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Autore: Northern Downpour    27/12/2015    0 recensioni
1920, Londra, un giovane avvenente avvocato, un cameriere eccentrico e tanto, tanto imbarazzo
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 6

Cordofoni fantastici e svariate realistiche fandonie

 
Dopo un’intera giornata passata a lavorare, quando mi svegliai il mattino seguente ero piuttosto felice della prospettiva di quel dì: avrei fatto (come ormai ero solito a fare) colazione al bar e poi avrei tranquillamente oziato, bighellonando in giro (dal momento che non pioveva, stranamente) alla ricerca di facce amiche con cui intrattenermi.
Le frequenti piogge di quei mesi mi avevano tenuto ancorato in casa, e le uniche interazioni che avevo avuto quella settimana erano state con il Signor Outrè e con George.
Non che mi dispiacesse, sia ben chiaro, ma erano quasi tutte conversazioni distaccate (sottolineo il quasi, dal momento che la conversazione di qualche sera prima non era certamente distaccata…) o in cui non ero particolarmente partecipe.
Ma avevo tutto il tragitto per pensare, così dopo essermi preparato uscii.
Certo, nonostante l’assenza di precipitazioni il clima era piuttosto triste, grigio.
Le nuvole coprivano tutto non lasciando trasparire alcun raggio puro del sole pallido, e neppure un centimetro del manto celeste era visibile all’orizzonte.
Preferii non badare a quella pecca, poiché io non potevo fare molto per cambiare il tempo, e allora m’interrogai su chi fosse la persona con cui avrei preferito passare il pomeriggio.
Sembrerà una cosa insulsa, ma dal momento che avevo molte conoscenze, discernere chi tra quelle era più opportuno vedere fu complesso.
Familiari? Era tanto che non facevo visita alla mia cara zia, in effetti.
O forse era meglio fare un giro con un amico? Avevo promesso di aiutare Taylor a cercare una donzella, e probabilmente sarebbe stato utile anche a me trovare una compagna: ne era passato di tempo dall’ultima volta…
Non volevo però che Taylor trovasse una donna: da sempre pensavo che stesse benissimo con quella solare ragazza, come faceva di nome? Annie? Helly? No, no, era forse Hayely? Sì, Hayley, proprio lei!
Erano perfetti assieme, ed era evidente che a lui piacesse! Mi chiedo perché non avesse ancora fatto il primo passo…
Inoltre non ero personalmente interessato alla ricerca di una donna, in quel momento: stavo bene così; probabilmente questo accadeva perché non avevo ancora superato la precedente relazione…
Ma poco importava: finché questa mancanza non mi avesse provocato problemi, avrei continuato a non pensarci.
Così, senza pensare a cose nefaste, ma elencando semplicemente i nomi, nella mia mente, dei miei tanti amici, camminai in direzione del bar.
Passo dopo passo scartavo ogni persona, trovando impedimenti vari, ed arrivai al locale rassegnato a passare un’altra giornata solitario.
Entrai nel locale e come ogni altra volta lasciai cappello e giacca al solito ragazzo all’entrata, per quindi raggiungere il bancone.
E, proprio come ogni altra volta, trovai lì il solito cameriere intento a servire un anziano uomo che, sdentato, tentava di esprimersi, ottenendo però solo farfuglii confusi ed indecifrabili.
A quanto pareva ero il solo a trattenere le risate: George infatti osservava attento il buffo signore, tentando di discernere da quel discorso qualche parola preziosa, invano però.
Quando mi notò si limitò ad accennare col capo, mimando con le labbra un «Arrivo, Capo» e seguitando con una roteazione scocciata degli occhi.
Fermò poi il collega (Frank, se non vado errato) e implorò questo di prendere il suo posto.
“Solo un folle accetterebbe” pensai, sbagliando: l’amico in fatto, per un gesto di inumana generosità annuì e lo sostituì. “Sono queste cose – ragionai – che dimostrano chi è realmente tuo amico”, e tutt’ora sono convinto di ciò.
Il ragazzo quindi s’avvicinò a me, e con un divertito sorriso mi salutò, alla solita maniera: «Salve Capo!».
«Buongiorno» non esitai a rispondere, ormai abituato.
«Che le porto? Il solito?» chiese quindi lui, mentre puliva velocemente il bancone su cui poggiavo.
Non avevo precisa idea di cosa rispondere, ed allora aprii bocca incoscientemente, all’oscuro delle parole che avrei detto. «Se con “solito” s’intende tè e french toast allora sì, il solito è ciò che desidero» non fu il miglior modo per esprimerlo, questo è certo, ma grazie al cielo mi feci intendere, e non farfugliai nulla d’illogico o incomprensibile: non ero stato imbarazzante in alcun modo.
