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Autore: suni    09/03/2009    8 recensioni
Il Re è quello che conta di più. E' intorno a lui che tutto ruota, compresi gli altri.
L'Alfiere è l'elemento di spalla: si muove in modo diverso, autonomo, mettendosi in gioco obliquamente.
Ma quando il Re cade qualcuno deve tenere insieme i pezzi che rimangono: pure se l’individuo in questione è un Alfiere sbruffone e individualista, gli tocca ingoiare l’amarezza e farsi sotto. Anche perchè, come dimenticarlo, c’è una Regina disperata da consolare assolutamente.
Seconda classificata al Contest ANTIROMANTICO SuiKa indetto da Mala_Mela e Hipatya – Premio per lo stile.
Genere: Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Juugo, Karin, Suigetsu
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Bah…

Storia arrivata seconda al “Contest ANTIROMANTICO SuiKa” e vincitrice del Premio per lo stile.

Sono commossa.

 

Ho avuto due bellissimi bannerini ma non sono buona a metterli su con EFP. Lo farò appena la giudice o qualcun altro di competente avrà avuto la bontà di spiegarmi come.

 

E dopo questa bella autocelebrazione, ringrazio sentitamente Mala_Mela e Hipatya, mi congratulo con le altre partecipanti e vi lascio alla fanfic.

Buona lettura

 

 

 

_____________________________________________________

 

 

 

 

Gli sembrava ci fosse un rumore continuo, persistente. Un ronzio che tappava le sue orecchie e rendeva i suoni distorti, le voci fumose e rimbombanti. Non arrivava a vedere bene, vuoi per la posizione sdraiata, vuoi per l’estrema debolezza. Scorgeva il bianco del soffitto e una mano che entrava ed usciva saltuariamente dal suo campo visivo.

“Dove sono i miei compagni?” biascicò, per l’ennesima volta consecutiva.

Non riusciva a smettere di pensarci. Anche se li aveva sempre reputati tre perfetti imbecilli ed era convinto che essere stato liberato da Sasuke fosse una delle cose peggiori mai capitategli – perché era evidente che fosse così già solo per il fatto che si era trovato costretto a convivere con tre imbecilli, fino ad arrivare a considerare il numero sproporzionato di volte in cui aveva rischiato la vita nel Falco – l’idea che potessero essere morti lo sprofondava in un panico insensato che rendeva quasi impossibile anche il semplice respirare.

“Sta’ calmo,” intimò una voce femminile, squillante e imperativa. “Sei ferito abbastanza gravemente, cerca di non muoverti.”

Suigetsu non le prestò nemmeno vagamente attenzione, sbuffando rumorosamente nonostante le lancinanti fitte al fianco.

“Dove diamine sono i miei compagni?” ripeté ancora, caparbio.

“Ma perché non sta zitto un momento?” sentì borbottare qualcuno con fastidio, poi udì dei passi allontanarsi.

“Ehi! Io sto zitto quando mi pare e pia...” S’interruppe di scatto nel rizzarsi a sedere, serrò le labbra e se le morsicò per soffocare il grido di dolore dovuto a quel movimento, mentre ricadeva indietro sul materasso mugolando.

“Pessima idea, tigre,” lo schernì la voce femminile, cui adesso poteva collegare un volto: una bella ragazza bionda dall’aria stanca e provata, con grandi occhi azzurri e la pelle chiara. Se ne disinteressò completamente, storcendo le labbra in una smorfia.

“Dove sono loro?”

La bionda chinò lo sguardo, allungò le mani e riprese a lavorare sulla sua fasciatura.

“Il tipo strano e la ragazza dovrebbero cavarsela,” illustrò, con tono professionale.

Il tipo strano doveva essere Juugo – ed effettivamente, come darle torto, era strano davvero; oh, sì, e lei non sapeva quanto – e la ragazza era Karin, ovviamente. Sentì un’ondata di sollievo percorrergli l’interezza del corpo come una scarica rigenerante al pensiero che sarebbero sopravvissuti, quasi gli sembrò di udire la voce acuta e un po’ petulante della kunoichi più insopportabile di tutte le Nazioni maggiori.

“Bene. Sas’ke è col suo amichetto volpe?” chiese, con improvvisa, beffarda allegria.

La bionda voltò la testa di scatto. Le sue labbra tremarono in modo incontrollato e Suigetsu per un secondo vide nero, mentre i suoi polmoni si strappavano con improvvisa angoscia.

