alla fine, si è avverato.
Ride.                          
Scoppia a ridere all’improvviso, e il suono si propaga: riecheggia fra le stelle e i pianeti che non puoi più vedere, ma che devono esistere ancora attorno a te, nascosti.
Chiudi gli occhi, mentre la sua risata ti conduce lontano, indietro nel tempo. Ti porta a quando eravate giovani e credevate di poter cambiare il mondo, stringendo il tempo fra le dita e convincendovi di essere invincibili.
A quando credevate ancora di potervi amare.
Quando riapri gli occhi, le tenebre sono scomparse.
Vedi il cielo, nuvole candide che si gettano fra le onde che gorgogliano sotto di te. Sei in piedi sull’orlo di una scogliera, il mare che ruggisce ai tuoi piedi.
C’è un uomo accanto a te.
Non l’hai mai visto così – il volto che affiora dai tuoi ricordi e si sovrappone al suo sembra così giovane, a confronto con quello che puoi osservare con i tuoi occhi –, ma lo riconosci all’istante.
Sembra passata un’eternità – forse è davvero così, in un certo senso.
«Sei tu» bisbigli, e le tue parole sono inghiottite dal ruggito delle onde e soffocate dal nodo che ti serra la gola.
Okabe allunga una mano verso il tuo volto. Leggi nei suoi occhi l’esitazione, il timore disperato che, tentando di sfiorare la tua pelle, le sue dita possano incontrare il vuoto.
Afferri la sua mano a mezz’aria, stringendola con forza nella tua.
«Sono io».
Okabe scoppia a ridere di nuovo. Ti guarda e ride, gli occhi fissi su di te, come se tutto fosse semplicemente troppo.
«Cosa c’è da ridere?» gli domandi, e all’improvviso sembra di essere tornata ai tempi del laboratorio, quando il mondo aveva ancora senso e tu fingevi di non provare nulla e ti chiudevi in te stessa, perché era più semplice così.
«Sei invecchiata» risponde semplicemente Okabe.
È surreale.
La sua mano nella tua, la sua pelle così calde e vera, il mare che brontola sotto di voi.
E Okabe, che è ancora così terribilmente se stesso, nonostante gli anni che, crudelmente, vi dividono.
«E tu sei sempre un idiota» lo rimproveri, senza lasciare andare la sua mano.
«Pensavo che non…» comincia, ma s’interrompe. Si morde un labbro, mentre il suo sguardo sfugge al tuo.
«Lo pensavo anch’io».
Aspetti.
Attendi che dica qualcosa di sciocco, che rovini ogni cosa. Che ti chiami “Christina” o che scoppi a ridere ancora. Che si avvolga in uno dei suoi bizzarri camici e si perda in quei vaneggiamenti un po’ folli che gli davano una missione, uno scopo.
Ma sono trascorsi troppi anni, e avete entrambi visto troppo: decenni interi e una guerra vi separano da quei giorni, che non torneranno più.
Sembra così ordinario, con quegli occhi tristi e increduli che si posano su di te e paiono voler memorizzare ogni piega del tuo sorriso, ogni curva del tuo volto.
«Così,» cominci, le parole che incespicano un po’ sulle tue labbra «siamo arrivati alla fine».
Non è una domanda.
Lasci andare la sua mano, scoprendo che farlo è quasi doloroso, e ti siedi sull’orlo della scogliera.
«Sarò giustiziata domani» prosegui.
Okabe è in piedi alle tue spalle, ma puoi sentirlo irrigidirsi.
«Non ho paura. E non è colpa tua».
«Non posso salvarti» risponde. Fa male cogliere l’incredulità nella sua voce: come se lui, per primo, non potesse credere di essere tanto impotente.
«Non ti ho mai chiesto di farlo».
Ti mordi il labbro, pentendoti all’istante delle tue parole: non avresti voluto che suonassero così brusche, né così definitive.
«Ma… sono felice di rivederti» aggiungi, esitando per un attimo soltanto.
