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Autore: Padme Undomiel    26/12/2015    3 recensioni
“Una slitta che vola trainata da renne, un uomo misterioso che ogni anno tira fuori regali su regali che a quanto pare vengono creati dal nulla senza doversi procacciare materia prima … quasi quasi aveva più senso credere che si trattasse di trasmutazione senza scambio equivalente. Ma questo vecchio che porta regali dal cielo? Totalmente antiscientifico. Questo si chiama credere nei miracoli.”
“C’è un altro modo di vedere le cose, però, e forse questo ti convincerebbe di più”, fece Al all’improvviso, come colto da un’ispirazione.
Ed lo guardò con curiosità. “Sarebbe a dire?”
“Scambio equivalente.”
“Scambio equivalente?” Passando dallo sconcerto al sospetto, il maggiore si accigliò. “Mi prendi in giro? Abbiamo appena stabilito che l’alchimia non c’entra nulla con questa festività!”
“No, non c’entra, ma i bambini sanno che possono aspettarsi i regali se saranno molto buoni. Vale a dire che devono guadagnarseli, quei regali. Lo vedi che ha senso?” Al si voltò verso di lui, entusiasta. “E’ una Festa dello Scambio Equivalente!”
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I long for something that’s safe and warm
But all I have is all that is gone
I’m as helpless and as hopeless as a feather on the Clyde
 
 









 
 
“Al.”
“Mh?”
“Questa è la volta buona che lo ammazzo.”
C’era un freddo maledetto che penetrava nelle ossa, e a risentirne era soprattutto il fascio di nervi collegato agli automail del braccio e della gamba: aveva l’impressione che le protesi meccaniche alle quali Winry teneva tanto sarebbero cadute in pezzi in quel preciso momento, semplicemente troppo ghiacciate per star su. L’aria che respirava si condensava in nuvolette, e persino le dita sane coperte dai guanti bianchi riuscivano a risentire del freddo che si infilava nelle trame del tessuto.
Forse era per questo che bambini dal naso e dalle guance arrossate giocavano e saltavano dappertutto, in mezzo alla neve, o donne e uomini si affannavano dentro e fuori i negozi illuminati sempre più carichi di bagagli da trasportare. Fare attività fisica magari aiutava a vincere quel gelo.
Se le temperature a Briggs erano davvero peggiori di questa, non ci avrebbe mai messo piede, grazie tante.
“Questa volta lo ammazzo davvero”, esclamò Edward Elric a gran voce, rabbrividendo ad un nuovo refolo di vento che rischiò di fargli cadere giù dalla testa il cappuccio.
L’armatura imponente al suo fianco emise un sospiro rassegnato, chinando un po’ l’elmetto verso il basso. Non poteva percepire il freddo come lui, ma nelle movenze era comunque fin troppo umano.
“Lo hai già detto, fratellone”, replicò suo fratello Alphonse con la sua voce metallica, guardandolo con i suoi occhi fatti di luce. “Più di una volta.”
“Beh, perché stavolta puoi star certo che lo farò!” Ed sbuffò sonoramente, infilando di nuovo la mano nel sacchetto di carta che reggeva con l’automail e tirando fuori un altro biscotto, che masticò e inghiottì in pochi istanti. “E che non ti venga in mente di fermarmi come l’ultima volta, Al. Motivazioni sciocche come sei circondato da militari che ti toglierebbero il titolo di Alchimista di Stato, o peggio ancora uccidere è un reato non saranno minimamente accettate!”
“Non sono motivazioni sciocche! E tu non dovresti mangiare così tanto”, Al sospirò di nuovo, come se sapesse già che era una causa persa. “Farai di nuovo indigestione.”
In tutta risposta, Ed inghiottì due biscotti di seguito. “E secondo te non è, di nuovo, colpa sua se ho i crampi allo stomaco?”
“Se ti fa male lo stomaco dovresti lasciar stare i biscotti …”
“Non mi fa male, si tratta di crampi. E’ una sensazione simile alla voglia di divorare qualcosa, mi spiego?” Ed frugò dentro la bustina, e la trovò vuota. Con disappunto, si disse che quei biscottini allo zenzero erano stati l’unica cosa buona di quel viaggio inconcludente, e accartocciata la bustina la buttò nel cestino. “Maledetto Mustang. Maledetto, inutile Mustang. Scommetto che se ne sta col suo sorrisino irritante al quartier generale, tutto contento di averci mandato in questo paesino sperduto nel nulla che non fa che sbrilluccicare di continuo senza darci quel che davvero cerchiamo! Solo a pensarci mi sale il nervoso.”
Le luci erano ovunque: sulle insegne dei negozi, sui tetti delle case, persino intorno agli alberi dalle foglie con la forma di aghi. E brillavano in modo continuo, quasi pavoneggiandosi, intermittenti e colorate e portatrici di un curioso clima di festa che sembrava contagiare tutti senza che ve ne fosse un motivo apparente. Anche volendo smettere di guardarle, non c’era modo di farlo: gli occhi del ragazzo le individuavano prima ancora che la sua mente glielo impedisse, e lui si trovava a fissarle distrattamente, ipnotizzato da quel caleidoscopio colorato.
“Dammi retta: il Colonnello si era del tutto scordato di dover lavorare per noi. L’hai vista la sua faccia quando mi sono presentato nel suo ufficio e ho preteso la pista da seguire che ci aveva promesso? Ora capisco perché si è pietrificato con quell’espressione idiota: si è scordato di fare ricerche come si deve. E certo, io sgobbo per lui e lui si dimentica di fare ricerche. Figurarsi se poi gli viene in mente di chiedere scusa, macché: si permette pure di atteggiarsi a grand’uomo, prendendo tempo, cianciando su quanto dovremmo essergli grati per il suo duro lavoro e sorridendo smagliante, mentre il Tenente Hawkeye in tutta fretta tira fuori il primo documento che le capita a tiro e glielo rifila, sperando si tratti di una pista sensata e non di mere briciole per passerotti. Indovina un po’ di cosa si trattava stavolta? Briciole. Microscopiche.” Oh, ma perché non aveva comprato più biscotti? Più pensava a Mustang, più i crampi si facevano intensi. “Pietra Filosofale un corno.”
“Però le luci sono belle.”
La semplicità di quel commento sommesso e meravigliato zittì Ed e le sue lamentele. Il ragazzo si voltò a guardare suo fratello, e non poté non notare la sua immobilità, il modo in cui sembrava rapito dallo spettacolo che aveva davanti agli occhi. Perfino la sua armatura brillava di luci riflesse, una curiosa nota di colore nell’anonimato abituale del metallo.
L’irritazione di Ed non poté che scemare, prima ancora che lui stesso avesse deciso se si era sfogato abbastanza o meno. Sbuffò, grattandosi il capo.
“Lo sarebbero di più se non fossero la manifestazione di una superstizione senza fondamento”, ribatté, comunque deciso a non ammettere che sì, erano belle. Più di quanto potesse sopportare. “Una slitta che vola trainata da renne, un uomo misterioso che ogni anno tira fuori regali su regali che a quanto pare vengono creati dal nulla senza doversi procacciare materia prima … quasi quasi aveva più senso credere che si trattasse di trasmutazione senza scambio equivalente. Ma questo vecchio che porta regali dal cielo? Totalmente antiscientifico. Questo si chiama credere nei miracoli.”
“E’ solo una tradizione, fratellone. Siamo noi che lo abbiamo interpretato come qualcosa di diverso. E poi”, Al si voltò verso una mamma poco distante, trascinata dal suo bambino verso una vetrina straripante di peluche, che sorrideva del suo tenero entusiasmo. “I grandi non ci credono davvero. Raccontano questa storia ai bambini per farli sognare un po’. E’ davvero così sbagliato donare a qualcuno un miracolo in cui credere?”
“Sì che lo è. Perché la vita finirà per deluderli, prima o poi.”
Mormorare quella frase ebbe il potere di rendere stranamente alienante il suono gioioso delle risate dei bambini che si lanciavano palle di neve per gioco, dei gruppetti che cantavano in coro agli angoli delle strade, delle carole che provenivano dai negozi ogni volta che qualcuno apriva e chiudeva la porta. Sia Ed sia Al rimasero in silenzio ad ascoltare il peso del disincanto, sufficientemente lontani dal viavai del paesino per poterlo osservare come se fossero al di là di un vetro.
“C’è un altro modo di vedere le cose, però, e forse questo ti convincerebbe di più”, fece Al all’improvviso, come colto da un’ispirazione.
Ed lo guardò con curiosità. “Sarebbe a dire?”
“Scambio equivalente.”
Scambio equivalente?” Passando dallo sconcerto al sospetto, il maggiore si accigliò. “Mi prendi in giro? Abbiamo appena stabilito che l’alchimia non c’entra nulla con questa festività!”
“No, non c’entra, ma i bambini sanno che possono aspettarsi i regali se saranno molto buoni. Vale a dire che devono guadagnarseli, quei regali. Lo vedi che ha senso?” Al si voltò verso di lui, entusiasta. “E’ una Festa dello Scambio Equivalente!”
“Ehi …” A Ed venne da sorridere, incredulo. “Ma si può sapere perché vuoi farmela piacere per forza? Che ti importa di questa festa?”
Al rise imbarazzato, portandosi una mano dietro la testa. “Hai ragione, scusami. Non so cosa mi è preso.”
“Ti sei fatto contagiare da questa follia collettiva, di’ la verità”, lo prese in giro Ed.
“Può darsi.” Il tono di Al tornò a farsi pensieroso. “E’ che … a stare qui a guardare te ne viene voglia. Intendo, di avere qualcuno a cui fare regali, per ringraziarlo di essere stato buono con te.”
Ed sentì il cuore, nel petto, stringersi in una morsa dolorosa, e il sorriso svanire.
Era un desiderio di calore, di focolare domestico, di amore e condivisione, che stava riempiendo Al di malinconia: lo sapeva per certo. Lo sapeva, perché poteva capirlo.
Il problema col venire a contatto con una gioia intensa che non si prova è proprio questo: uno ne viene contagiato, al pari di una malattia. E finisce per soffrirne.
Accidenti. Era poi servito a qualcosa bruciare la loro casa, se si verificavano episodi simili?
“Aspettami qui.” Disse a suo fratello di punto in bianco, e incurante delle sue richieste di spiegazioni corse via, immergendosi in quel viavai di gente, di colori, di carole, di luci, alla ricerca di un oggetto ben preciso.
Quando ritornò indietro, non disse nulla. Tirò Al verso il basso –perché Al era troppo alto, non perché lui era … beh … la sua altezza non c’entrava nulla, ecco-, e con un movimento deciso gli mise sulla testa un cappello rosso con un buffo pon-pon bianco all’estremità.
“Fratellone? Che ti è preso?” Fece Al spaesato, toccandosi il cappello esitante.
Ed sbuffò, le mani in tasca, e si mise a guardare altrove. “E’ un regalo. Così la smetti di essere depresso.”
“Un … regalo? Per me?” La voce di Al era stupidamente commossa, come se fosse chissà quale  cosa strana che suo fratello maggiore potesse volergli fare un regalo.
Mascherò il suo sorriso con un ghignetto furbo, mentre lo guardava pieno di aspettativa. “Beh? Non dovresti ricambiare? Scambio equivalente, ricordi?” Fece, con tono saputo. “Che ne pensi di comprarmi altri biscotti allo zenzero? Erano particolarmente buoni!”
“Ancora biscotti? Fratellone, sei impossibile”, sospirò Al, ma la sua voce sorrideva, finalmente. E in ogni caso si avviò verso la bancarella dei biscotti senza protestare. “Poi non dire che non ti avevo avvertito, se ti toccherà di nuovo una puntura.”
“Non dire quella parola davanti a me!”
Al continuò a sgridarlo bonariamente, ma Ed era distratto. Sentiva ancora nelle orecchie quelle carole allegre, e il vociare dei bambini.
Si voltò indietro, un’ultima volta.
Il paesino brillava, incurante, luminoso come una stella, e lui sentì la gola stringersi fermamente in una morsa dolorosa.
Festa dello Scambio Equivalente … eh?
 
