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Autore: Monique Namie    28/12/2015    2 recensioni
Dylia fa parte del dipartimento di trasposizione della E-Security, un ente pubblico che si occupa della sicurezza dei cittadini residenti sui pianeti di un nuovo sistema solare colonizzato dall'umanità. Un giorno le viene affidata una missione in solitaria per scongiurare un attentato a una importante stazione spaziale, ma qualcosa non va come previsto e da allora la sua vita prende una piega del tutto inaspettata...
Una storia d'amore e d'odio, di persone guidate dalla bontà e di altre accecate dal desiderio di vedetta. Una storia disseminata di ostacoli in apparenza insormontabili e intrighi legati allo spionaggio che portano i protagonisti del racconto a fare i conti con situazioni complicate, in cui i concetti stessi di "bene" e "male" tendono a confondersi.
{Il primo capitolo ha partecipato a "Boom! Il contest che vi lascerà con il fiato sospeso!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Incertezze



Cap.8 - L'edera lascia i segni


Dylia dormiva da un tempo che non riusciva a quantificare; le sembrava di non essere mai stata sveglia, che il sonno fosse da sempre la sua normale condizione d’esistenza.
Quella fastidiosa luce che le stuzzicava le pupille insinuandosi fra le ciglia e il ronzio sommesso di una qualche apparecchiatura tecnologica sistemata al suo fianco, sembravano timidi tentativi dell’universo di ridestarla dal torpore. Ad un certo punto credette persino di udire la voce di un bimbo. “Svegliati!”,
diceva, ma lei era stanca e voleva solo riposare, neanche avesse lottato contro il mondo intero. Avrebbe continuato a dormire per chissà quanto se non le fosse apparso lui in sogno. Dylia, naturalmente, non aveva realizzato subito che era tutta un’illusione e aveva protratto le braccia verso quel bambino vivace con gli occhi furbi che le correva incontro.

«Che ci fai qui tutto solo? Come ti chiami?», aveva chiesto. Ma lui continuava a fissarla con quel visino innocente senza parlare, come se non avesse compreso le domande. Il suo aspetto, oltretutto, aveva qualcosa di familiare.
La ragazza provò a istigarlo. «Sono sicura che un nome ce l’hai. Vediamo, sarà forse…»
«Elar», rispose velocemente, prima che lei se ne uscisse con qualche ridicolo miscuglio di lettere.
Nel sentire quel nome il cuore di Dylia ebbe un sobbalzo.
«Devi aprire gli occhi», disse il bimbo. «Ti devi svegliare», le ordinò.
La ragazza sorrise e gli passò una mano tra i capelli neri scompigliandoglieli un po’.
«Puoi insegnami come si fa?», chiese.
«Sì… abbracciami.»

Dylia si inginocchiò ed Elar si tuffò verso di lei. Le sembrava incredibile che un bambino potesse avere tutta quella forza: la sua stretta le impediva quasi di respirare. Chiuse gli occhi e quando li riaprì si ritrovò stesa nel lettino della stanza d’un ospedale. Dalla finestra proveniva una luce accecante. A sinistra un macchinario piuttosto complesso registrava i suoi valori vitali emettendo un bip ritmato. Sul comodino, poco più in là, qualcuno aveva lasciato un videogiornale; si sporse per leggere i titoli in prima pagina, ma fu trattenuta da una manciata di fili attaccati al suo corpo. A quel punto, colta da un moto di nervosismo, si tolse l’ago della flebo e lo getto via, staccò anche le ventose dell’elettrocardiogramma e i tubetti per ossigeno che terminavano dentro le narici, così, finalmente riuscì ad alzarsi. Non c’erano notizie significative; il mondo sembrava non interessarsi alla sua avventura con Shulik. Un attimo dopo notò la data sull’angolo in alto e capì di aver dormito per ben tre giorni.
Nel momento in cui scese dal lettino entrò un’infermiera piuttosto trafelata, allarmata dal fatto che le apparecchiature per il monitoraggio degli impulsi vitali, dopo essere state staccate, avevano smesso di trasmettere.
«Non mi dica di rimettermi a letto, sto bene e posso camminare», esordì Dylia accennando qualche passo verso la donna. «Dov’è l’uomo che stava con me?»