“Uchiha Sas’ke è morto in seguito alle ferite riportate nel contrasto con il bijuu risvegliato. Il suo cuore si è fermato dieci minuti fa.”

Suigetsu riuscì soltanto a spalancare gli occhi, la voce della bionda gli risuonò in mente come l’eco di una valanga mentre gli sembrava che tutto il rumore sparisse improvvisamente annegando un in soffocante silenzio.

La bionda si passo velocemente il dorso della mano sugli occhi, voltando la testa.

“Mi stai dicendo che quello sfigato in arancione di Uzumaki l’ha fatto fuori?” esalò lui, e gli faceva male dappertutto, all’improvviso, non era solo la ferita e nemmeno la tempia che aveva battuto contro le rocce quando Madara l’aveva colpito, né le gambe indolenzite dalla lunga battaglia, ma era tutto insieme e anche il resto, era dentro lo stomaco e nei polmoni. Pensò di urlare, ma non ne aveva il fiato.

La bionda si sporse di scatto verso di lui, avvampando di rabbia. Arricciò le labbra con malcelata ira.

“No, non Naruto. Kyuubi,” affermò, e la bella voce squillante tremava dolorosamente. “Naruto non avrebbe mai...”

La bionda chinò la testa e tacque, ma Suigetsu non vi badò.

 

 

“Non ti mettere contro di me adesso, non ti conviene.”

Il sorriso di Uchiha Madara era così sfacciatamente sicuro di sé da far venire la nausea.

“Che ti dice che mai stato dalla tua parte?”

Sasuke non gli era mai sembrato tranquillo come in quel momento, piantato a gambe larghe tra il leader dell’Akatsuki e il jinchuuriki di Konoha, tanto che Suigetsu per un attimo s’era chiesto dove fosse finito il suo tetro, iroso caposquadra dalla lingua appuntita come una lama.

Madara non si era mosso per qualche secondo. Aveva soltanto sorriso con infinita superiorità, noncurante, e poi Suigetsu l’aveva visto voltarsi verso di lui.

“E tu? Vuoi morire anche tu come questo ragazzino sconsiderato?”

Aveva sbattuto le palpebre una volta, perplesso dalla domanda inattesa.

“Chi credi di minacciare, specie di pazzoide?” era intervenuto Naruto, facendo rabbiosamente un passo avanti.

“Suigetsu. Raggiungi Karin e Juugo e levatevi dai piedi. Questa non è la vostra guerra. Naruto, fai quello che ti pare ma non guardare quell’uomo negli occhi.”

Suigetsu aveva sbattuto nuovamente le palpebre, allibito. Per un momento gli era scappato quasi da ridere, ma si poi si era trattenuto pensando che non avrebbe giovato all’atmosfera pregnante del momento. Dei, Sasuke era davvero un ragazzino sconsiderato: cosa credeva di fare, da solo con il jinchuuriki imbecille? Poteva anche essere forte come nessun altro, Uzumaki, ma a suo avviso e del tutto arbitrariamente restava un cretino.

“Non hai sentito il tuo capo?” lo aveva apostrofo Madara con aperto scherno.

Suigetsu aveva sorriso a sua volta, caricandosi meglio il peso della lama sulla spalla,poi  aveva portato una mano al fianco in posa sfacciatamente provocatoria.

“Non è il mio capo,” aveva risposto, calmo e irriverente. “E’ quello che guida il nostro gruppo. Gli devo un favore e non mi piacciono i debiti. Siete una famiglia di pazzi e non darò retta né all’uno né all’altro, quindi no, non intendo morire e no, non muoverò un passo da qui.”

Naruto aveva grugnito qualcosa in approvazione, Sasuke si era voltato verso di lui col naso arricciato, come succedeva ogni volta che qualcosa lo contrariava profondamente – cioè continuamente.

“Raggiungi Juugo e Karin.”

Suigetsu aveva socchiuso le labbra pronto a rispondere, ripetendo per l’ennesima volta che il fatto di aver sconfitto Orochimaru non lo autorizzava a comportarsi da piccolo tiranno, ma poi le aveva allargate in un sorriso sbruffone.

“Loro, intendi?” aveva chiesto, indicando i due shinobi che atterravano a pochi metri di distanza dopo una precipitosa corsa tra gli alberi.

