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Autore: soul_of_glass    27/12/2015    0 recensioni
Perché non è facile non avere una voce
Perché non è facile non poter chiedere aiuto
Perché non è facile quando nessuno capisce
Perché non è facile quando i propri sentimenti vengono sminuiti
Perché non è facile, e non è giusto, dover combattere da soli
Storia a tematica psicologica centrata sulle vicende della giovane Cassandra
Questa storia è un esperimento, deciderò se continuarla in base alla vostra reazione trattandosi di tematiche delicate
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1 – Una guerra che non si può vincere
 

Era all’età di quindici anni che aveva cominciato ad ammalarsi, e a sedici si era ammalata definitivamente, e a diciassette tutto è sprofondato, e a diciotto aveva capito che, effettivamente, qualcosa non andava. E con qualcosa intendo parecchie cose.

Cassandra era una ragazzetta dai capelli lunghi e lo sguardo vuoto, quei suoi occhi che cambiavano col tempo, a seconda della luce, avevano imparato a nascondere tante cose. Si era resa una bugiarda, aveva imparato tanti trucchetti per nascondere quello che non andava.

Tanto internet ne era pieno, di consigli del genere.

Vista dal di fuori, la sua vita sembrava perfetta. Aveva un posto dove vivere e due genitori che, nonostante l’involontario male, la amavano profondamente. Ed era fortunata anche perché i suoi genitori si amavano, e dopo vent’anni e un tentato divorzio erano ancora assieme, al contrario di tante altre famiglie che attorno a lei si erano sfasciate al minimo intoppo.

Quindi quando le persone intorno a lei cominciarono a capire che qualcosa in lei era andato storto, si chiedevano perché. L’avevano definita egoista, ingorda, qualcuno che non si accontenta mai.

“Non stai morendo di fame in Africa, non hai perso i tuoi genitori, non stai morendo di cancro. Non hai motivo di sentirti così!” Le avevano detto. Le avevano detto che doveva smetterla, non era più una bambina, e che non le serviva aiuto ma solo due sberle. I suoi erano solo capricci.

Ma se solo avessero visto il buio nella sua testa, il nero nel suo cuore, se solo avessero provato per un solo secondo quello che aveva provato lei, sarebbero rimasti tutti zitti. E a volte ci sperava, che si trovassero al posto suo. Ma poi si sentiva cattiva, non avrebbe augurato tanto male a nessuno.

La gente parla, critica, sputa sentenze senza pensarci due volte. “Non hai niente, evita di fare la stupida” si era sentita dire tante volte. Ma lei era brava a nascondere le cose, e loro non sapevano niente. Doveva solo sopportare, non poteva esporsi.

Quella mattina si svegliò, non prima di aver ignorato la sveglia per mezzora. Infondo le servivano meno di cinque minuti per prepararsi ed uscire per andare a scuola. Ed era stanca, aveva bisogno di dormire. Appena mise i piedi fuori dal letto, il primo pensiero che passò per la mente di Cassandra fu che, per fortuna, il pomeriggio avrebbe potuto tornare a dormire. E la rincuorava un sacco sapere che poteva tornare a dormire, a non sentire, a non esistere.

Si vestì e truccò in fretta, la solita linea di matita nella parte inferiore dell’occhio, e la linea di eyeliner sulla parte superiore. Era da quando aveva 13 anni che non usciva senza quell’esatto trucco. Non ce l’avrebbe mai fatta. Eppure non badava alla moda, indossava sempre un jeans e un maglione, con le scarpe dello stesso colore del maglione. Ma senza quel trucco non avrebbe mai nemmeno messo il piede fuori casa.

Andò in cucina mentre aspettava che sua madre si preparasse per accompagnarla a scuola, riempì il suo solito bicchiere da mezzo litro d’acqua e si preparò una tazza di tè verde. Aiuta con la ritenzione idrica e la cellulite.

Quando sua madre fu pronta per uscire le diede £1.50 per comprarsi il pranzo a scuola, Cassandra li intascò e salì in macchina senza dire una parola. Arrivata a scuola salutò la madre e andò dritta in classe. Era lunedì, il che significava un’ora e mezza di letteratura inglese. Lei non ci capiva un cazzo, e cominciava ad odiare quella materia, ma ne aveva bisogno per imparare la lingua alla pari dei suoi compagni di scuola.

La cosa ironica è che frequentava un liceo linguistico in Italia, ma da quando si era trasferita in Inghilterra aveva cominciato a provare un odio profondo per l’inglese, la cosa che prima amava più di tutto.