***
 
“Quando sarò Comandante Supremo potrò dire addio a compiti ingrati come questo.”
I corridoi del quartier generale erano ormai semivuoti, e non c’era da stupirsene. I pochi militari che ancora  si muovevano di ufficio in ufficio, soffocando sbadigli e con lo sguardo distratto di chi pensa tetramente che la notte è ancora lunga da trascorrere, non si fermavano a chiacchierare tra loro se non per pura necessità: orari del genere non invogliavano certo a prendersi pause occasionali, a favore di una maggiore produttività che avrebbe permesso a tutti di terminare in fretta le loro occupazioni e tornare finalmente a casa.
Se solo non si fosse sentito mortalmente sollevato all’idea che quella notte sgobbare non sarebbe toccato a lui, Roy Mustang avrebbe provato compassione per quei poveri nottambuli.
Al suo fianco come sempre, Riza Hawkeye non mancò di sospirare. “Fossi in lei non direi cose del genere ad alta voce, Colonnello.”, lo rimproverò. Sul viso portava qualche segno della giornataccia appena trascorsa – il colorito un po’ pallido, le occhiaie in contrasto con esso, l’espressione affaticata-, ma i suoi occhi castani erano decisamente svegli e penetranti quando si posarono su di lui. Non che ci si potesse aspettare diversamente da lei.
“Non ci sente nessuno, Tenente.” Roy si tolse i guanti dalle mani, solenne come se si stesse liberando di un pesante fardello. “Non è questione di mal sopportare la fatica, né di sottovalutare le responsabilità che un Comandante Supremo deve gestire giornalmente. E’ solo che preferisco nettamente le sue responsabilità alle mie. A lui spettano strategie e pianificazioni, mentre io per ora devo accontentarmi di dare la caccia a dinamitardi che posizionano ordigni esplosivi in giro per la città. Ma che noia.”
“Se la cosa la seccava tanto poteva anche non occuparsene.”
“E rinunciare ad un’occasione d’oro di mostrare loro le mie doti? L’abilità spicca dove gli altri falliscono. Specialmente se il compito non competeva i militari, in primo luogo.” Roy sbadigliò, intascando i guanti e gettando uno sguardo distratto all’orologio d’argento, che impietoso segnava un orario in cui sarebbe lecito star svegli solo in compagnia di un buon amico, o di una frequentazione interessante. “L’importante è che lo abbiamo preso, e questo non può che far bene alla mia immagine. Ricordami di offrire una birra a Hughes, in fondo è stato lui a suggerirmi di occuparmene di persona.”
“Vuole che lo segni in agenda?”
Roy si fermò in mezzo al corridoio. “Voglio che tu vada a casa”, le disse serio. “Posa le armi per stasera, Tenente. A fare rapporto ai piani alti basta solo una persona.”
Hawkeye non si scompose. “Ho resistito finora, posso resistere ancora il tempo di un rapporto.”
“Lo so che puoi. Potresti stare anche un mese intero senza dormire, non ne sarei sorpreso. Ma non lo farai, non stasera.” Roy la fissò, definitivo. “E’ un ordine.”
Il viso del Tenente si ammorbidì. “Perché non si mostra altrettanto sollecito quando deve firmare documenti?” Gli domandò, e sebbene fosse una domanda provocatoria, la sua voce si mantenne seria e professionale come sempre.
Roy fece un gran sorriso. “Quei documenti non meritano il mio tempo. Tu invece mi sei così indispensabile che per una volta dovrai concedermi l’onore di prendermi un po’ cura di te.”
Riza Hawkeye aveva un solo modo per reagire ai complimenti: soppesarli attentamente come si fa con le cose incomprensibili e forse un po’ inutili, per cercare di trovarci un senso.
Sbatté le palpebre, rifletté per un paio di secondi, sollevò la mano in un saluto militare. “Tutto questo non la esimerà domani dalle carte che dovrà supervisionare”, lo informò. “Buonanotte, Colonnello.”
E girando rapidamente i tacchi si voltò verso l’uscita.
Roy rise, scuotendo la testa. “Come se mi fossi aspettato un qualche tipo di sconto”, disse tra sé. Poi sospirò, ricordandosi che solamente un rapporto lo separava dalla tranquillità del suo appartamento, e da un buon sonno ristoratore: facendosi forza con quel pensiero, si incamminò verso l’ufficio del Generale Grumman.
Solo per arrestarsi bruscamente quando passò davanti al suo ufficio.
Si accostò con le spalle contro il muro, gli occhi stretti e i sensi in allerta. Non si era ingannato: la porta della stanza era socchiusa.
Roy non lasciava mai la porta socchiusa quando usciva.
Fece un rapido esame della situazione. C’era qualcuno nel suo ufficio, nel cuore della notte, che probabilmente non si aspettava che sarebbe rientrato al quartier generale prima dell’indomani. Se era così informato sui suoi spostamenti, non poteva che essere un militare. E un militare che si introduce in un ufficio chiuso senza permesso sicuramente ha cattive intenzioni.
Cattive intenzioni e pessimo tempismo, perché era stato scoperto.
Il meritato riposo avrebbe dovuto aspettare, si disse Roy, indossando i guanti e avvicinandosi cautamente alla porta.
Qualcuno borbottava, lì dentro. C’erano dei borbottii sommessi e quasi inudibili, come di qualcuno immerso in un bisticcio, ma per quanto ci stesse attento non riusciva a distinguere le parole.
Beh, grandioso. Dovevano capitargli anche intrusi imbranati che bisticciavano poco saggiamente durante una missione di sabotaggio. Era proprio fortunato quel giorno.
Se non altro se la sarebbe sbrigata in poco tempo, decise, e aperta la porta di scatto si introdusse nell’ufficio.
Non ci pensò due volte, a puntare la mano inguantata verso la figura a stento distinguibile nell’ombra, quando questa fece uno scatto verso di lui, con l’intento probabile di aggredirlo. Aveva avuto intenzione di accendere la luce, di sorridere, di mettere con le spalle al muro il suo intruso e osservare impassibile il suo disagio e la sua colpa colare in gocce di sudore lungo le sue tempie e sotto il suo mento, ma in tutta onestà fu quasi grato a quella figura non identificata di aver abbandonato giochi e maschere, e di aver deciso di affrontarlo senza sotterfugi o falsa cordialità. Di sorrisi falsi e complotti sottobanco ne aveva fin troppi ogni giorno.
E sarebbe stato persino disposto a schioccare le dita, illuminare il buio di quella stanza con le fiamme della sua alchimia, se solo la porta semiaperta dietro di loro non avesse fatto entrare un raggio di luce, e lui non avesse scorto la punta acuminata di un automail trasmutato puntare dritta verso il suo collo.
E forse la luce illuminò anche la sua stessa fisionomia, perché l’automail si arrestò di colpo, un sussulto soffocato risuonò nella penombra, e nell’ufficio nessuno si mosse più.
Roy se ne stette per qualche istante in silenzio, ascoltando con attenzione il suono quasi impercettibile ed effimero del respiro un po’ affannato del suo aggressore non più così anonimo.
Infine sorrise. “Così impaziente di vedermi da non poter aspettare domani per il rapporto, Acciaio?”
L’automail sparì, e al suo posto comparve Edward.
“Accidenti, Colonnello! Mi è preso un colpo”, arrivò la sua voce irata, in un lampo di denti bianchi e occhi dardeggianti. Gli era finita una ciocca sul viso, e dall’ombra una mano frettolosa giunse a metterla nuovamente dietro l’orecchio. “Le pare il modo di irrompere nell’ufficio? Avrei potuto ucciderla.”
“Carino da parte tua suggerirmi le esatte parole che avrei dovuto usare io. L’ufficio è il mio, sai.” Si guardò attorno, gli occhi che pian piano si abituavano all’oscurità. “E comunque non illuderti, non avresti potuto uccidermi neanche provandoci con tutte le tue forze. Ma parli da solo?”