L’infermiera rimase per qualche istante stranita, senza saper bene che cosa fare. «Ehm, non si agiti troppo, non le farà bene… vado a chiamare il primario», disse infine.
«No, io devo sapere! Dov’è la persona che stava con me? E mio robot?»
«Non c’era nessun robot con lei. Si calmi adesso.» Cercò di farla sedere nel lettino, ma Dylia non l'ascoltò e si precipitò fuori dalla stanza. Il corridoio terminava con una porta-finestra che dava su una terrazza. Spalancò l’uscio e si riversò all'esterno, ma si immobilizzò subito attanagliata da una morsa di freddo: nevicava e i fiocchi grigiastri le venivano spinti contro il viso dal vento gelido. Si strinse nelle spalle e, opponendo resistenza alle raffiche, si avvicinò alla ringhiera. Si trovava parecchio in alto: da lì si vedeva l’intera città e non era di certo l’ambiente arido e caldo da cui proveniva lei. Verso l’orizzonte, cinque palazzi disposti a semicerchio si innalzavano fino a sfiorare le nuvole. C’era solo un posto in cui era possibile trovare simili edifici: Mlad, la gigantesca megalopoli del nord.

«Ma è impazzita a stare qui fuori? Venga dentro prima di prendersi una polmonite!», disse la voce di un uomo. L’infermiera aveva chiamato i rinforzi e così era giunto il primario che l’aveva presa per le spalle e l’aveva riaccompagnata dentro. Nel suo camice leggero da paziente Dylia tremava come una foglia. Il freddo risvegliò il dolore della ferita alla spalla e sul suo volto comparve una malcelata smorfia di sofferenza. Fu ricondotta nella sua stanza e gli fu somministrato un antidolorifico.
Il giorno dopo, mentre ancora si crucciava sulla sorte dei suoi due uomini, Dylia ricevette una telefonata. Le portarono il ricevitore a letto dicendole che si trattava di qualcuno di piuttosto preoccupato per lei. Inutile dire che fu alquanto delusa nel sentire la voce roca del suo capo dipartimento.
«Come sta il mio miglior agente di trasposizione?»

«Male. Un imbecille dei servizi segreti mi ha sparato addosso. Come dovrei stare secondo lei?»
Si aspettava che l’altro le rinfacciasse il fatto di essersi messa in mezzo per difendere Shulik – perché sicuramente era stato avvisato di come erano andati i fatti - ma sorprendentemente l’altro non disse nulla al riguardo. La apostrofò, tuttavia, per il tono poco rispettoso con cui si era appena rivolta.

«Il posto alla E-Security è ancora tuo, se è questo che ti stai chiedendo», disse. «Dai rapporti degli agenti che hanno preso parte all’imboscata è chiaro che è stato tutto un incidente. Ti trovavi nel posto sbagliato al momento sbagliato. In ogni caso poteva andare peggio e almeno adesso non dobbiamo più preoccuparci per quel criminale. Se quella leggenda sull’inferno fosse vera, il mondo intero sentirebbe le sue urla attraversare le dimensioni iota fino a noi», concluse.
Dylia deglutì prima di intervenire con tono incerto. «Scusi, credo di non capire.»
«Questo non è il mezzo ideale con cui scambiarsi informazioni riservate. L’importante è che tu ti rimetta presto e…»
«Aspetti!», la voce le uscì strozzata. Con il pensiero era rimasta ancora alla frase precedente. «Non è possibile che… che lui sia…», non trovava nemmeno la forza di dirlo. «La navetta. C'ero anch'io...»
«Sì, lo so. Shulik ti ha presa in ostaggio per fuggire, ma il mezzo su cui eravate è precipitato. È una fortuna che tu sia sopravvissuta. Probabilmente non sai nemmeno come sei arrivata in ospedale, vero?
»
La ragazza non disse nulla.