Sasuke aveva biascicato qualcosa incollerito, tornando a guardare Madara con i suoi occhi neri, che pure brillavano come fiamme rossastre anche senza sharingan.

E poi c’era stata la battaglia, violenta come la fine del mondo.

 

 

“Non è morto. Uno shinobi del genere non muore semplicemente cosi, come se niente fosse,” affermò faticosamente, stringendo spasmodicamente il lenzuolo per tentare di mantenere la calma. Gli devo un favore e non mi piacciono i debiti, che bella stronzata. E’ un matto ed è odioso ma è il mio primo vero amico, però questo non gliel’ho detto. Qualcuno per caso può farlo per me?

“Gli altri due sono vivi.”

La voce della bionda era apatica e impersonale, il suo incarnato sembrava ancor più niveo.

“Maledizione!” ruggì Suigetsu, e questa volta nemmeno il dolore atroce gl’impedì di rizzarsi a sedere. “Questa dovrebbe essere la buona notizia? Che farà Juugo senza Sas’ke, eh?” abbaiò feroce, infischiandosene del fatto che la dottoressa bionda di Konoha non potesse sapere del piccolo problema psicologico di Juugo. “Come farà a... E Karin, eh? Avanti, va’ a dire a Karin che gli altri due sono vivi, specie di...”

Non poté più parlare, emise soltanto un verso gutturale che manifestava tutta la sua rabbia e il suo dolore, non codificabili in uno schema alfabetico.

Karin.

Quella piattola romantica si sarebbe buttata dal primo ponte, poco ma sicuro. Si concentrò sul pensiero fastidioso della kunoichi e della sua certamente melodrammatica reazione alla notizia, cercando di allontanare per un momento l’immagine vivissima di Sasuke dalla mente.

“Ma chi diamine credi di essere tu?” sbottò la bionda, fremendo. “Pensi che importi solo a voi se... Noi siamo cresciuti con lui! Eravamo bambini insieme, ero...” La voce le si spezzò mentre chinava repentinamente la testa con un’ondata d’oro di capelli.

Suigetsu spostò lo sguardo su di lei, inespressivo e amaro.

“Come ti chiami?” borbottò freddo.

Ino.”

Lui accennò un sorriso sarcastico.

“Un’altra spasimante rifiutata, mh?”

La bionda non rispose, ma Suigetsu vide le sue mani serrarsi a pugno e non gli occorse altro. Ebbe l’impulso istintivo di voltarsi verso Sasuke e commentare beffardo la sua innata attitudine a spezzare cuori, ma con una fitta di angoscia rammentò che non poteva più farlo.

Serrò forte le labbra, trattenendo il fiato per celarne il tremore affannoso.

A proposito di cuori spezzati, era tempo di alzarsi da quel letto e cercare Karin.

 

 

 

 

 

 

 Alfiere diventa Re

 

 

 

 

 

Per poter uscire dalla sua stanza di ospedale Suigetsu dovette prima accettare di essere sottoposto ad un interrogatorio. A quanto pareva la partecipazione del Falco alla salvezza di Konoha era indubbia, ma bisognava ugualmente verificare la situazione.

“Non ho intenzione di perdere tempo, devo raggiungere quegli impiastri dei miei compagni,” affermò risoluto quando Ino l’ebbe informato di quel fatto.

“Nessuno dei due è ancora in grado di comunicare.” Suigetsu si voltò di scatto verso la porta, osservando l’uomo che aveva parlato svogliatamente, con voce grave e priva d’inflessioni. “E non credo tu sia nella posizione di rifiutare quanto stabilito dall’Hokage.”

Lo shinobi era alto, ben messo e aveva il viso coperto. Sembrava a stento reggersi sulle gambe ma non dava l’idea di esserne particolarmente turbato: teneva le mani cacciate nelle tasche, l’unico occhio visibile era vigile e imperscrutabile e la schiena ritta con sicurezza. Il solo particolare che stonava era il fianco che teneva poggiato alla parete per stare in piedi.

Suigetsu l’aveva intravisto in battaglia, ore prima, anche se non ricordava bene che stesse facendo. Sasuke lo conosceva, si erano scambiato una frase o due prima di scagliare contemporaneamente un paio di chidori devastanti.

“Cosa volete da me?” chiese lo spadaccino, diffidente.

“Farti qualche domanda,” rispose lo shinobi con fare posato.

“Non mi interessa. Due miei compagni sono in gravi condizioni e il nostro leader è morto.”