“Eh?” Fece Edward, già sulla difensiva.
“Fai il chiasso di due uomini insieme, ti si sentiva borbottare a miglia di distanza. Come spia segreta saresti pessimo.”
“Io non faccio chiasso!” Sbraitò il ragazzo in risposta, salvo poi accorgersi che con l’ultima esclamazione si era scavato la fossa da solo. Si zittì, lo guardò male, distolse lo sguardo. Probabilmente era anche arrossito, chi poteva dirlo. In quella penombra il rossore era difficile da scorgere, al contrario del troppo dorato che riluceva, a dispetto di qualsiasi oscurità, tra le ciocche di capelli che passavano davanti al viso di Edward ad ogni minimo movimento.
Roy lo osservò con più attenzione, le sopracciglia aggrottate.
“Sono curioso. Come hai intenzione di giustificare la tua presenza qui?”
Roy era abituato a decifrare la minima contrazione di labbra, o dilatazione di pupilla, o tensione nelle spalle, nel viso dei suoi interlocutori: politica e strategia è anche questo, e lui era bravo a smascherare quanto a difendersi dietro una corazza inattaccabile. Per questo restava sempre un po’ sorpreso dalla trasparenza dolorosa che era il viso di Edward Elric: vi leggevi dentro qualunque cosa, e non dovevi neanche sforzarti. Eri quasi invaso dalle sue emozioni.
Lo vide sbattere le palpebre ripetutamente, aprire la bocca e richiuderla, imbronciarsi arricciando le labbra e guardarsi i piedi come se fossero chissà quanto interessanti, e lui si sorprese, perché non capitava spesso di vedere l’Alchimista d’Acciaio così terribilmente a disagio. Era curioso persino per i suoi standard – solo lui sapeva quanto fosse divertente farlo sentire a disagio, ci provava ogni volta che poteva senza poterselo impedire.
“Non ho intenzione di giustificarla.” Rispose a muso duro.
“No?” Roy inarcò un sopracciglio. “Mi costringi a chiedermi se tu non abbia cercato di derubarmi nel mio ufficio.”
“Non sono un ladro!” Fu la sua difesa oltraggiata.
“O di lasciarmi una lettera d’amore.”
“Una le-” La voce di Edward si sollevò di un paio di ottave, stridula. “Che problemi ha?!”
“Non si sa mai. Capita spesso.”
“Le dico io, cosa capita spesso!” Edward si mosse, e per un momento Roy credette che gli sarebbe balzato addosso di nuovo. Ma si sbagliava: curiosamente il suo bersaglio pareva essere uno dei due divanetti posizionati davanti alla scrivania.
Afferrò qualcosa che era posato sul cuscino del divanetto, un oggetto dalla forma simil-sferica non meglio identificato che sembrava stare nel palmo della sua mano. Prima che Roy potesse fare una qualsiasi domanda al riguardo, il ragazzo si era già voltato di scatto verso di lui, l’espressione battagliera, e glielo aveva tirato contro con tutta la forza che era riuscito a racimolare.
Se Roy lo afferrò fu solo grazie ai suoi riflessi: aveva rischiato seriamente di vederselo arrivare in faccia.
“Capita spesso che uno stramaledetto Colonnello idiota ci mandi in giro per il mondo a inseguire piste fasulle, facendoci perdere tempo! Ecco, eccola lì, la sua Pietra Filosofale! Se volevo delle lucine colorate potevo comprarle da qualsiasi altra parte, non le pare? Se le tenga pure, io non so che farmene!”
Lucine?
Roy guardò con occhio critico il groviglio informe di fili che aveva tra le mani. Se ci stava particolarmente attento poteva riconoscere in quelle minuscole sferette delle lampadine, e forse da qualche parte c’era anche una spina da attaccare alla presa di corrente.
Le sollevò in alto, tenendole per la spina e portandosele davanti al viso. “Di che utilità può essere una palla piena di lucine microscopiche quando puoi comprare una lampada direttamente?” Domandò.
Fu uno di quei momenti in cui Edward lo guardava come se lui fosse uno strano animale marino.
“Ma quale palla piena di lucine! Sono solo tutte aggrovigliate”, gli spiegò, agitando una mano come a scacciare via l’idiozia della sua frase. “Deve sbrogliarle, no?”
“Prego? Sarebbe impossibile per chiunque sbrogliarle. E’ un lavoro da pazzi.” Ribatté Roy, sempre fissando accigliato quell’arnese.
“Ma per piacere! Se lei è impedito non è colpa mia.”
Affiancandolo a passo di carica, Edward gli strappò via l’intreccio di fili e, chinando il capo, cominciò a trafficare con le lucine. “Guardi, scommetto che ci riesco nel giro di – dove andrà quest’estremità?- nel giro di cinque minuti. Basta solo mettere questo qui, e quest’altro … vediamo …”
Prese a borbottare tra sé, perfettamente concentrato, come se si fosse scordato della sua presenza immobile al suo fianco. Ora che la luce del corridoio lo colpiva dritto in faccia, era più facile scorgere le ciglia che quasi toccavano gli zigomi, il contorno del suo viso, il labbro inferiore che si mordicchiava per la concentrazione, la treccia bionda che faceva capolino sul suo collo e sulle sue spalle ad ogni movimento.
Avrebbe potuto allungare una mano e toccarlo, e gli sarebbe parso ancora effimero e impalpabile. Edward non sembrava appartenere a quell’ufficio – non sembrava appartenere a quella dimensione, perfino. Con lui avevi sempre la sensazione che fosse sempre pronto a fuggir via, come un fiume impetuoso che non si ferma mai da nessuna parte, a meno di non arginarlo con una diga e soffocarlo.
Avrebbe voluto interpretare Edward Elric come riusciva ad interpretare le sue emozioni. Forse allora avrebbe saputo quando aspettarsi di vederlo fuggire, e quando di vederlo ritornare. Quando lasciarlo andar via e quando tentare di frenarlo ancora – di sentirlo concreto, di sentirlo invadere il suo mondo come aveva invaso il suo ufficio quella notte.
“No, aspetta, non così – da dove ho preso questo filo? Accidenti, e se provassi – no, no, per carità! Cavolo!”
“Qualcosa mi dice che hai peggiorato le cose”, osservò Roy, un sorriso che andava ad allargarsi sulle sue labbra mentre osservava la quantità di fili che si erano attorcigliati attorno alle dita di carne e di acciaio del ragazzo.
“Non è vero, ce l’ho quasi fatta!” Lo fulminò con lo sguardo Edward, piccato. “Se vuole saperlo ho trovato il filo giusto da tirare per liberare tutte le altre lucine! Stia a guardare.”
Raddrizzandosi orgoglioso, tirò platealmente un filo. Le lucine all’estremità opposta si serrarono ancora più strettamente tra loro, rendendo vano qualunque sforzo fatto fino a quel momento.
Roy scoppiò a ridere di cuore.
“Oh, lo sa che cosa le dico? Chi se ne importa! Se le tenga così e tanti saluti!” Edward, più indignato e umiliato che mai, gli scaraventò contro il petto il groviglio di luci che a stento era riuscito a districarsi dalle sue dita. “Se avessi una luce migliore gliele sbroglierei con un niente!”
“Non c’è motivo per non avere una luce migliore”, rispose Roy.
Guardò Edward, in piedi davanti a lui con le braccia incrociate e l’espressione diffidente di un animaletto selvatico messo con le spalle al muro.
Il Generale Grumman lo stava ancora aspettando nel suo ufficio, si ricordò. Aspettava ancora un suo rapporto.
Le sue spalle erano ancora doloranti, e chiedevano disperatamente un buon sonno ristoratore.
Edward, ignaro di tutto questo, lo fissava.
Non ci volle nulla a Roy per decidere.
Sorrise, sollevando le lucine da terra e mostrandogli la spina con aria significativa.
“Vediamo se almeno questo affare sa brillare come dovrebbe”, disse.
 