«Come immaginavo... Tra qualche giorno verrò lì, così potremo discutere meglio. Rimettiti in forze.» Detto questo riattaccò senza lasciare a Dylia il tempo di controbattere.
Abbandonato il ricevitore sul letto andò verso la finestra; fuori continuava a nevicare. Si domandava come riuscisse la gente a vivere con un clima così rigido e se il grigiore di quei fiocchi contenesse sostanze nocive o fosse una tonalità del tutto innocua. Probabilmente gli spalaneve erano costantemente al lavoro per assicurare ai cittadini la possibilità di uscire di casa, oppure in quella megalopoli avevano sviluppato una qualche tecnologia che impediva al ghiaccio di attecchire sulle strade. Sì, era più probabile la seconda.
Guardando giù, oltre il vetro, verso la città, si vedevano chiaramente le linee nere serpeggianti delle vie tra le abitazioni. Era così intenta a osservare quel curioso particolare che sussultò quando dalla porta entrò l’inserviente che spingeva il carrello con il pranzo. Si girò e rimase spiazzata, lo sguardo fisso in quello dell’altro.

«Oliwar, sei proprio tu? Come stai?», gli chiese dopo essersi ripresa dalla sorpresa.
«Sai che potrebbe investirmi una pattuglia di demolitori provvisti di frantumatore atomico e io sopravvivrei comunque.»
La ragazza sorrise: nella risposta aveva percepito una sfumatura di ironia. Qualcuno doveva avergli installato un nuovo cip per upgradargli le funzionalità di humor. Gli corse incontro e, investendo il carrello con i piatti destinati ai pazienti, circondò tra le sue braccia l’amico ritrovato.
«La tua ferita?», chiese lui.
«Fa ancora un po’ male, ma sta migliorando.» Si sciolse dall’abbraccio ed esitò qualche secondo. Poi schiuse le labbra intenzionata a parlare, ma distolse immediatamente lo sguardo da quello di Oliwar temendo che potesse leggerle negli occhi la domanda e finisse per darle una risposta che non voleva sentire.

«I miei sensori mi dicono che vuoi chiedere qualcosa.» La pelle sintetica, bianca e perfetta del viso del robot si piegò leggermente agli angoli della bocca, in quello che doveva essere un sorriso cortese.
«Chi ha provveduto a ripararti e aggiornarti?»
«Mi ha preso in custodia un medico. Voleva farti una sorpresa per quando ti saresti svegliata e così mi ha installato anche le funzionalità emotive superiori.»
«Dovrò ringraziarlo quel medico benefattore. Dove posso trovarlo?»
«Prima mangia qualcosa.»
Dylia sbuffò. In cuor suo cercava solo una scusa per fuggire da quel maledetto ospedale che le metteva una tale tristezza.
Oliwar riprese parola dopo aver depositato due piatti sul comodino. «È uno nuovo, non ha un orario fisso. Quando c’è bisogno lo chiamano e lui arriva. Prima o poi te lo presento.»
La ragazza osservò distrattamente il pranzo: una porzione di carne cotta tagliata a cubetti, uno strano impasto rosa e delle strisce bianche di un vegetale che non riusciva a classificare. Il robot era già sulla soglia della porta quando Dylia lo bloccò.
«Aspetta! Devo chiedertelo o non avrò pace: tu ne sai qualcosa di Shulik?»
«Shulik? È stato dato per disperso.»


“Disperso non vuol dire che è morto, vuol dire che si sono smarrite le sue tracce. Potrebbe essere da qualsiasi parte, no? Quindi? Questo non cambia niente… non c’è nulla che io possa fare.”
Dylia continuava a sentirsi afflitta da certi pensieri e la neve grigia che scendeva lenta oltre la finestra della sua stanza di certo non aiutava.
Quando verso sera smise di nevicare, entrò nel camerino riservato ai cambi d’abito dei medici e prese in prestito un paio di scarpe della sua taglia e un cappotto, dopodiché uscì in strada. C’era qualche mezzo di soccorso automatizzato fermo poco distante dall’entrata principale in attesa di una chiamata d’emergenza. In confronto alla strada pulita e facilmente praticabile, il marciapiede era totalmente coperto di neve. Dylia mosse qualche passo sprofondando con le scarpe su quel manto soffice e farinoso. Il respiro si condensava nell’aria e si perdeva nell’atmosfera silenziosa. Solo il rumore di qualche auto in lontananza e i passi ovattati di qualche coraggioso avventuriero interrompevano la quiete del paesaggio ghiacciato.