“Questo lo so anche io,” rispose lo shinobi noncurante, con voce ancor più bassa e cupa. “Ma temo di dover comunque insistere...Hozuki Suigetsu. Giusto?”

Lui mostrò i denti in un sorriso come un ringhio.

“Se lo sai perché me lo chiedi?

Lo shinobi non badò alla provocazione, mentre Ino sgusciava fuori dalla stanza annuendo, ad un suo muto cenno.

“Dunque. Sei uno dei tre fratelli Hozuki, talentuosi spadaccini. Ti sei unito alle truppe di Orochimaru cinque anni fa. Sei stato il primo ad aggregarsi a Uchiha Sas’ke, quando si è ribellato ad Oto. Correggimi se qualcuna delle informazioni in mio possesso non ti suona.”

Suigetsu sbuffò annoiato, intimamente infastidito dal fatto che quell’uomo di Konoha sembrasse sapere su di lui molto più di quanto gli stesse bene.

“E’ tutto esatto,” borbottò distaccato.

“Perché?”

La voce dell’uomo sembrava improvvisamente più interessata, pronunciando quella parola.

Suigetsu lo guardò interrogativo, gli occhi chiari un po’ spalancati.

“Perché cosa?” controbatté sulla difensiva.

“Perché hai accettato la proposta di Sas’ke?”

Suigetsu guardò fissa la parete, in silenzio. Perché aveva accettato la proposta di Sasuke? Se l’era chiesto anche lui più d’una volta, senza mai riuscire a fornirsi una vera risposta. Ne aveva dedotto che era semplicemente così che doveva andare e a dispetto di quando affermava continuamente non ne era affatto pentito.

Si strinse brevemente nelle spalle.

“Ha fatto fuori il vecchio mostro, dando prova di un certo talento, ed aveva un piano per la testa. Mi ha incuriosito e comunque non avevo niente da perdere, come lui.”

Lo shinobi di Konoha abbassò il capo verso terra, forse in segno di assenso.

“E’ vero che non ha mai avuto granché da perdere,” commentò piano, quasi parlando tra sé.

E Suigetsu ricordò improvvisamente la battaglia, l’occhio rosso e una frase di Sasuke di settimane prima sul suo sensei, e seppe.

“Kakashi Hatake, il ninja copia,” asserì neutro.

Lo shinobi sollevò il volto con un accenno di sorriso composto.

“Già. Vogliamo andare avanti?”

Suigetsu si sentì stanco, tutt’a un tratto. Konoha era un posto che non aveva mai visto, un posto che per lui aveva un unico riferimento: Sasuke. Come se non bastasse, tutte le persone che stava incontrando sembravano aver avuto un legame più o meno reciproco di una certa importanza con il defunto erede dello sharingan.

“Non so molto. Non siam...eravamo soliti fare grandi conversazioni. Non ho assistito alla morte di Itachi. I colloqui tra Sas’ke e Madara avvenivano sempre senza testimoni. Il mio ruolo nel Falco era, temo, quello di braccio destro del moccioso, ma Sas’ke mi diceva quel che occorreva sapessi e nient’altro, né mi sarebbe interessato. Eravamo d’accordo da un paio di settimane sulla posizione che avremmo preso al momento del dunque, ed è esattamente quel che abbiamo fatto. È tutto quello che so.”

Kakashi Hatake lo osservò con estrema attenzione, aggrottando la fronte.

“Non è stato un’idea del momento, vuoi dire?” chiese dopo un  silenzio lunghissimo in cui non fece altro che scrutarlo con quel penetrante e asettico occhio nero.

Suigetsu inclinò appena il collo, accennando un sorriso truce.

“Metterci contro l’Akatsuki? No. Credo sia stato il progetto di Sas’ke fin dall’inizio, ma immagino non lo sapremo mai con certezza,” rispose stancamente. Il senso di vuoto si allargò nel suo stomaco senza che potesse farci assolutamente nulla, ma non ne diede alcun segno esteriore. Insieme alla voragine gli nacque dentro una rabbia infinita, generalizzata, e puntò gli occhi sull’estraneo con ostilità. “Sembra che nessuno di voi abbia mai capito granché di lui.”

Kakashi Hatake resse impassibile il suo sguardo per qualche secondo, poi distolse il proprio e si voltò di lato verso la finestra, scrutando distrattamente il cielo crepuscolare. Tacque così a lungo e quel poco che s’intravedeva del suo volto era così teso e pallido che Suigetsu si chiese se non stesse per svenire per la debolezza già notata in precedenza.