***
Mustang aveva chiuso la porta, e attaccato la spina delle lucine alla presa di corrente così com’erano, ingarbugliate e tutto, e ora sul pavimento dietro alla scrivania stava una specie di sfera deforme piena di colori intermittenti.
E stavano loro due, anche, intenti a sbrogliare quella matassa che quasi feriva loro gli occhi, tanto era luminosa.
“Io non capisco perché non accendere l’interruttore generale.” Fece Ed, lanciando uno sguardo di sottecchi all’uomo in divisa seduto accanto a lui.
“Oh, non trovi che l’atmosfera sia più intima così?” Rispose Mustang col suo sorrisetto idiota, senza sollevare lo sguardo dai fili che teneva tra le mani.
Ed lo fissò scettico. “Ho capito, sta cercando di non farsi trovare da qualcuno.”
Il sorriso dell’altro si allargò. “Su, su, Acciaio. Non vorrai che sbrogli tutto da solo? Sarebbe un duro colpo per il tuo orgoglio.”
Sbuffò, rituffando la testa nel lavoro, non fosse altro per non dargli la soddisfazione di aver ragione.
La sua spedizione notturna era andata a finire nel modo più strano possibile.
Contava di scappare a lavoro compiuto, e invece ora si trovava seduto per terra nell’ufficio di Roy Mustang, a occuparsi di un mucchio di maledette lucine che avrebbe distrutto con le sue mani, se fosse dipeso da lui.
Assieme a un Roy Mustang insolitamente disposto a sedersi sul pavimento accanto a lui per aiutarlo.
E poteva essere l’orario, poteva essere la penombra, poteva essere il motivo per il quale era entrato in quell’ufficio in primo luogo, poteva essere il fatto che lui e il Colonnello stessero collaborando e non litigando, per una volta, o ancora l’espressione di stropicciata stanchezza che segnava il viso del Colonnello e rendeva i suoi lineamenti curiosamente diversi dal solito, ma Ed si sentiva stranamente a disagio, e meno disposto a parlare del solito.
Mustang aveva tolto i guanti, e ora le sue dita apparivano e scomparivano in mezzo a quel groviglio di rosso verde e blu. “E così”, ruppe il silenzio, gli occhi neri concentrati sul suo lavoro. “Mi conviene portarti fuori strada tutte le volte, così poi ti viene voglia di farmi dei regali.”
Ed sussultò come se lo avessero colpito con un martello. “Ma che regali e regali!” Sbottò, le guance che lo tradivano incendiandosi. “Non ha capito niente, era per farle capire quanto ci ha mandati fuori strada con la Pietra!”
“E dovevi venire qui apposta nel cuore della notte, senza sapere nemmeno se ci fossi, solo per farmi capire che eravate fuori strada? Acciaio, avanti”, disse, una nota di zuccherosa supponenza che si di solito si usa nei confronti di un bambino ingenuo e un po’ tardo, che lo mandò in bestia. “Ti conviene cercarti una scusa migliore.”
Sorrideva troppo per i suoi gusti, il maledetto. Se avesse avuto le mani libere lo avrebbe strangolato con i fili delle lucine.
“Mi sono ricordato, ho fatto ricerche su questo paesino dopo che tu e Alphonse siete partiti. In onore della tradizione dell’anziano in rosso che porta regali, gli abitanti di quella zona si scambiano doni. Si tratta forse di uno di essi?” Perché accidenti stava usando quel tono così falsamente gioviale? Perché non poteva smettere di prenderlo in giro, per una volta? “E così anche l’Alchimista d’Acciaio è sensibile, dopotutto …”
“I regali erano per i suoi uomini!” Si arrese Ed, furibondo e imbarazzato.
Mustang lo fissò, l’espressione sorpresa.
Non c’era nulla da fare, nessun modo per evitare di parlarne. Il ragazzo prese a districare i fili con veemenza, lasciando che la frangia gli nascondesse parte del viso. “E si possono a stento chiamare veri regali. Sono un mucchio di sciocchezze colorate che trovavi praticamente ovunque andassi, in quel paesino. “ Ammise a bassissima voce, sperando che l’altro non lo sentisse. Avrebbe voluto andar via da quell’ufficio all’istante, ma sarebbe stato ancora più imbarazzante da sopportare di una confessione a mezza voce. “Sono venuto al quartier generale per lasciarli nei loro uffici.”
“Per i miei uomini?” Ripeté il Colonnello, che non aveva smesso un momento di fissarlo. “Perché?”
Già, se lo chiedeva anche Ed, il perché.
Se lo era chiesto anche giorni fa, quando era ancora in quel paesino, mentre nelle sue orecchie ancora riecheggiavano le parole malinconiche di Al, e inconsciamente si domandava a chi avrebbe fatto un regalo, se fosse stato un abitante di quella zona e avesse voluto celebrare quella Festa dello Scambio Equivalente.
Una serie di nomi e di visi erano balenati nella sua mente, a dispetto della sua stessa volontà di non indugiare oltre in quei pensieri. Winry, la nonna Pinako. I signori Hughes, e la piccola Elycia. E ancora il Sottotenente Havoc, e il Sottotenente Breda, e il Sergente Maggiore Fury, e il Maresciallo Falman, e il Tenente Hawkeye. Persino il Maggiore Armstrong.
Aveva sentito di essere debitore verso tutti loro. Sentiva che, se avesse dovuto fare dei regali a qualcuno per ringraziarli di aver fatto anche qualcosa di piccolo per lui e per Al, anche senza che nessuno glielo avesse chiesto, sarebbero stati loro.
Poteva fermarsi lì, darsi dello stupido per aver fatto il sentimentale, ma qualcosa lo aveva spinto ad addentrarsi in un altro di quei negozietti variopinti, pieni di berretti e maglioni e guanti e paraorecchie e pupazzi colorati, e a scegliere qualche sciocchezza per ogni volto al quale aveva pensato. Aveva portato quel mucchio di cianfrusaglie in cassa, rosso e imbronciato con se stesso e con la cassiera gioviale che sembrava guardarlo come se la sapesse lunga sul suo conto e sulle sue motivazioni –perché non si faceva i fatti suoi, tanto per cominciare? Che razza di impicciona-, e aveva tirato fuori i soldi per pagare il tutto.
Era stato allora che aveva visto quelle scatoline piene di luci, accanto alla cassa, e si era pietrificato.
E aveva pensato a Mustang. Senza un motivo apparente, senza che vi fosse coerenza con quel pensiero.
Ed era stato terrificante, davvero. Era sbiancato, e si era categoricamente rifiutato di comprare qualcosa per quell’individuo inquietante e malefico. Perché doveva sentirsi debitore verso di lui, in fondo? Non faceva che sfruttarlo, e dargli piste false, e dargli del nanerottolo, e ingannarlo in ogni modo. Non gli doveva nulla.
Aveva deciso, nessun ripensamento.
Nonostante tutto, quando la cassiera gli aveva domandato se desiderasse altro, Ed si era sentito rispondere .
E questo, davvero, non riusciva proprio a spiegarselo.
Aveva provato a buttare il regalo, ed era riuscito a buttare solo la scatola. Aveva deciso di non portarlo con sé prima di introdursi nel quartier generale a notte fonda, e si era ritrovato a portarlo, invece. Aveva deciso categoricamente di non lasciarlo nell’ufficio di Mustang, e invece, che ci faceva lì dentro? Era ancora in pieno dissidio interiore quando il Colonnello era irrotto nell’ufficio, e allora era ormai troppo tardi.
A vederli insieme, Mustang e il regalo che suo malgrado gli aveva fatto, Ed capì che almeno un’associazione ovvia c’era, tra i due: gli facevano lo stesso effetto fastidioso di scombussolarlo in modo sgradevole, e di farlo comportare in modo insensato.
“Al è rimasto colpito dalla festa. Ha detto che assomigliava ad una sorta di Festa dello Scambio Equivalente.” Si limitò a borbottare, evitando accuratamente lo sguardo indagatore di Mustang.
“Ah, ma certo. Scambio Equivalente.” Mustang fece un sorrisetto. “Così tipico di voi Elric. E così io meritavo un gruppo di lucine che non si sbrogliano?”
“Le ho già detto che non è un regalo!” Quasi sbraitò Ed, così in fretta e con così tanta veemenza che quasi quasi ci credette anche lui. “Quelle lucine mi sono avanzate, tutto qui!”
“A proposito, credo che ce l’abbiamo fatta. Guarda.”
Ed abbassò nuovamente lo sguardo, e si accorse che era vero. Le luci ora erano perfettamente allineate, perfettamente libere, e i colori sembravano trasmettersi da una parte all’altra in ondate continue, dal pavimento fino alle loro gambe e alle loro mani, attorno alle loro dita.
Rimasero in silenzio per qualche istante, presi da quel gioco continuo e indifferente.
“Le mettevano ovunque”, spiegò all’uomo accanto a lui. “Attorno agli abeti, sui tetti delle case, davanti alle porte delle abitazioni. E sulle insegne dei negozi, naturalmente.”
“Pensa un po’ che impiego di energia elettrica.”
“In quel paesino nessuno badava a spese, figuriamoci.” Ed fece una risata incredula. “Le lucine sono niente. Non ha idea di quanti soldi vengono spesi per fare quei regali a tutti i propri cari. Compravano pacchi giganteschi come se nulla fosse, e più di uno a persona!”
“E li trasportavano a braccio? Coraggiosi, questi paesani.”
“Peggio. Sembravano le persone più felici del mondo, nonostante il dispendio di denaro, tempo e energia.”
Forse parlò in modo strano, perché Mustang sollevò il capo e lo fissò.
Ma Ed fissava le luci. Lo sentiva ancora, quel vago senso di confusione, e di malessere, e quella strana tristezza che non riusciva a spiegarsi.
“Festa dello Scambio Equivalente”, ripeté, scettico. “Io non credo affatto che un mucchio di cianfrusaglie colorate possa ripagare il debito che ho con chicchessia. Per un momento … uno solo, devo averlo ritenuto possibile, ma dopo aver comprato quella roba me ne sono accorto. Non è questo il punto.”
Aprì la bocca, la richiuse, scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli e arruffandoseli in un gesto nervoso. Forse avrebbe dovuto tacere.
Ma era Mustang a tacere, Mustang a fissarlo, Mustang con la sua stupida faccia illuminata da quei colori intermittenti rivolta verso di lui ad attendere che continuasse.
In un altro momento gli avrebbe chiesto provocatoriamente che avesse da fissare. In un altro momento avrebbe evitato di parlare di cose inutili come quelle, specialmente con lui.
Ma quel momento era così bizzarro che Ed non sapeva più cosa fosse giusto e cosa non lo fosse.
“Il punto sono le luci”, mormorò. “Io non riesco a capirle.”
Fu solo dopo averlo detto che capì che era vero, che era proprio quello il problema. Era buffo che se ne fosse accorto solo in quel momento.
Riprese a parlare, ed era più con se stesso che parlava.
“A vedere quel paesino così luminoso, tu non riesci a vederlo, che il mondo è ingiusto e crudele. La luce nasconde le ombre, e così ti ritrovi senza volerlo a pensare … pensare che possano esserci felicità e serenità per tutti, indiscriminatamente. I genitori dicono ai loro figli Se sarai buono avrai un regalo, ma la verità è che nessuno ha voglia di essere cattivo con quelle luci: sono una promessa di speranza. Solo a guardarle ti viene da credere che uomini panciuti in rosso possano scendere dal cielo con una slitta e portare doni a tutti. Ti viene da credere che l’infelicità non esista. E … credi nei miracoli, senza che tu lo voglia.”