Senti un fruscio, mentre l’uomo si siede accanto a te. Scorgi il suo sorriso con la coda dell’occhio, e ti scopri a imitare la sua espressione.
«Credi che in un’altra linea temporale le cose siano andate diversamente? Che esistano un Okabe e una Kurisu, da qualche parte, che siano riusciti a sconfiggere il SERN?» gli chiedi, la domanda che sfugge dalle tue labbra prima che tu possa fermarla.
«Ne sono convinto».
«Cosa credi stiano facendo, in questo momento?»
«Chissà. Magari si sono sposati».
Senti le guance bruciare, mentre il tuo sguardo corre lontano dal suo.
«Non dire sciocchezze» lo rimbrotti, incrociando le braccia.
«Scherzavo, scherzavo» si difende, alzando goffamente le mani in segno di resa. «Credo che abbiano salvato tutti. Daru, Mayuri. Anche Moeka e il Signor Braun. E che siano ancora tutti insieme, in un laboratorio più grande. Mi domando a quale numero siano arrivati i loro Gadget Futuristici. Dev’essere un numero altissimo.»
Ti scopri a sorridere con più dolcezza, la malinconia che ti fa increspare le labbra.
«Credi che siano felici?»
«Sì. Devono esserlo».
«Lo credo anch’io».
Per qualche istante, rimanete entrambi in silenzio. Il vento si insinua fra voi, soffiando sulla vostra pelle. Sembra così reale, ma non può esserlo.
«Avremmo potuto essere noi. Se le cose fossero andate diversamente, se non ci fossimo incontrati quel giorno, in quel modo…»
«Anche se non ci fossimo incontrati quel giorno, tutto sarebbe andato nello stesso modo».
Okabe sembra parlare con il mare, mentre il suo sguardo si perde fra le onde. «Ci siamo incontrati perché doveva succedere, e anche se non fosse stato quel giorno, prima o poi ci saremmo sicuramente incontrati da qualche parte. Il fatto che siamo qui ne è la prova».
Alzi lo sguardo su di lui.
«Siamo qui, Kurisu. Alla fine di ogni cosa, in un luogo che non esiste. Qui, dove muore il tempo. In un luogo impossibile, in un istante impossibile. Non ci saremmo dovuti incontrare di nuovo, ma tu sei qui. Sei qui, ora».
«Non è impossibile. Le probabilità…» inizi, ma la voce ti muore in gola. C’è qualcosa, nei suoi occhi, che ti ferma. Senti che un particolare essenziale ti sta sfuggendo, e non riesci ad afferrare un pensiero che indugia ai margini nella tua mente e corre via.
L’uomo scuote la testa.
«In che mese siamo?» domanda.                                       
«Giugno» rispondi, confusa. «Ma cosa c’entra?»
«Sono stato catturato dal SERN, Kurisu».
«No. Non è vero. L’avrei saputo».
«Sono stato giustiziato tre mesi fa».
Scuoti la testa.
«No».
«Kurisu…»
«No».
All’improvviso il mondo trema e si fa sfocato davanti ai tuoi occhi. Hai bisogno di un istante per capire che sono le lacrime che si impigliano nelle tue ciglia ad annebbiare il tuo sguardo.
«Non volevo farti piangere» bisbiglia Okabe, e senza preavviso le sue braccia sono intorno alle tue spalle e ti stringono contro il suo petto.
Affondi il viso nell’incavo del suo collo, mordendoti il labbro per soffocare i singhiozzi.
«Io sono qui. Non so come, ma sono qui. Sono davvero io. È come se il tempo si fosse piegato perché potessimo incontrarci di nuovo».
«Perché potessimo dirci addio» mormori, facendo eco alla voce della stella morente.
Lo senti annuire.
«Ti ho lasciato morire da solo. Non ho potuto dirti addio quando ti hanno ucciso».
«No. Non sono mai stato solo, Kurisu. È questo il punto. È questo il significato di tutto, la ragione per la quale ogni cosa è accaduta. È per questo che tu sei qui, ora. Perché io non sono mai stato solo, dal momento in cui ti ho conosciuta, e non potrò più esserlo».