“Non penso sia un argomento di tua competenza,” commentò poi fermo il ninja copia, con serietà.

Suigetsu scrollò le spalle con una smorfia sardonica, apparentemente disinteressato.

“Non è che voi di Konoha abbiate fatto molto, no? La so anche io la storia. Avete mandato dei semplici genin e un chunin appena promosso al suo seguito, quando ha lasciato il vostro villaggio. Forse non vi dispiaceva poi così tanto che l’ultimo Uchiha si levasse dai piedi e andasse a farsi ammazzare da Orochim…”

Non fece in tempo a finire di parlare, né ebbe modo di accorgersi minimamente del movimento dell’altro finché la mano del jonin della Foglia non fu serrata intorno al suo collo inchiodandolo al muro. Gemette per il rinnovato dolore al fianco, mentre Kakashi Hatake lo guardava dritto negli occhi con durezza.

“Stai attento a quel che dici, ragazzo,” lo ammonì pacato. “Non sono un uomo che ami scherzare sulla morte delle persone che mi sono care.”

Lo lasciò andare con leggerezza, senza tradire rabbia o altri sentimenti. Suigetsu lo fissò ostile, massaggiandosi la gola con gesti risentiti.

“Voglio andare da Juugo e Karin,” affermò secco.

“Vai pure,” rispose Kakashi Hatake senza più degnarlo di alcun interesse.

Suigetsu barcollò per tirarsi in piedi. Sentì la testa girare per l’estrema debolezza e al primo passo il fianco ferito gli fece così male che non riuscì a trattenere un lamento. Si aggrappò alla porta cercando di prendere fiato nonostante gli spasmi e rimase immobile per qualche secondo.

“Eri suo amico?”

La nuova frase del ninja copia lo fece voltare di scatto, sorpreso. Aggrottò la fronte e storse le labbra verso il basso, mentre lo shinobi continuava a guardare il panorama all’esterno.

“Certo che sì,” rispose fiero, col fiato rotto per lo sforzo di stare in piedi. “Anche se era odioso,” precisò, più che altro per restare fedele a se stesso.

Kakashi Hatake annuì, in silenzio. Suigetsu seppe che ora la conversazione era davvero finita.

Fuori ritrovò la bionda Ino, intenta a sistemare delle siringhe ordinatamente su un carrello.

“Dove sono Juugo e Karin?” chiese, reggendosi contro la parete.

La ragazza sussultò nel sentirsi parlare di sorpresa ed aggrottò gli occhi cerulei con rimprovero, affrettandosi a sostenerlo.

“Ma sei pazzo?” sbottò irata, anche se dal tono pareva più un’affermazione che una domanda. “Non puoi alzarti, eri in pericolo di vita fino a due ore fa! Torna subito a letto!” ordinò, despotica.

Suigetsu si arpionò al muro, scuotendo lentamente la testa.

“Juugo…potrebbero esserci problemi, potenzialmente pericolosi. Non deve sapere di Sas’ke in mia assenza, ne va della vita dei vostri dottori,” la informò spiccio, senza scendere nei dettagli.

Ino sgranò gli occhi, perplessa.

“Cosa intendi?” chiese cauta.

Suigetsu scrollò il capo, sbrigativo.

“Solo quello che ho detto. Fammelo vedere ora.”

La bionda esitò, con espressione seria e viso fosco, aggrottato. Scosse nuovamente le chiome dorate, riflettendo tra sé, quindi lo puntellò per aiutarlo a camminare.

“Tu sei proprio pazzo,” borbottò bizzosa.

Non aggiunse niente altro, né Suigetsu riprese a parlare mentre si trascinava avanti. Non aveva mai provato un’ansia del genere. Riusciva ad avvertire quasi fisicamente la sensazione di angoscia, tanto da aver voglia soltanto di liquefarsi e, per la prima volta, non per poi ricomporsi da qualche altra parte. Poteva avvertire concretamente la preoccupazione per Juugo e Karin appesantirgli il respiro, e la sensazione non gli piacque. 