Tentavo, m’impegnavo per cercare ragione di parlare, ma tutto ciò che la mia mente produceva erano nomi di persone, conoscenti e parenti lontani, con cui avrei potuto passare il pomeriggio, e ad altro non riuscivo a pensare!
Quasi mi rattristavo ancora, sapendo che quel giorno libero si sarebbe prospettato alquanto noioso, ma insomma: in quel momento ero con qualcuno, per cosa mi lamentavo quindi!?
Prendendo il pane, e notando questa mia profonda pensierosità, George mi chiese con nonchalance: «Cosa mi racconta oggi, Capo? La vedo pensieroso».
Mi riscossi quindi, e mi dipinsi un sorriso in volto, mentre attaccavo a parlare; gli avrei raccontato cosa mi passava per la mente, d’altronde non avevo nulla da perdere.
«Devi sapere – attaccai, raddrizzando la schiena e sistemando la camicia – che ieri ho lavorato molto: sì, mi sono impegnato davvero! E oggi quindi come ricompensa volevo godermi una giornata da passare con un amico, o anche un parente, ma non c’è nessuno non oppresso dal lavoro, in città… Così, una giornata che si prospettava gioiosa e divertente è diventata quasi un problema. Ma non penso che molto possa interessarti, quindi, dal momento che non ho idea di cosa raccontarti, tu che mi dici?»
Aveva seguito il mio discorso con grande attenzione, osservandomi serio tutto il tempo, ed una volta che finii di parlare rimase zitto qualche istante a ragionare.
«Sa Capo, in realtà… – posò il pane fumante accanto a me, e trovò distrazione nell’osservare questo – in realtà io oggi, cioè, questa mattina, stacco un’ora prima dal lavoro, quindi magari – quando presi poi la fetta che ammirava, il suo sguardo si ricongiunse al mio, e la sua voce tornò sicura – sì, magari, se per lei non è un fastidio, potremmo fare un giro!».
Non ci avevo pensato! Certo, perché no! Che idea meravigliosa!
Appena finito di parlare il cameriere si scusò con un sussurro, appena percettibile, ed imbarazzato si girò a prendere il tè pronto, mentre si malediva mentalmente in modo piuttosto evidente.
No, non doveva, era stata una cosa davvero gentile da suo conto prendermi in considerazione! Dovevo ringraziarlo, cosa aspettavo?
«Non mi dispiacerebbe, affatto! Trovo anzi che tu sia stato estremamente gentile, quindi ti ringrazio davvero: mi hai salvato da un oblio di noia!» scherzai, strappando una piccola risata anche dal suo volto teso ed imbarazzato.
Scioltosi quindi, e libero dalla vergogna, mentre metteva a lavare la teiera ribatté «Beh, allora non c’è di che, Capo» accompagnò questa frase, detta con aria regale e pomposa, con una piccola ironica riverenza.
Non feci a meno di sogghignare in simultanea con lui: aveva una risata davvero contagiosa.
«Ma tu, come stai tu?» chiesi, per colmare il vuoto di dialogo che stava venendo a crearsi.
«Eh sa, si campa, anche se il lavoro è duro! Quando arrivo in casa infatti, tutto ciò che riesco a fare è stendermi a letto e dormire sino alla mattina seguente... Ma finché ho un lavoro ed un alloggio, non mi lamento: non ne vedo ragione».
Sorseggiavo nel mentre il mio tè, e dietro George notai i due ragazzi oggetti della nostra prima conversazione; quindi con sincero interesse chiesi come stavano loro.
Dovevo poi ingannare il tempo mentre attendevo poiché il turno del ragazzo sarebbe terminato solo 40 minuti dopo.
«Come stanno invece i tuoi amici?» domandai, indicandoli velatamente.
«Gee e Arthur? Stanno bene, sì. Tra loro però ci sono piccole incomprensioni: Frank vuole dire ai suoi genitori di quello, Arthur però è abbastanza contrario. Io non so proprio da che lato schierarmi; comprendo ed assecondo le ragioni di entrambi, hanno tutti e due ragione! Capisco bene che Gee voglia essere sincero con la sua famiglia, e so che i suoi genitori, come tali, continuerebbero ad amarlo; anzi, forse neppure ben capirebbero ciò che il figlio dice, o lo crederebbero uno scherzo… - si distrasse, probabilmente immaginando la scena, ma subito si destò e ricomponendosi continuò - ma immagino anche che Arthur voglia tenere il tutto quanto più segreto possibile…»
Voleva molto bene a quei due, era evidente che il loro rapporto non era affatto quello d’alleanza che si viene a formare tra colleghi, ma anzi era quasi fraterno.