Delle luci si erano attorcigliate attorno alle dita metalliche del suo automail. Ed le fissò, muovendo un po’ le dita. Rise, senza allegria.
“Per un momento ci sono cascato anche io”, ammise, pieno di autobiasimo. “Ci ho creduto. Che avrei riottenuto il corpo di Al, che avrei recuperato il mio braccio e la mia gamba. Che persino noi avremmo potuto essere felici solo perché tutti dovrebbero esserlo, a dispetto delle nostre colpe. A dispetto dei nostri sforzi caduti nel vuoto, persino. Ed è … così ingiusto. Perché dovremmo aspettarcelo? Non ci siamo impegnati abbastanza, altrimenti avremmo ottenuto da un pezzo quella maledetta Pietra, no? E’ così che funziona, Scambio Equivalente. Niente viene regalato per niente. Lo so, lo so benissimo e non ho intenzione di arrendermi, o di smettere di studiare, e cercare, e impegnarmi. Eppure allora era così … così semplice crederci. Semplice e rassicurante.”
Tanto rassicurante da sentirsi scioccamente felice, scioccamente disposto a condividere quella felicità con tutti i suoi cari, scioccamente disposto a credere di poter avere un gruppo di persone sempre al suo fianco a sostenerlo a distanza, a volergli bene nonostante tutto.
Tanto rassicurante da diffondere quel miracolo inesistente, e doloroso, sotto la forma di stupidi regali. Perché anche i suoi cari potessero sentirsene rassicurati, e credere di meritare qualunque cosa, a qualunque condizione.
Accidenti, era proprio un bambino. A dispetto di tutto, si sentiva ancora infantile. Si vergognò profondamente di se stesso.
“Cosa se ne fa uno scienziato dei miracoli?”
Mustang fece un movimento in avanti, e il suo busto chinatosi sulle luci che aveva in grembo rese il suo viso a un tratto indistinguibile dalle ombre calate nella stanza. Ed si irrigidì, un movimento istintivo.
E poi il suo viso ricomparve, quasi dal nulla. Aveva preso le luci attorcigliate attorno al suo automail, e le stringeva tra le dita, fissando lui serio. Con un movimento deciso passò il filo dietro la testa di Ed, in modo che si posasse sulle sue spalle, lontano dal suo sguardo.
E rimase chinato verso di lui, tanto che Ed poteva vedere da una distanza fin troppo ravvicinata i suoi lineamenti severi, il mento un po’ squadrato e completamente glabro, i singoli capelli che formavano le ciocche nere che cadevano sulla sua fronte, e che si dividevano pigramente ad ogni movimento. Quegli occhi neri implacabili, che lo guardavano in un modo che Ed aveva già visto, tanto tempo fa. Di fronte alle spoglie di una chimera metà cane metà bambina alla quale lui era stato troppo legato, in mezzo alla pioggia battente, la stessa che aveva continuato a gocciolare dai capelli di Mustang.
“Se i miracoli ti confondono, fanne a meno”, gli disse, il tono secco come se gli stesse impartendo un ordine. C’era in esso l’urgenza delle disposizioni per sopravvivere in periodi di guerra. “Si ha bisogno di miracoli quando si è convinti di essere totalmente impotenti. Se hai ancora voglia di lottare, lasciateli alle spalle e vai avanti. Se vuoi qualcosa, vai a prendertela: quello che attribuisci ai miracoli puoi ottenerlo ugualmente con le tue risorse e la tua volontà. Non dimenticare mai che hai un obiettivo, per nulla al mondo.”
Tutto lì, non aggiunse altro. Non aveva bisogno che aggiungesse altro.
Lo costringeva a specchiarsi impietosamente nei suoi occhi impenetrabili, senza sconti, senza lasciarlo fuggire. Venire a patti con se stessi, o soccombere: questo sembrava dirgli.
Ed provò un’orribile sensazione confusa all’altezza dello stomaco. Nudo, si sentiva nudo e vulnerabile, e non sapeva a quale corazza difensiva appigliarsi. Si sentì ancora come allora, come quel bambino di dodici anni ancora troppo sciocco e ancora troppo ingenuo, che aveva scoperto con orrore che l’alchimia può essere usata per distruggere vite, per corrompere l’innocenza.  Non aveva imparato nulla da allora? Non era riuscito a diventare indistruttibile come aveva desiderato? Perché Mustang doveva ancora dargli la soluzione quando lui non riusciva a trovarla?
Perché Mustang doveva vederlo così debole?
Era terribilmente orrendo sentire che il fiume in piena che erano diventate le sue emozioni trovava un freno nella diga che erano le parole di Mustang, e accettare che qualcun altro aveva dovuto vedere quel fiume in piena, e occuparsene al suo posto. Desiderò distogliere lo sguardo.
Non vi riuscì.
E poi Mustang gli diede un buffetto sul naso, senza preavviso, e tutta la confusione sparì di colpo.
Ed arricciò il naso d’istinto, e Mustang sembrò trovarlo molto divertente, perché scoppiò a ridere. “Sei solo un ragazzino, dopotutto”, commentò. “Un ragazzino che desidera disperatamente essere un adulto.”
Quel commento fu il culmine della sua sopportazione. Umiliato, infuriato, indignato, Ed non seppe controllarsi. “Chi ha chiamato formichina microscopica invisibile persino ad una lente di ingrandimento, eh?” Sbottò, e lo afferrò per il colletto della divisa portandolo più vicino a sé, sollevandosi leggermente sui talloni per guardarlo in faccia, guardare la sua stupida risata divertita fare a pezzi la sua maschera di sicura impassibilità. “Provi a ripeterlo se ne ha il coraggio! Io sono-”
Le labbra del Colonnello, rapide e sicure, catturarono le sue, e la frase di Ed si spense in un singulto strozzato.
Si allontanò di scatto, le mani premute contro il petto dell’altro per tenerlo lontano, il cuore che batteva furiosamente contro la sua gabbia toracica, il cervello completamente congelato. Non riusciva a capire e non riusciva a pensare. Non riusciva a sollevare lo sguardo.
Le luci, abbandonate ai piedi di Mustang, luccicavano ininterrottamente.
Ed cercò la sua voce, la perse, ci riprovò.
“Che- che -” Balbettò, e in contrasto col suo cervello congelato il suo viso era diventato incredibilmente caldo. Le sue labbra tremavano, e se le sentiva ancora formicolanti, come se la sensazione estranea delle labbra dell’uomo sulle sue fosse rimasta lì ad aleggiare, prepotentemente rifiutandosi di andarsene.
Mustang non si era mosso, poteva sentire il suo petto sollevarsi ed abbassarsi nel ritmo del suo respiro attraverso i palmi delle sue mani.
Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto spaccargli la faccia. Avrebbe voluto scappare, o chiedergli spiegazioni.
Tutto quello che riuscì ad articolare, invece, fu una frase priva di nesso logico.
“Io ai miracoli non ci credo.”
Quel sussurro spezzato non aveva ancora finito di lasciare le sue labbra, e già si convinceva che sarebbe stato meglio uccidere Mustang e occultarne il cadavere.
“Nemmeno io.” Rispose Mustang, e Ed sentì vibrare la sua voce sotto le sue dita.
“Allora …” Ed deglutì, e risolutamente sollevò lo sguardo. “Allora non è così che si renderà gradevole ai miei occhi. Io non smetterò di odiarla neanche dopo – dopo questo.”
Non sapeva cosa avesse sperato di sentirsi dire, o di trovare nell’espressione dell’altro. Sentiva solo il cuore rombargli nelle orecchie, e non c’era posto per nient’altro.
Ma la verità è che Ed non capì assolutamente cosa trovò sul viso di Roy Mustang quando riuscì a guardarlo di nuovo.
Lo vide allungare una mano, sfiorargli una ciocca di capelli, farli deliberatamente scivolare via dai suoi polpastrelli. Un’esitazione, e poi le sue dita erano sul suo zigomo, e lungo la sua guancia, e sotto il suo mento, in una carezza così leggera e gentile che, se solo Ed non avesse avuto gli occhi aperti, avrebbe pensato di starsela solamente immaginando. Sembrava stesse cercando di non romperlo.
Gli sfiorò le labbra con il pollice, gentilmente socchiudendogliele appena. Il respiro di Ed gli si era incastrato in gola, non riusciva a capire come fare per respirare.
Mustang aveva gli occhi bassi, fissi sulle sue labbra, e per un po’ non si mosse. Poi lo guardò negli occhi.
Forse erano le lucine che Ed aveva ancora dietro le spalle a rendergli quegli occhi neri come la pece così brillanti?
Il Colonnello sorrise, e da qualche parte il suo stomaco si serrò in un crampo doloroso.
Lo vide avvicinarsi piano, lo vide fermarsi a due passi dalle sue labbra, lo sentì respirare il suo stesso respiro affrettato.
“Dimostramelo”, sussurrò.
Azzerò le distanze, e in un attimo le sue labbra erano di nuovo su quelle di Ed.
Sfiorandole, baciandole, delicate e volatili come se lo stessero solo vezzeggiando. Nient’altro che un’eco un po’ più calda dei suoi polpastrelli poco prima.
Ed aveva chiuso gli occhi, neanche se n’era accorto. Non si era mosso e aveva lasciato fare, solamente consapevole che aveva lo stomaco annodato, e che i crampi si moltiplicavano, si moltiplicavano, e non volevano saperne di lasciarlo stare.
Così, quando Mustang si ritrasse, Ed non seppe dare ascolto a nient’altro che non fosse l’istinto, la follia o piuttosto una stretta particolarmente intensa alle viscere, e inseguì le  labbra dell’altro premendovi sopra con forza le sue.
Lo sentì sorridere, uno di quei sorrisetti soddisfatti che lo mandavano in bestia, e Ed capì che aveva fatto il suo gioco senza volerlo, che lui aveva sperato esattamente in una reazione del genere. Cercò di avere quel sorriso e di cancellarlo, pieno di rabbia confusa, pieno di straziante desiderio, cercò di divorarlo come divorava biscotti quando aveva i crampi allo stomaco, e catturò le sue labbra con le sue, inesperto, folle, turbato, in un impeto che non poteva, né voleva comprendere. Voleva vincerlo, per una volta, avere quelle labbra e costringerle al silenzio, avere quelle labbra e stringere più forte il colletto della sua camicia, incurante delle lucine che cadevano dalle sue spalle in un rumore appena percettibile, incurante di chi lui era e di chi era l’uomo che stava baciando.
Mustang approfondì il bacio, portandogli una mano dietro il capo e tirandolo più vicino a sé, e a quell’invasione improvvisa Ed rispose con un suono strozzato di sorpresa, con imbarazzo intenso, poi con un timido tentativo di imitarlo, di inseguirlo, di condurre lui il gioco.
Che importava del mondo, lui stava bruciando. Era immerso nell’odore di Mustang, un braccio attorno alla sua vita, l’altro tra i suoi capelli, e bruciava. Faceva paura – era piacevole – faceva maledettamente paura, ma non riusciva a smettere di bruciare.
Non voleva smettere, anche se i pensieri vorticavano, e tutto perdeva di senso e nessuno conosceva più il proprio nome.
Non voleva smettere.
 
