Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: tixit    29/12/2015    4 recensioni
Questa storia fa parte della serie "Il Caleidoscopio di Fersen" dove vari personaggi, a turno, narrano, appunto, qualcosa di Fersen - ciò che di lui hanno visto quando lo hanno conosciuto o solo sfiorato per caso. E, spesso, inevitabilmente, fanno un accenno ad Oscar.
Stavolta tocca ad Alain, ma quello del manga (il più ragazzino, insomma), non il gigante buono dell'anime.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alain de Soisson, Axel von Fersen, Hans Axel von Fersen
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il Caleidoscopio di Fersen'
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Ryoko Ikeda e di chiunque abbia diritti sul personaggio di Lady Oscar ed il suo mondo; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

Note: Buon divertimento!


Le Favole sono il Posto dove vivono i Desideri

Lo vidi per la prima volta in un boschetto - cervo ancora intontito, sorpreso dopo la monta.  

Odorava di rosa e donna soddisfatta – rosa anche quella, in fondo, rorida e carnosa, pronta a dischiudersi al tocco della dita, per soddisfare a sua volta.

Chi non saprei: le donne di Versailles non erano difficili e di storie ne circolavano tante. Alcune si concedevano come pagamento dei debiti di gioco - scacciando la noia di un diversivo con quella di un altro - alcune per intrigo - costose più di chi, facendolo per mestiere, metteva in gioco pure una certa arte - altre solo per noia.
Tutta Versailles gemeva sotto la luna, il cuore altrove.  

Valessero l’impegno non lo so: una rosa, alla fine, è una rosa.

D’altro canto il vecchio Re, che non era costretto ad accontentarsi, quando ne aveva voluta una tutta sua, per ben due volte se l’era cercata fuori da Versailles: arte, in tutto quel gemere e sospirare, ce n’era forse poca.
Nobili! Cortigiani... nemmeno capaci ad applicarsi in una delle poche cose che sanno far tutti, quella che padroneggia pure la sguattera di una bettola (meno di una moneta d’oro per il lavoro di una violaciocca, che dona il suo piacere nella rima).  

Chi, quindi, io non saprei (nemmeno so se lo saprebbe dire lui, dopo tutto quel tempo): per cogliere una rosa in quel giardino, se non era questione di soldi e di potere, serviva solo essere nobile e bello - lui era tutte e due le cose.  

Che fosse nobile lo avevamo capito subito: era arrogante.  

Lui non avrebbe dovuto essere lì, lo sapevamo tutti, ma noi, secondo lui, non avremmo dovuto fermarlo: la legge degli uomini comuni non lo riguardava.
Si aspettava che anche noi lo sapessimo e lo lasciassimo andare senza domande.

I vestiti, il parrucchino, il tricorno: non erano vestiti di seconda mano, presi da un rigattiere e riadattati da un sarto, ma, si vedeva, cuciti apposta su di lui e indossati con la noncuranza di chi non deve contare le monete ed i giorni per averne altri.

Era straniero ed era venuto lì in cerca di fortuna - piacque alla donna giusta che gli concesse un reggimento e forse non solo quello.
Opportunità che un francese che non avesse prima dimostrato di essere nobile fino al quarto grado, mai avrebbe mai potuto avere - lui se l’era presa, quell’opportunità, andando ad un Ballo. Giudicato per chiacchiere e profumo, non certo per le doti di un comandante.

Lo disprezzavo: aristocratico come me, ma in modo diverso.

E lo ammiravo: faceva bene ad approfittare di tutto ciò gli si offriva senza dar niente in cambio! Versailles se lo meritava!
Era il primo dei lupi che avrebbero massacrato un gregge che non serviva più a nulla e non credeva alle favole.

Lei lo conosceva: li vidi uno dinanzi all’altro fronteggiarsi in silenzio. Lei delusa, lui lievemente in imbarazzo - non avrebbe dovuto.