Però, se questi volevano tenere la storia segreta, perché io ne ero a conoscenza? Perché me la raccontò?
Certo, ero stato io a chiederlo, ma quando mi narrò tutta la storia lui neppure sapeva il mio nome! Perché si sarebbe dovuto fidare?
Ricordai che mi aveva osservato titubante quella sera, prima di rispondermi: ma bastava realmente solo uno sguardo?!
In quell’istante sentii l’irrefrenabile impulso di sapere, spinto quasi da una scintilla di rabbia (per cose che non mi competevano affatto, oltretutto) ed allora, mantenendo il massimo riguardo, domandai: «Non vorrei sembrare sfrontato ma posso chiederti perché mi hai raccontato tutto questo, prima ancora di conoscermi?».
Speravo di non averlo offeso, perché solo dopo mi resi conto che con quelle parole parevo insinuare che lui fosse un ciarliero, un pettegolo!
Fortunatamente però lui rispose, senza segno di malizia o sdegno, ma anzi spontaneo e sincero come un fanciullo innocente fa.
«Uhu, Capo, ha colpito nel segno! Sa che me lo sono chiesto pure io? Ma, in realtà, è che...non so...mi sarà sembrato una persona fidata. Non lo è forse, Capo?»
Si fermò dal lavoro e mi guardò negli occhi, con uno sguardo irrazionalmente serio che cercava nel mio risposta.
«Certo che lo sono – mi affrettai a rispondere, abbassando la testa e spezzando così il contatto visivo formatosi – volevo solo sapere, neppure io so cosa! Non badare, non far caso alle mie parole: neppure io so di preciso perché le ho dette…».
Quegli occhi persi si erano disegnati nella mia mente e non se ne andavano: come mai mi avevano colpito tanto?
Aveva lo sguardo di un cucciolo, e, forse per un assurdo viaggio della mia mente, o forse perché i fatti stavano realmente così, pareva, con quella sua espressione, cercare certezza.
Mi spiego meglio: mi sembrò per un attimo di rivedere nel suo volto dipinta una storia, la storia di una persona che già troppe volte è stata tradita, e che fosse stanca di ciò.
E nel vederlo il mio cuore si colmò di compassione, tantoché tutto ciò che desideravo era avvicinarmi a lui ed abbracciarlo, in prova che io non lo avrei ferito…
Cosa diamine stava facendo la mia mente?! Che viaggi assurdi!
Avevo tanta fantasia che avrei potuto scrivere un libro!
«Oh, okay, come vuole lei, Capo» disse poco dopo.
«A che ora avevi detto che avresti finito?» chiesi poi. Non attesi molto per ricevere risposta, infatti subito lui diede uno sguardo all’orologio, e felice esordì: «Ora!»        
Erano realmente passati 30 minuti da quando quella conversazione era iniziata? Non mi ero reso conto di quante pause silenziose ci fossero nei nostri dialoghi…
In fretta si tolse il grembiule, e lo ripose dentro alla cucina.
Rimase un attimo dentro, e sentii voci confuse uscire di là: probabilmente salutava i colleghi.
Quando comparve già indossava giacca e cappello, e mi accompagnò quindi a prendere i miei soprabiti.
Non era particolarmente freddo fuori, probabilmente perché erano le 11.30 di mattina ed il flebile sole aveva, per quanto possibile, riscaldato.
«Che si fa, Capo?» domandò dopo qualche parola farfugliata e qualche risata insensata.
Mi resi conto che non ne avevo idea.
Di cosa avremmo potuto parlare noi, così differenti l’uno dall’altra? Nessun argomento ci accomunava realmente, per quanto ne sapessi non avevamo passioni comuni.
«Parliamo, cos’altro si potrebbe fare?» ridacchiai inutilmente, tentando di aggirare il problema.
«Sì beh certo, ma di cosa? Mi parli di lei, Capo. In fondo io non so proprio nulla di lei, eccetto che lei è un avvocato e che le piacciono i french toast, il thè ed il daiquiri di pesca e lime».
«Oh beh, da dove iniziare?» ci pensai un attimo prima di iniziare, non volevo sbilanciarmi in alcun modo: né sembrando troppo timido e riservato, né, tantomeno, sembrando troppo vanitoso!
«Dall'inizio forse?» ottima opzione!  Sui miei inizi avevo molto da raccontare!