“Colonnello Mustang!”
La porta si spalancò con un rumore improvviso, e Roy sussultò, appena prima che l’interruttore generale venisse acceso.
L’improvvisa luce troppo intensa gli ferì gli occhi: fu costretto a strizzarli, dolorosamente consapevole di essere rimasto al buio per troppo tempo.
“Mi sono accorta di aver dimenticato una cosa nel mio ufficio, così sono tornata indietro. E ho trovato un pacco sospetto sulla mia scrivania, così sono venuta a cercarla. Lei ha trovato niente? Non tocchi niente prima di aver ascoltato il parere di un artificiere. Con gli ultimi avvenimenti non si sa mai”, gli spiegò una voce femminile accorata. “L’ho cercata dal generale Grumman, ma lui mi ha riferito che non l’aveva neanche visto arrivare, così sono venuta a vedere qui. Ho visto delle strane luci da sotto la porta, e mi sono permessa di … Colonnello, che ci fa seduto lì per terra?”
Roy aprì gli occhi, fissando lo sguardo sul Tenente Hawkeye, i capelli scarmigliati e l’espressione attonita, in piedi di fronte a lui senza sapere cosa pensare.
Non doveva essere un bello spettacolo, con la divisa stropicciata e l’espressione confusa, seduto sul pavimento in mezzo ad un mare di lucine intermittenti, le braccia aperte che sembravano stringere qualcosa che non c’era più.
Roy si tirò i capelli all’indietro, e sorrise.
“Ho verificato il contenuto del mio pacchetto”, si limitò a dire, e fece un gesto allusivo verso le luci.
Hawkeye non sembrò prenderla bene.
“Colonnello! Non dovrebbe essere così imprudente. E se le fosse successo qualcosa?”
Tutta presa dai suoi rimproveri, non parve notare la piccola figura che, furtiva, si muoveva verso la porta, e con l’esperienza di miliardi di infiltrazioni in abitazioni altrui fuggiva via senza farsi sentire.
Roy lo lasciò andare, distrattamente attento ai suoi passi soffocati nel corridoio.
“Qualche volta vanno corsi dei rischi, nella vita”, disse tra sé.
Il Tenente non capì.
Roy pensò che era molto meglio così.
 