«Così diventerai un surgelato.»
Dylia si voltò verso l’uomo che si era fermato a qualche passo da lei. Era talmente imbacuccato che gli si vedevano malapena gli occhi, ma la sua voce non le era nuova.

«Comunque mi fa piacere vederti in forze», continuò, sistemandosi meglio la sciarpa davanti la bocca. «Piaciuto l’aggiornamento al tuo robot?»
Una strana eccitazione si fece spazio nella mente della ragazza, scese in gola e si fermò all’altezza del petto.
I medici di Terratre non erano solamente persone che sapevano come curare un corpo umano prescrivendo terapie, erano qualcosa di molto più sofisticato: esperti in tecnologia, le loro abilità si avvicinavano moltissimo a quelle di un hacker. C’è n’è bisogno, quando l’unico modo per salvare la vita a qualcuno è guidare una squadriglia di nanomacchine in un labirinto di arterie e capillari.
Visto che Dylia non accennava a spiccare parola ed
era rimasta come pietrificata, il medico sbuffò e la condusse gentilmente verso la porta. «Entriamo, qui si congela. E comunque… questo cappotto mi ricorda molto quello della dottoressa Janner.»
Detto questo, abbassò il cappuccio e si srotolò la sciarpa rivelando il suo volto a una Dylia totalmente sotto shock. Nel viso dai lineamenti aggraziati, dietro un paio di occhiali con la montatura azzurra, due iridi scure si soffermarono su di lei con un accenno d’intesa. Elar Shulik un medico? Da quando in qua Elar Shulik, pluriricercato a livello mondiale per aver causato caos e terrore in diverse città, aveva sentito il desiderio di salvare la gente? E com’era possibile che nessuno lo avesse riconosciuto? D’accordo, si era lasciato crescere una corta barba e portava gli occhiali, ma per il resto era sempre lui: il solito diabolico angelo dai capelli neri come la notte. Dylia lo seguì con lo sguardo mentre entrava in un reparto riservato ai medici. Prima di chiudersi la porta alle spalle si girò un’ultima volta e le fece l’occhiolino.


Dopo quell’incontro, la ragazza cercò Oliwar in tutto l’ospedale e quando lo trovò a ricaricare i distributori automatici in un'ala secondaria dell'edificio, sfogò su di lui tutta la frustrazione. Era sollevata nell’aver constatato che Shulik non era morto, ma allo stesso tempo si sentiva presa in giro e confusa. Si piazzò davanti al robot con un’espressione corrucciata: «Senti, fino a prova contraria sono ancora io la tua padrona, ok? Non puoi mentirmi, dunque perché non mi hai detto chi era veramente il medico che ti ha riparato?!»
L'altro appariva sereno. «Non pensavo ti importasse tanto di Katerino Atvor.»
«Ma che stai dicendo!? Lui è Shulik, Elar Shulik!»
«Ti sbagli, la navetta con cui stava cercando di fuggire è esplosa. Ti procurerò i videogiornali. Si vede il momento in cui il mezzo supera l’ultimo strato di atmosfera e poi viene avvolto dalle fiamme.»
Dylia scosse la testa. Evidentemente Shulik aveva creato dei falsi ricordi nella mente dell’automa, provò quindi con un’ultima domanda: «E come ti spieghi l’impressionante somiglianza tra i due? Prova a metterli a confronto con il software per le identificazioni.»
Se ne sarebbe accorto chiunque che sembravano gemelli. Ciò che Dylia non sapeva era che, in quella metropoli, le centrali di polizia consideravano gli identikit dei criminali materiale riservato da non divulgare presso i civili. Nessuno, quindi, avrebbe mai sospettato di nulla.