«Bene, allora, devi sapere che non sono nato a Londra, e, anzi, sono qua relativamente da poco tempo!»
Fui interrotto poi da un curioso "Ah sì?", che mi diede tempo per riordinare i pensieri, e continuare.
«Sì, sono nato in campagna. È stata bella la mia infanzia. Non eravamo propriamente agiati; lasciami chiarire: non eravamo neppure sul lastrico, ma non navigavamo nella ricchezza. Crebbi in una grande casa, dove abitavo con i nonni ed una zia materna a cui tutt’ora sono molto legato, che fu quasi una seconda madre per me. La vita era semplice, essenziale, e traevo gioia da ogni piccolo sfizio: allora anche le cose più infime erano un lusso; non come ora…» mi persi un attimo, a rimembrare il passato (come spesso fanno gli anziani) e fu piacevole: sentii il calore d’un abbraccio materno avvolgermi, e mi lasciai cullare da questo, senza pensare al mio interlocutore. Subito però quando me ne accorsi, ripresi a parlare.
«Dicevo, la mia infanzia fu un periodo felice che si protrasse a lungo. Arrivarono poi, sulla soglia della mia adolescenza, i primi problemi: mio nonno morì, e Dio solo sa quanto soffrii. Non fu però una faccenda prettamente personale, anzi! Il lutto si ripercosse in tutta la famiglia, e con il lavoro dimezzato, arrivarono i primi grandi problemi economici.
Mio padre lavorava ed amava il suo lavoro, e per quanto sembrasse che le finanze che ne traeva non fossero abbastanza, bastarono per tirarci avanti ancora qualche anno. Ed ora arriva il momento in cui io arrivo qua, nella splendida Londra! Sì, perché da quando, ancora bambino, avevo detto che avrei fatto l’avvocato, i miei genitori avevano serbato queste parole come una promessa, ed appena finii la scuola dell’obbligo mi portarono qua, a studiare legge – notai sul volto del ragazzo una certa perplessità, come se qualcosa non quadrasse nel mio discorso, perciò non esitai ad investigare – Qualcosa ti turba, George?» faceva strano chiamarlo per nome, non era mai successo. Non fui l’unico a notarlo, però.
«Wow Capo, fa strano sentirla chiamarmi per nome, questo sì che mi turba...– ridacchiò nervosamente per la battuta scontata – In ogni caso, no: ero solo un po’ perplesso, ma non vorrei impic… – si corresse, roteando irritato gli occhi – invadere la sua privacy…»
Guardai il suo sguardo e ne colsi un lumino di sfida: sapeva benissimo che così dicendo m’incuriosiva solo di più!
«Oh no, tranquillo, dimmi pure»
«Beh, Capo, mi sorge spontaneo chiedermi come abbiano fatto ad ottenere abbastanza soldi per farle studiare legge alla facoltà di Londra… Insomma, non è propriamente economico, sa…»
Ma che diamine di domanda era!? La risposta era sin troppo scontata!
«Hanno utilizzato i risparmi che tenevano da sempre per lo scopo; non capisco la ragione di questo tuo dubbio!»
Colorì il suo volto con un’espressione di acceso interesse, ed aprì bocca come se fosse esperto nell’argomento: «Beh, Capo – esordì impettendosinon mi convince, in tutta sincerità, questa faccenda. Non che non mi fidi di lei o della sua famiglia, ma è piuttosto strano come, nonostante la povertà, abbiano tenuto da parte abbastanza soldi per iscriverla a quella facoltà… Insomma, immagino che il prezzo sia alquanto caro, perciò avrebbero potuto utilizzare quei soldi per risolvere i problemi economici che avevate, non crede anche lei, Capo?»
Ero fermo, e poiché lui non s’accorse d’avermi superato, dovette girarsi mostrando la bella siluette del suo profilo, mentre rendendosi conto dell’essere avanti si fermava a sua volta e serrava le labbra.
Quando tornai accanto a lui, vedendomi impensierito e serio, si sbrigò a precisare «Ripeto, non volevo offendere né lei né la sua famiglia, tutt’altro! Era sola curiosità, davvero…»
A quanto pare non aveva intenzione di cambiare idea! Ma cosa voleva intendere, con quelle parole? Forse che i soldi erano stati ottenuti in un modo diverso, rispetto a ciò che avevo sempre creduto? No, non era possibile! Quale altro modo poteva esserci?
Cambiare discorso, sarebbe stata la soluzione migliore.
«Ma senti, anzi, dimmi: è evidente che non ti piace il tuo lavoro; allora, cosa desidereresti fare? Qual è, in quanto a lavori, il tuo sogno più recondito? Anche il più strampalato ed impossibile, sai, va bene!»