***
“Ci hai messo tanto a fare la doccia.”
I capelli gocciolanti ancora sparsi sulle spalle, Ed grugnì qualcosa di  non intellegibile in direzione di suo fratello, ancora ad aspettarlo nonostante fosse così tardi. Per evitare di guardarlo negli occhi si mise a cercare freneticamente un asciugamano con cui frizionarsi i capelli.
“Di solito non ci metti così tanto”, insistette Al, seduto sul suo materasso. “Va tutto bene, fratellone?”
“E’ perché ne ho fatta più di una!” Sbottò, i nervi a fior di pelle.
Al inclinò la testa su un lato, perplesso. “Perché, scusa?”
“Perché puzzo di bastardo, ecco perché!”
“Puzzi di che cosa?”
Ed non rispose, e prese ad asciugarsi furiosamente i capelli. Sperava che suo fratello si sarebbe stancato di fargli domande alle quali non aveva intenzione di rispondere, e gli rifilava il silenzio per scoraggiarlo e indurlo a lasciarlo stare.
“Hai incontrato dei cani sulla via di casa?” Insistette Al, decisamente perplesso e un po’ speranzoso. Forse immaginava il loro appartamento invaso da piccoli cuccioli senzatetto, come suo solito. Ed non aveva neanche intenzione di pensare ad una cosa del genere.
“Uno solo. Il più bastardo di tutti i bastardi di Amestris. E mi ha attaccato la sua puzza senza che io lo volessi! Per questo ho dovuto lavarmi più volte. Era insopportabile.”
“Oh.” Al si grattò il capo, senza averne davvero bisogno. “Beh, adesso dovrebbe andar bene, no? Fatti una dormita e-”
Ed si buttò sul letto a pancia in giù, con ancora l’asciugamano sui capelli. “No che non va bene! La sento ancora.”
Arrossì miseramente, nascondendo il viso nelle braccia e sottraendosi alla rigidità interdetta di Al.
 “Penso che puzzerò di bastardo per tutti i secoli a venire, maledizione.”
 