Oliwar, per la prima volta da quando era stato assemblato, parve trovarsi in difficoltà. Il dubbio che la sua padrona aveva posto in essere gli provocò un sussulto: iniziò a tremare scosso dalle convulsioni, poi roteo gli occhi e scivolò seduto sul pavimento. Dylia, preoccupata, gli prese il volto tra le mani e cercò di capire quale fosse il problema. Sembrava una tipica reazione da “accesso negato”, come se il suo cervello fosse stato programmato per rifiutarsi di rispondere a quel genere di questioni. Gli passò una mano sulla nuca e cercò con i polpastrelli la lieve scanalatura per il riavvio d’emergenza; quando la trovò e la premette, Oliwar smise di tremare e chiuse gli occhi come caduto in un improvviso sonno profondo. Dylia gli si avvicinò di più e lo tirò a sé. Gli arti sciolti del robot erano abbandonati lungo il corpo, la testa si adagiò sulla spalla di Dylia che poté sentire la morbidezza dei suoi capelli sintetici solleticarle il collo.
«Mi dispiace, non volevo», sussurrò all'orecchio di Oliwar. Un attimo dopo lui riaprì gli occhi e tornò ad animarsi.
«Inizializzazione completata. Riavvio cip istallati completo. Riattivazione dispositivi di sicurezza in corso...»
Le mani dell’automa si sollevarono e risposero all’abbraccio della ragazza cingendole dolcemente il corpo; rimasero così per qualche secondo prima di rialzarsi.
«Ho rilevato un problema: un archivio della mia memoria era stato manomesso. Ora ricordo cose che non sapevo di conoscere», disse lui. «Shulik e il medico Atvor sono la stessa persona, inoltre so come ha inscenato la sua morte, perché l’ho aiutato io.»


“Che cosa provo realmente per quell’uomo?”, si chiedeva Dylia mentre sostava nella saletta d’attesa all’esterno del reparto di chirurgia dove le avevano detto che si trovava lui per un’urgenza. Nel posto c’erano altre persone oltre ai parenti di qualcuno che al momento era sotto operazione. Una donna in particolare aveva il viso sconvolto; quegli occhi arrossati dovevano aver versato così tante lacrime da averla prosciugata di tutte le forze, ecco perché per mantenersi in piedi si aggrappava al ragazzo più giovane di fianco a lei. A causa di un’embolia suo marito aveva avuto un infarto ed era stato scortato in fretta al pronto soccorso.
Dylia fantasticò sulla loro storia: immaginava si fossero conosciuti trent’anni prima mentre si contendevano un parcheggio; dai rimproveri erano passati alle risate e uno dei due aveva proposto di risolvere la questione in modo amichevole in un locale. Con il tempo si erano innamorati e dalla loro unione era nato quel giovane ragazzo che, soffocando la preoccupazione, si fingeva impassibile per offrire un braccio forte e sicuro alla madre.

Aveva forgiato questa immagine mentale mentre attendeva; non osava muoversi e controllava persino il respiro, temendo di disturbare quell’atmosfera raccolta che si era creata. Ad un certo punto la porta della chirurgia si aprì e ne usci Elar; in testa aveva ancora il casco con annesso schermo virtuale per guidare l’operazione. I parenti del ricoverato si avvinarono timorosi: nei loro occhi si celava la paura e la speranza compressi in un impercettibile luccichio che sa riconoscere solo chi ha sperimentato situazioni simili.
Elar tolse il casco svelando un sorriso rassicurante: «L’intervento è andato bene. Il paziente è fuori pericolo e si riprenderà.»
Poi gli occhi di Elar si posarono su Dylia che si alzò bruscamente e uscì in corridoio, una mano posata sul petto come per cercare di controllare il battito del suo cuore.