«Sei ancora così sentimentale» mormori, scoprendoti ad abbassare lo sguardo come una ragazzina.
Okabe allunga di nuovo una mano, appoggiandola sulla tua nuca. Fa scorrere le dita fra i tuoi capelli, mentre il suo sguardo si perde nel tuo.
Rimani in silenzio, riempiendoti le orecchie del fruscio delle sue dita fra i tuoi capelli.
È questa, la fine?
È perdersi in un’illusione, cullata dalla voce di un uomo che non esiste più?
Non lo vedrai più. Il pensiero ti colpisce con la forza di uno sparo in pieno petto, strappandoti l’aria dalle labbra.
Non lo vedrai più, come non vedrai più il sole e il mare e il suolo.
Non ci sarà un’altra alba nel tuo futuro, né un altro tramonto.
È la fine.
«Ho paura» bisbigli.
Non l’avevi ammesso quando, infiniti anni addietro, avevi accettato di sacrificare la tua vita per salvare quella di Mayuri.
Non pensavi di averne ancora, negli anfratti della tua psiche. Ma ora la paura ruggisce nella tua mente, perché non vuoi perdere il mondo e l’universo e te stessa.
Perché morire è spaventoso, e lo è ancora di più sapere che ogni ricordo, ogni pensiero, ogni conoscenza raccolti nella tua mente svaniranno come se non fossero mai esistiti.
Chi proteggerà dal tempo distruttore il ricordo degli occhi di Okabe o del suono della sua voce che proclamava di essere Hōōin Kyōma, scienziato pazzo?
Chi conserverà la memoria di un bacio rubato mentre, oltre le finestre, il cielo piangeva, o delle vostre dita intrecciate mentre il Sole moriva oltre i confini dell’arido paesaggio americano?
«Lo so».
Ti stringe più forte a sé, appoggiando le labbra sui tuoi capelli.
«È per questo che sono qui».
«Per dire addio. Lo so».
«No. Per dirti che non è un addio. Che ci saranno sempre una Kurisu Makise e un Okabe Rintarō, da qualche parte nel tempo, che sopravvivranno a noi.»
Annuisci, asciugandoti gli occhi con il dorso della mano.
«Credo che tu abbia ragione».
Okabe ride piano.
«Quante linee temporali ci sono volute, perché tu mi dessi ragione?»
«Troppe».
Il silenzio si dilata nel tempo.
Non vuoi che venga infranto. Vorresti afferrare l’istante che ti sfugge fra le dita e tenerlo stretto, proteggendolo dal flusso del tempo che scorre come un fiume in piena.
Un’eternità dopo, Okabe spezza il silenzio.
«Kurisu, se questa è davvero la fine per te – per questa te… Se questo è davvero il tuo ultimo giorno, vuoi davvero trascorrerlo dormendo? Forse dovresti svegliarti, ora».
«Sognando» lo correggi. «Non dormendo».
Affondi nel calore delle sue braccia, mentre una lacrima solitaria ti bagna la pelle.
Guardi il mare e ti riempi la mente del respiro di Okabe che ti solletica la fronte. Ascolti il battito del suo cuore e imprimi nella tua memoria la sensazione delle sue labbra sui tuoi capelli.
Alzi lo sguardo sul suo viso un’ultima volta.
«Chiudi gli occhi» mormora Okabe nei tuoi capelli.
Una risata sfugge alle tue labbra, ma un singhiozzo la spezza.
«Era la mia battuta» bisbiglia la tua voce.
Ti amo, sussurra la tua mente.
Chiudi gli occhi.
 
*
 
È il rumore di una porta che si chiude con un tonfo a svegliarti.
Moeka ti osserva, lo sguardo vuoto dietro le lenti degli occhiali. È ferma sulla porta della cella, mentre tende una mano verso di te.
«Kurisu Makise, vieni con me. È ora di morire.»



 
   
 
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