***
 
“Beh? Cos’avete da guardare?”
I suoi uomini si scambiarono uno sguardo, come se si trovassero davanti ad un pazzo a cui spiegare che gli armadilli non volano.
“E’ che … Come dire …” Tentò Havoc, una sigaretta fortunatamente spenta tra le labbra e un improponibile maglione verde sformato con su una renna dal naso rosso indossata sulla divisa militare. “Avevamo fatto una scommessa, Colonnello. Sa, sul tipo di regalo bizzarro che le avremmo trovato addosso questa mattina.”
“Io avevo puntato su un cappello dai colori sgargianti”, fece Falman, dritto e solenne persino con una sciarpa rosso fuoco inquietantemente piena di brillantini.
“Io scommettevo su dei guanti. Sarebbe stato ironico, no? Lei è l’Alchimista di Fuoco, quale regalo più indicato di un paio di guanti?” Ribatté invece Fury, che da quando lo aveva visto creare le fiamme con uno schiocco di dita non faceva che guardare ammirato le sue mani. Lui portava un berretto argentato con un uomo barbuto dal cappello rosso proprio al centro della fronte.
“Io avrei detto un maglione. Uno di quelli brutti come quello di Havoc.” Ghignò invece Breda, guadagnandosi uno sguardo un po’ offeso da parte del Sottotenente. Non che lui potesse permettersi di giudicare, visti i paraorecchie a forma di pupazzo di neve che sfoggiava come se nulla fosse. “Sa, per vedere se, per una volta, sarebbe sembrato orrendo persino lei. Come i comuni mortali.” 
“Se fosse così semplice basterebbe fargli indossare maglioni del genere tutto l’anno, e io avrei almeno una ragazza che mi si fila!” Havoc sbuffò teatralmente, guardando male il Colonnello, che ora aveva un sorrisetto sulle labbra. “La mia scommessa era su un paio di scarponi, pesanti, e ipercolorati come tutto il resto.”
“Spiacente di deludervi, ma la mia dignità è ancora intatta.” Fece Roy, che in realtà non si sentiva affatto dispiaciuto.
“Abbiamo perfino incrociato il Maggiore Armstrong, con addosso una cintura gigante con delle campanelle d’oro”, continuò Havoc, rabbrividendo all’immagine sicuramente raccapricciante che aveva richiamato alla mente. “E il Tenente Colonnello Hughes ha detto a Falman che i suoi doni misteriosi sono stati una palla con la neve e un peluche per la sua Elycia. Insomma, eravamo pronti a tutto, ma ecco … ci ha fregati. Nessuno aveva pensato a  … questo.”
E indicò la sua scrivania, guadagnandosi dei cenni d’assenso solidali da parte del resto dei suoi uomini.
“Suvvia. Così ornata, la mia scrivania è molto luminosa, non vi pare?” Fece Roy sorridendo largamente, perfettamente a suo agio davanti alla miriade di lucine variopinte che erano state posizionate in modo tale da seguire la forma della scrivania. Contrastavano in modo bizzarro con il triste mucchio di documenti che gli toccava firmare.
Hawkeye, in disparte con delle cartelline in mano, un braccialetto al polso da cui pendevano ciondoli di fiocchi di neve, sembrava chiedersi incessantemente il motivo per cui il suo superiore sembrava impazzito dalla sera prima. Roy non si sentiva signorile abbastanza per aiutarla a risolvere il mistero, sfortunatamente.
“Ma credevo che lei amasse la sobrietà!” Esclamò Fury, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“E la amo, infatti.”
“Perciò … considera quelle cose sobrie?” Fece Breda, inarcando le sopracciglia.
“Assolutamente no.” Roy ghignò, allontanando un po’ la sedia dalla scrivania per chinarsi verso la spina delle lucine, alla ricerca di un piccolo interruttore che aveva scoperto la sera prima mentre riavvolgeva i fili. Assicurandosi di avere l’attenzione di tutti catalizzata su di lui, premette platealmente il pulsante dell’interruttore.
Dal piccolo altoparlante sul retro dell’interruttore partì una carola allegra e briosa, una di quelle che ti costringe ad essere felice anche quando vorresti pretendere una sacrosanta giornata no. Un suono di campanelle teneva il ritmo, e le lucine si alternavano a tempo con esse.
I suoi uomini rimasero a bocca aperta.
“Come pensate reagirebbe Acciaio se io accendessi questa musichetta ogni volta che prova a parlare?” Concluse con aria furba. “Secondo me ne sarebbe entusiasta.”
Havoc scoppiò a ridere. “Ed ecco il Colonnello Mustang per voi!” Esclamò teatrale.
E mentre i suoi uomini imparavano la melodia canticchiandola a bocca chiusa, e prendendosi in giro se sbagliavano qualche nota, mentre Hawkeye sospirava rassegnata per l’evidente mancanza di voglia di lavorare di tutti loro, Roy sfiorò distrattamente una minuscola lucina.
Sorrise, custode geloso di un segreto solo suo.
 
 
 
 
 

 


‘Cause you’re all that’s safe, you’re all that’s warm
In my restless heart











 




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C'è qualcuno che sa se il Natale viene mai nominato, in FMA? 
Io non lo ricordo, e in questa one-shot ho parlato della questione come se fosse una tradizione di una realtà circoscritta, e praticamente sconosciuta ai più. Nel caso mi sbagliassi, mea culpa, spero mi perdonerete.
Il testo citato viene da "Feather on the Clyde", di Passenger.
Buona Festa dello Scambio Equivalen- ahem, Buon Natale a tutti!

Padme Undomiel
   
 
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