“Che cosa provo realmente per quell’uomo?”, ripeté mentalmente continuando a camminare con passo incerto mentre la vista iniziava ad annebbiarsi a causa delle lacrime. Era entrata troppo in empatia con quella famiglia e la bella notizia l’aveva talmente toccata che stava per abbandonarsi a un pianto dirotto. Dimostrarsi fragile era l’ultima cosa che voleva in quel momento, così finì per sferrare un pugno alla parete. Quando si girò per tornare indietro, si trovò faccia a faccia con Elar Shulik, il camice da medico sbottonato e quello sguardo che, se osservato in profondità, nascondeva ancora l’ombra del suo passato.
«So quello che stai pensando», cominciò lui.
«Hai imparato a leggere nella mente?», chiese lei con sarcasmo cercando di dominare le emozioni.
«No.»
Dylia cambiò discorso. «Tra qualche giorno verrà qui il mio capo. È meglio se non ti fai vedere mentre c’è lui in giro.»
Elar storse la bocca. «Ho imparato a leggere dentro le persone.»
«Al mio capo non importerà granché, a meno che tu non riesca anche a leggere i pensieri di un indiziato che non vuole parlare… ma anche in questo caso temo…»
«Grazie», la interruppe. Si fissarono per qualche istante senza dire nulla, poi lui la scansò e proseguì lungo il corridoio credendo che avesse tutte le ragioni per trattarlo freddamente.
Era incredibile. Shulik sembrava un’altra persona.

“Che cosa provo per lui?”, si chiese nuovamente la ragazza girandosi a guardarlo mentre si allontanava.
Poteva definirlo sia il suo miglior amico che il suo peggior nemico. Al di là della crudeltà di certi suoi gesti compiuti, lui era riuscito a trasmetterle qualcosa di positivo. Senza volerlo le aveva insegnato che anche nella persona più malvagia si può nascondere la luce e da questo era giunta alla conclusione che anche nell'individuo più calmo e gentile possono albergare oceani assassini in tempesta. Un giorno lei aveva guardato nei suoi occhi e l’aveva visto, aveva visto il sole che aveva dentro: qualcosa di bellissimo e allo stesso tempo dolorosissimo. La sua anima era incandescente e quando a Damon la sua mano aveva sfiorato il viso di lei, parte di quella fiamma si era trasferita lasciandole un segno invisibile.
Non le era mai capitato di vedere in quel modo una persona, di vederla oltre a ciò che mostrava, oltre all’apparenza e il retaggio del suo passato. Quella sua bellezza non si poteva definire una casuale combinazione di atomi; il suo volto angelico era un riflesso di ciò che custodiva sigillato nella cassaforte dell’anima, quando ancora non era stata contaminata dall’odio.
Quel giorno, alla stazione Damon, la trasposizione li aveva fusi e nel momento del ritorno qualcosa non era andato per il verso giusto. Come l'edera, strappata a forza dal tronco di un albero, lascia i segni nella corteccia su cui era ancorata da anni, così le loro anime si erano avvinghiate e graffiate tanto che non sarebbero mai più state le stesse.

L’equazione di Dirac spiega bene l'accaduto: quando due insiemi vengono a contatto - anche solo per un brevissimo istante - si influenzano, e nel momento dell’allontanamento continuano a ricevere l'influsso dell’altro. Le distanze sono annullate; non esistono spazi sconfinati o universi infiniti capaci di interrompere il legame. Ciò può essere una fregatura, ma anche una benedizione. Come sempre, tutto è relativo.
In quell'istante Dylia capì che non poteva lasciarlo andare, perciò gli corse in contro e lo fermò trattenendolo per un braccio. Non sapendo bene cosa dire sorrise nervosamente, poi si schiarì la voce: «Perché prima mi hai ringraziata?»
«Ti ho ringraziata per aver migliorato la mia vita», disse lui. Nello sguardo aveva una luce particolare, come se si sentisse sollevato dal fatto di averla di nuovo vicina. «Il giorno dell’imboscata», continuò, «mi sono reso conto che non provavo piacere nel vederti star male. Fino ad allora il dolore degli altri era un lenitivo per me. Che cos’hai tu di speciale per farmi vacillare? Non sono riuscito a trovare una risposta soddisfacente», concluse.
Dylia gli scostò un ciuffò che gli ricadeva sulla fronte, poi lasciò scivolare delicatamente la mano di lato, sostando più a lungo sulla sua guancia, mentre gli occhi si posarono sulle labbra di lui svelando il desiderio nascosto. Senza indugiare oltre lo baciò. Nell’ambiente circostante c’era l'odore del disinfettante e il rumore di qualche barella trascinata in un corridoio lontano, ma quel contatto, che sapeva di vita e speranza, aveva trasportato entrambi in un altro mondo lontano anni luce da lì.