Non erano affari suoi, se quei due non sarebbero stati in grado di cavarsela. Non era certo un problema suo se Juugo era pazzo, che si arrangiasse. Quanto a Karin, poi…se l’era voluto, Sasuke, no? Nessuno l’aveva costretta ad invaghirsi, ed era così insopportabile, petulante, oca e insopportabile – e insopportabile, seriamente – che non sarebbe certo stato così stupido da preoccuparsi di lei.

“La stanza è quella in fondo a questo corridoio, ora la…” iniziò Ino, dopo una faticosa svolta a sinistra.

“Vado da solo,” esclamò Suigetsu brusco, divincolandosi dall’appoggio della ragazza.

“Ma non ce la fai, razza di testar…” ribatté Ino piccata, mentre lui rimbalzava avanti contro la parete, sottospecie di patetico antieroe. Non riusciva davvero a capacitarsi di se stesso.

“Dammi retta, è meglio. Restate tutti alla larga da questa zona. Tra poco qui ci sarà da ridere,” e nel dirlo sorrise davvero, con amaro sarcasmo. Il suo sguardo si mosse nel corridoio per puro istinto finché non trovò quanto di più corrispondente all’oggetto delle sue ricerche: un bisturi sul carrellino a metà lunghezza tra lì e la stanza di Juugo. Suigetsu lo afferrò con scioltezza mentre vi passava accanto, sbuffando leggermente tra sé. Non era proprio come avere tra le mani una katana, ma almeno tagliava.

Ino si era fermata, esitava qualche metro dietro a lui. Suigetsu le lanciò un ultimo sguardo di ammonimento e lei parve comprendere che il pazzo era serio. Sembrò ancor più inquieta, ma non lo seguì.

Suigetsu si issò dentro la stanza dove riposava Juugo. Registrò con fastidio la presenza di altri due feriti, ma in fondo erano shinobi di Konoha e se durante la crisi Juugo li avesse ammazzati lui non avrebbe certo sprecato tempo a dolersene. L’importante era non rimetterci la propria, di pelle, e finora aveva funzionato. Non se ne sentiva contento, al momento, ma questo sarebbe venuto da sé: bastava soltanto aspettare che l’immagine di Sasuke sbiadisse un po’.

“Ehi,” borbottò rigido, sporgendo il capo per sbirciare se l’altro fosse sveglio o no.

S-s-suigetsu? Sei…tu?”

La voce di Juugo era già inquieta, mentre socchiudeva faticosamente gli occhi mormorando quelle prime parole speranzose.

“Se non sono io, mi somiglio molto,” rispose lui con superiorità, ironico. “Come va, hai ancora tutti i pezzi al loro posto?” continuò con noncuranza.

S-sì, questo sì ma…Suigetsu, credo di a-avere urgente bisogno…dov’è Sas’ke-kun?” continuò febbrilmente Juugo, con un evidente sforzo per dominare se stesso, il volto contratto e le mani serrate.

Suigetsu si passò stancamente le mani sul viso, talmente afflitto da non accorgersi neanche di aver mancato il proprio bulbo oculare con la lama del bisturi di appena qualche millimetro.

“C’è un problema, Juugo. Non credo che Sas’ke possa venire,” annunciò atono, scandendo le parole senza alcune espressività.

S-sta male? E’ ferito gravemente?”

La voce di Juugo era stridente, adesso, e le sue mani già tremavano. Era questione di attimi, ormai. Suigetsu buttò fuori un groppo di fiato amaro e chiuse gli occhi per un secondo, poi li riaprì.

“Sas’ke è morto, Juugo.”

Poi cercò di impedire ai propri timpani di sentire la voce di Juugo, il suo urlo disperato e la sua furia. Cercò di non ascoltare nessuna delle sue parole sofferenti, e ci riuscì così bene che era già pronto a scattargli addosso non appena quello si rizzò in piedi con la furia violenta del suo doppio interiore. Lo sbatté al muro con tutta la forza che il suo corpo malmenato riuscì a mettere insieme e avvicinò il bisturi alla sua gola, non senza curarsi di tenerlo abbastanza lontano da non colpirlo accidentalmente mentre si divincolava, con spasmodiche convulsioni.

“Non puoi…v-vattene, Suigetsu!” urlò Juugo coprendosi il viso, rabbioso. “Presto!”

Col cavolo. Se quel fighetto di Sasuke poteva farlo star buono con uno sguardo, lui avrebbe fatto anche di meglio. Anticipò un suo pugno e lo sbatté ancora al muro, sapendo bene di avere i decimi di secondo contati. Inchiodò il suo collo alla parete e avvicinò il volto al suo orecchio, prendendo fiato.