In classe le ore non finivamo mai, le lezioni sembravano eterne, ma in qualche modo l’ora di pranzo era arrivata, e dopo un’ora e mezza di tedesco si avviò in mensa, dove si sedette al solito tavolo con le sue amiche, quelle inglesi, quelle che non la conoscevano per niente. Si sedette, le salutò, e giocarono a UNO, come facevano sempre. E di nascosto, con la coda dell’occhio, le osservava, sperando che non se ne accorgessero. Le osservava mangiare, mentre lei se ne stava seduta lì, con una bottiglia d’acqua e le carte in mano, e si sentiva forte lei, si sentiva fiera. E si sentiva invidiosa, e per certi versi le odiava tutte. Eppure osservarle mentre mangiavano i loro pasti calorici mentre lei se ne stava seduta lì a bere acqua le dava tanta soddisfazione, quella che non trovava in nessun altro modo.

L’ultima lezione era inutile, lei sapeva che ad un certo punto si sarebbe addormentata, era così ogni giorno, perché lei era stanca e proprio non ce la faceva. “Non fai un cazzo dalla mattina alla sera, non ti permettere di dire di essere stanca” diceva sua madre ogni volta che pronunciava la fatidica frase “ho sonno”.

Venne svegliata dall’insegnante di spagnolo, che le si poteva leggere la preoccupazione in volto.

“Mi scusi, è l’anemia, mi rende stanca e mi addormento senza accorgermene” disse.
Ma la sua era una leggera anemia da carenza di vitamina B12, non era abbastanza per essere la vera causa. Ma non poteva mica dirle la verità.

Tornò a casa verso le 17, più stanca di prima, e invece di dormire come aveva desiderato quella mattina, si mise sul divano a guardare la TV. Sapeva cosa sarebbe successo. Non poteva sfuggire, eppure ci provava. Voleva liberarsene, ma allo stesso tempo ci si aggrappava e se lo teneva stretto.
Cominciò a sentire l’ansia attanagliarle il petto. Cassandra si alzò dal divano e cominciò a camminare avanti e indietro per la casa. Le mancava il respiro, e non sapeva il momento in cui avesse cominciato a piangere. Poi si arrese.

Sei sola
Non servi a nulla
Non hai controllo di nulla
Fai tutto sbagliato
Fai schifo

Se lo sentiva ripetere in testa, mentre camminava arresa ma tremante verso la cucina.
Aprì la credenza, tostò tutte le fette di pane che potesse trovare, con quanto più formaggio possibile, e sparirono prima ancora che potesse rendersene conto. Nel frigo c’era una torta al cioccolato, reduce del compleanno di suo fratello, che divorò in men che non si dica. Prese le brioche dal mobile, e cominciò ad addentarle voracemente, un sorso di latte tra i morsi. Sentiva lo stomaco riempirsi, dilatarsi, si sentiva meno vuota, meno fredda, meno sola. Preparò il ramen istantaneo. Quello sempre per ultimo, mentre masticava l’ultimo biscotto rimasto nel pacco. Non era piena abbastanza, il ramen doveva aspettare. Prese la confezione di pasta fredda presa dal supermercato. “Spicy chicken pasta salad 900gr” diceva l’etichetta. Prese la forchetta dal manico blu, l’unica con cui mangiasse, e cominciò ad ingurgitare anche quella, sospirando ad ogni boccone, bevendo tra una forchettata e l’altra. Quando il ramen fu pronto, fece fuori anche quello, sperando di sentirsi abbastanza piena.

Lentamente si rese conto di quello che aveva fatto, e l’ansia, il senso di colpa, il disgusto, cominciarono ad assalirla. Non riusciva a respirare.
Corse in bagno, si chiuse a chiave e mise della carta sul fondo del gabinetto. Si piegò, contrasse lo stomaco e rivide quei dannatissimi spaghetti nel water. Non doveva più nemmeno usare le dita. Si sentiva così soddisfatta, ma anche così sollevata riconoscendo tutto quello che aveva divorato così avidamente tornare su. Non era più nel suo stomaco, non era più sporca. Ma lei si sentiva sporca dentro.

Si pesò, per essere sicura che nulla fosse rimasto, ed uscì dal bagno, con gli occhi rossi e lacrimanti. Si sentiva debole, svuotata, prosciugata. Era così stanca.

Era sola in casa.
E lei si era arresa.
Aveva la consapevolezza che si sarebbe ripetuto finché non si sarebbe addormentata sul pavimento del bagno, o finché non avrebbe più avuto la forza di muoversi.
Andò in cucina, volse lo sguardo verso il frigo.
Era una guerra che non poteva vincere.

 

   
 
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