Qualche mese dopo Dylia tornò al lavoro al solito distretto, sotto il comando di quel simpatico vecchietto fanatico dei sigari che era il suo capo. Si domandava per quale fortunata concomitanza di eventi gli agenti dei servizi segreti avessero tralasciato certi dettagli compromettenti dai loro rapporti. Ricevette l’indizio chiave una sera, sotto forma di buono per un acquisto al negozio di robotica, accompagnato da un biglietto firmato da Saati: forse l’interesse che quello svampito aveva mostrato nei suoi confronti non era tutta finzione.
Altre novità riguardavano il metodo d’azione del dipartimento di trasposizione. Erano state apportate delle migliorie: ora si potevano usare contemporaneamente più dispositivi per la distorsione del campo elettromagnetico. Ne erano stati dislocati un po’ ovunque nelle principali metropoli del pianeta. Ovviamente ci si poteva collegare a uno solo alla volta, ma questo garantiva comunque una più veloce entrata in azione. Uno di questi era collocato al nord e precisamente a Mlad, dove Elar continuava il suo filantropico lavoro di redenzione all'ospedale civile.
Ogni tanto, se era sicura che i suoi spostamenti non erano monitorati, accendeva il macchinario e andava a trovarlo. Gli sedeva accanto quando, durante l'orario di riposo, sostava sul muretto esterno della clinica; si godeva quella vicinanza e la particolare atmosfera del posto raccolta in un silenzio meditativo.
Nell’attesa che Elar trovasse un modo sicuro per tornare a circolare liberamente per il pianeta, si accontentavano di quel contatto a metà per non creare sospetti.
Anche se lui non poteva vederla, percepiva la sua presenza. Fu così che un giorno, stringendo tra le mani il DSZ potenziato da un particolare algoritmo di sua invenzione, si girò verso il nulla permeato dal gelo del nord e disse: «Sai, forse ho trovato la soluzione.»
Il giorno dopo un blackout di proporzioni globali colpi Terratre per cinque minuti e quarantanove secondi. Quando tornò l'elettricità, nessuno si accorse che gli archivi con i dati compromettenti che incastravano Shulik erano stati totalmente cancellati.
Nella città in cui risiedeva Dylia era notte fonda. Oliwar captò un segnale anomalo in entrata nel sistema domotico dell'appartamento; lo scrisse in un biglietto che appoggiò sul comodino della ragazza prima di stendersi al suo fianco nel letto.
Il messaggio tradotto corrispondeva a due sole lettere: E.S.


The End/
To Be Continued...



Note autore:
Lo so, lo so! Questa conclusione lascia aperte le porte alla possibilità di scrivere un seguito! Ve lo già detto che io non sopporto i finali? E allora, visto che posso scegliere, scelgo di lasciare i miei affezionati personaggi in una parentesi temporale; congelati fino al momento in cui mi verrà l'ispirazione per scrivere un sequel. Le manie di onnipotenza degli autori nei confronti dei propri racconti. ♥ Comunque... immagino abbiate capito a che cosa si riferiscono le due lettere, no?
Spero davvero di avervi regalato qualcosa di positivo e
come al solito sono benaccette le critiche costruttive.
Ci si rivede in una nuova avventura fantascientifica: variabili del caso permettendo. :)


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"Inverse Transposition" di Monique Namie
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