“Juugo, maledizione!” urlò a pieni polmoni. “Se fai questo ti ammazzano! E poi ammazzano me e Karin, penseranno che li vogliamo attaccare. Juugo, ascoltami!”

Il colpo lo scaraventò via, facendolo arretrare boccheggiando di un paio di metri. Scosse la testa, intontito, mentre l’altro gli si buttava di nuovo addosso con un grido d’attacco quasi bestiale. Suigetsu, nello stato in cui era, non avrebbe potuto muoversi nemmeno volendo. E si sorprese quando vide Juugo finire a tappeto sotto il violento pugno di uno dei feriti che avrebbero dovuto in teoria rivelarsi un impiccio.

Pensò che avrebbe ringraziato, semmai, in un altro momento e si avvicinò di nuovo, alzando la voce.

“Dobbiamo arrangiarci tra noi, adesso, non c’è più niente da fare. Sas’ke non ti può più aiutare. È finita, il Falco ha chiuso le ali. Ora dobbiamo cercare di restare a galla, e credo in materia di saperne abbastanza,” e azzardò un sorriso sornione, con un bagliore acqueo nelle iridi chiare. Juugo era immobile e tremava, gli occhi assenti e spiritati. Suigetsu picchiò il palmo della mano accanto alla sua testa per risvegliare la sua attenzione. “Lo capisci, Juugo, non è vero? Non sei ancora diventato tanto stupido.”

E per un istante fu certo che sarebbe stato di nuovo colpito, invece Juugo scivolò verso terra, da appoggiato che era alla parete, si lasciò scorrere giù accasciandosi, sdrucciolò tra le sue braccia tese a fare leva sul muro a si acquattò a terra. Suigetsu lo sentì piangere soffocando i singhiozzi, in sordina, e chiuse gli occhi con rinnovato affaticamento.

Per fortuna Juugo era ferito e stremato dalla battaglia, o non si sarebbe fermato.

Lo spadaccino gettò via il bisturi, voltò la testa verso il ferito che l’aveva soccorso e rantolò “Ino”.

L’uomo si affacciò alla porta e chiamò la dottoressa, mentre lui si chinava verso Juugo senza poter dire proprio niente.

L’uomo si avvicinò di nuovo a loro, con fare solerte.

“Chi sei tu?” borbottò Suigetsu, sedendosi a terra in cerca di riposo.

“Il mio nome è Genma. Sono un jonin di Konoha,” rispose l’uomo serio, scrutando attentamente Juugo, ancora scosso da violenti tremiti. “Il tuo amico sembra non stare affatto bene.”

“Non è mio am…” rispose meccanicamente Suigetsu, sostenuto, serrando poi le labbra di scatto. “…Sì. Ha qualcosa che non va, ma andrà meglio,” brontolò controvoglia.

Ino fu loro vicina dopo pochi secondi, somministrò a Juugo un pesante calmante e suggerì a Suigetsu di tornare a riposare.

Lo spadaccino vagheggiò l’ipotesi per qualche secondo, ma l’immagine spiacevole di Karin lo costrinse a demordere. Non che si sentisse tenuto a fare qualcosa per lei, anche perché Karin non l’avrebbe apprezzato e restava odiosa, ma insomma. Bisognava che qualcuno le dicesse qualcosa a proposito di Sasuke, no? E poi, se non ci avesse pensato lui a darle una calmata sarebbe partita con un melodramma infinito, e dopo chi la sopportava più.

Liquidò la kunoichi della Foglia senza troppi complimenti, ribadendo la necessità di vedere entrambi i compagni di squadra immediatamente. Ino sembrò seriamente esasperata e sbuffò teatralmente, tentò di opporsi e lo minacciò di addormentarlo con i sedativi e di chiamare il senpai Kakashi, ma Suigetsu non si fece intimidire.

“Fa’ quel che ti pare, bambolina,” replicò beffardo. “Ne parliamo dopo, eh.”

Ino gli strillò dietro che un sospettato di tentata strage non poteva andarsene in spasso per l’ospedale come se niente fosse e che avrebbe mandato una squadra ANBU, ma poi finì per borbottare, altera e astiosa, che la camera in cui era sistemata Karin si trovava nella direzione opposta.