Sul suo viso scomparve il dubbio, ed apparì un entusiasmo unico e speciale nel luccicare dei suoi occhi nocciola.
«No, non è che non mi piace, altroché! Ci sono anche Frank e Arthur, e gli altri, e poi sono ben pagato… Solo…solo che non è ciò che sogno di fare. Il mio sogno è comune e stupido, nulla di speciale eh, Capo! – esitò, quasi imbarazzato per quella sua fantasia – Io…io vorrei iscrivermi ad una scuola musicale ed imparare a suonare uno strumento, per poter fare il musicista…»
Il musicista? Certo che aveva molte passioni, il ragazzo! L’arte, la letteratura, ed ora anche la musica! Non l’avrei mai immaginato, nonostante il suo stile eccentrico, tipico degli artisti.
«E che strumento ti piacerebbe suonare?» era bellissimo vedere nei suoi occhi la gioia, di trattare un argomento a lui tanto a cuore, e l’enfasi che metteva nel parlare era la prova di tutte queste emozioni.
«Amo molti strumenti, in realtà. I miei preferiti sono i cordofoni, sì! Sto risparmiando, per quanto riesca, un po’ di soldi per prendere una bella chitarra!» gli piaceva parlare di argomenti a lui ben conosciuti e la cosa si notava: non appena avevamo iniziato a parlar di musica (cosa a lui molto cara, apparentemente) aveva completamente cambiato registro!
Avrei potuto dirgli del fatto che non era il solo che di musica ne sapeva, ma decisi di astenermi. Rimasi perciò silenzioso, ed ascoltai i suoi discorsi per quasi un’intera ora, mentre s’emozionava narrandomi i più svariati aneddoti.
Il sole alto in cielo era bello, e se non fosse stato per l’improvvisa carenza di gente nei dintorni, non mi sarei accorto del brontolare del mio stomaco: tra una chiacchiera e l’altra s’era fatta ora di pranzo.
Lo avrei forse dovuto salutare e tornare a casa mia? O avrei potuto invitarlo a mangiare qualcosa con me, per continuare la camminata ed la correlata conversazione?
In ogni caso, mi promisi di non parlare sinché non avesse finito: priorità al rispetto.
La fame però era a dir poco insopportabile! A breve, ero certo, pure lui avrebbe sentito i rantolii provenienti dalla mia pancia, e che brutta figura sarebbe stata?!
Così, esasperato, decisi che una breve interruzione sarebbe stata lecita: «Mi dispiace interromperti, dal momento che questa conversazione mi interessa moltissimo, ma s’è fatta ora di pranzo: ti va di mangiare qualcosa con me?»
Alla fine quindi avevo optato per il pranzo fuori, seppur relativamente inconscio…
«Certo, volentieri! Se vuole possiamo pranzare al bar: le faccio lo sconto, se promette che non lo dirà a nessuno» propose a sua volta.
No, avrei voluto pranzare in un luogo diverso, e non attesi un attimo per esplicitarlo.
Notai sul suo volto, mentre parlavo, comparire un'espressione seria, quasi di spavento, e dapprima non capii il perché.
Pensai, per un attimo, di chiedere, ma attesi sino a che non avesse detto qualcosa.
Formulai le ragione che potevano portarlo ad essere timoroso, eppure non ne vedevo alcuna!
«Ma dai, Capo: non accetta un mio favore? Mi dovrei forse offendere?» scherzò, tentando di dissuadermi.
Ed allora ipotizzai cosa lo infastidiva: non aveva forse i soldi per pagare un buon pranzo?
Era risaputo, in fondo, che gli stipendi dei camerieri non erano propriamente generosi, quindi la mia tesi era plausibile.
«Oh, ma il locale in cui ti vorrei portare appartiene ad un mio conoscente, con il quale sono in buoni rapporti, non ti preoccupare!» mentii: non avevo idea neppure di dove saremmo andati...
Ma continuai ad elogiare la gentilezza del fantomatico proprietario, il quale era tanto buono da offrirmi ogni volta il pasto gratuitamente, e che pasto! 
Così, dopo svariate realistiche fandonie, lo convinsi, e lui accettò.
Decisi che l'avrei portato in un buonissimo locale, di cui realmente conoscevo il direttore, ma che mai mi avrebbe offerto un pasto gratuito: gliel'avrei pagato io, il suo pranzo.
Lo avrei persino istigato a mangiare il più possibile, poiché era tanto magro che quasi scompariva! 
   
 
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