Lui era il fuoco, l’audacia, l’infrangere le regole se quelle non servono alla felicità, l’indifferenza per il coro pettegolo di chi crede di sapere ciò che è giusto (e tanto poi fa altrimenti). L’uomo che decide la sua legge - non la prende dagli altri ad occhi chiusi.
Lei era il gelo, chiusa su se stessa e su un regolamento, infelice - glielo leggevo in faccia - infelice come chi non sa nemmeno dove cercarsela la felicità.

Lui era uomo, felice di essere carne.
Lei non era nulla, fiore di serra, soldato per capriccio di un altro, comandante per privilegio di famiglia, fingeva di ignorare ciò che aveva tra le gambe e pretendeva che noi facessimo lo stesso.

La disprezzavo.

Se non sapeva nulla di se stessa come pretendeva di fingere di sapere qualcosa di noi? Se non accoglieva nulla di se stessa, nemmeno la cosa più ovvia, quella di cui nessuno gliene avrebbe fatto una colpa (amavamo madri, amavamo sorelle, non scopavamo e basta), come avrebbe potuto accogliere qualcosa di ognuno di noi? Accettare il difetto, la povertà, l’ignoranza, la rabbia, l’invidia, la vendetta, l’arte di arrangiarsi, le nostre priorità meno roboanti e più familiari? Il fucile venduto per un paio di scarpe per qualcuno di cui ti senti responsabile?Il pugno tirato al tuo capo per quello che fa e che non c'entra col suo ruolo?

Nulla, non sapeva nulla, solo un elenco di regole che si applicavano ad un mondo da favola, in cui noi non vivevamo di certo.

Morivo dalla voglia di ricacciarle in gola il suo orgoglio, di costringerla a vedersi per quello che era: solo una rosa, di quelle di Versailles, una tra tante, una che non ha il cuore.


Quella sera li vidi fronteggiarsi e parteggiai per lui: il fuoco vince sul ghiaccio, la vita vince su tutto.

Quella notte feci qualcosa di cui ancora mi vergogno - l’unica.

 

Ci volle tempo perché il disprezzo finisse e iniziasse il rispetto - ancora ne ho, ne avrò sempre per Lei. Cercò di modellare il mondo su una favola - non è cosa da poco.

 

Quando penso a quei due li ricordo ancora fronteggiarsi nel buio: lei delusa, lui in imbarazzo.


Si conoscevano, era chiaro, ma cosa avessero in comune è un mistero: forse solo il fatto che ricordassero tutti e due un altro tempo, uno in cui erano stati ragazzini.

Qualcuno mi disse, poi, che lei un tempo lo avesse amato, ma non lo credo: avevano percorso strade troppo diverse. Non c’era incastro.

Se mai lo aveva amato era stato l’amore che noi riserviamo al crepuscolo dell’infanzia, un momento in cui tutto sembra possibile e in cui siamo perfetti e perfetto il mondo in cui vogliamo entrare. Dove il mondo sembra quel posto in cui possono vivere tutti i nostri desideri - non sappiamo (ancora) che quelle sono le favole. E già sono scivolate dietro di noi, non torneranno - lui questo lo sapeva, era come me, me ne ero accorto, e prendeva quel che poteva, senza chiedere il permesso.

 

L’amore per la giovinezza, insomma. Il rimpianto per scelte non fatte. L’ammirazione per l’audacia nel prendere dalla vita ciò che ci spetta.

Nulla oltre questo.

 
 

Note finali: questo è l’Alain del manga, che è più ragazzino, non quello dell’anime, che tutte amiamo molto per la sua esperienza e la sua comprensione della vita.
La cosa di cui si vergogna esiste solo nel manga ed è la minaccia di stupro verso Oscar - l’Alain dell’anime non lo avrebbe fatto mai.
La prossima amica di Fersen, per gentile richiesta, sarà la duchessa di Polignac (una che di favole se ne intende... la strega cattiva).

   
 
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