Era tempo, perché Suigetsu cominciava ad essere confusamente impaziente, forse per liberarsi di quell’incombenza sgradita dell’annunciarle la morte di Sasuke. Forse perché sarebbe stato divertente vederla piangere.

Forse perché era meglio che non fosse sola.

Era un pensiero decisamente idiota e Suigetsu se lo rimproverò immediatamente, scuotendo la testa con benevola condiscendenza verso se stesso. Dopotutto non poteva mica essere intelligente ventiquattro ore al giorno, era un essere umano. Beh, all’incirca.

Vacillava nel corridoio, affacciandosi una porta dopo l’altra nella ricerca delle chiome rosse e infuocate della kunoichi senza far minimamente caso agli altri feriti. Non erano fatti suoi, quelli, e non badò a nessuno dei visi che vide scorrere. Fu soltanto dopo parecchi usci, buttando l’occhio per l’ennesima volta in una stanza asettica e chiara, che intravide ciocche di capelli d’un biondo inconfondibile risplendere sul biancore del cuscino.

Suigetsu serrò i pugni con violenza e strinse di scatto la mascella. I suoi denti cigolarono per la pressione mentre deglutiva amaramente e si lasciava colmare dalla rabbia. Marciò nella stanza senza nemmeno pensare, con un sorriso perfido e aggressivo.

“Beh,” esordì, mentre il degente si voltava di scatto e, alla sua vista, i suoi occhi azzurri si sgranavano addolorati. “Non c’è che dire, sei riuscito a riportarlo indietro. Bravo, sarai contento.”

Gli occhi di Naruto si spalancarono ancora di più, offuscati da un velo lucido, e Suigetsu si sentì ancora più incazzato di riflesso. C’era poco da piangere, ormai.

“Lasciami stare,” mormorò poi Naruto piano, voltandosi verso la parete.

“Ma certamente,” rispose Suigetsu mellifluo, l’adrenalina che quasi lo faceva tremare. “Povero piccolo jinchuuriki, vittima innocente del demone malvagio. Non sei stato tu, giusto? Sicuro, è stato Kyuubi. Sono due cose completamente…diverse,” concluse, con un sorriso affilato in cui riversò tutta la sua cattiveria.

“LASCIAMI STARE!” ruggì Naruto, scagliando il cuscino verso di lui con un moto di rabbia animale, così pallido da sembrare anche lui morto. Tremava tanto che lo poteva vedere anche Suigetsu dalla distanza a cui era. “Cosa ne sai? Cosa ne sai di cosa sia voler disperatamente salvare qualcuno e invece distruggerlo, eh?”

La sua voce vivace era distorta da un rantolo di disperazione, il volto teso da uno spasmo di sofferenza innaturale. Suigetsu arretrò istintivamente di un passo e si rese conto di aver toppato alla grande. Non era grave, aveva la faccia tosta per uscirne bene. Ma gli occhi di Naruto, dei, sembravano un pozzo di tormento.

Desiderò non essere entrato nella stanza. Stava andando da Karin, era almeno mezz’ora che voleva raggiungerla e continuava a fare deviazioni assurde, forse solo perché temeva istintivamente di trovarsela davanti. Era stato difficile fare l’annuncio a Juugo, ma più che altro per il timore delle sue azioni. Karin era un’altra cosa. Peraltro, avrebbero sicuramente finito per scannarsi anche in quel contesto.

E adesso Naruto, con quella faccia, e quello sguardo.

Pensò di dire qualcosa. Forse che dopotutto non era colpa sua se Sasuke era morto. Che gli dispiaceva, non avrebbe dovuto parlare così. Ma lo guardò e nel farlo pensò al sorriso del genio, che aveva visto in due sole occasioni. Si rese conto che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata una ridicola finzione. Stava diventando scemo, altroché.

Si voltò indietro e traballò fuori, lasciandosi alle spalle Naruto e la voragine del suo senso di colpa di assassino.

Quando la trovò, Karin era nelle mani di una dottoressa che non era la bionda Ino. L’estranea scrutò l’uomo del Falco con diffidenza e provò a fargli notare che non era il momento delle visite.

“Non intendo restare tutta la giornata, ho un impegno con una bionda da urlo,” ribatté Suigetsu senza scomporsi, prima di abbandonarsi su una sedia nella speranza vana di placare il lancinante dolore al fianco. “Ci metto un attimo.”

Karin lo guardava in silenzio. Nonostante fosse prostrata e smarrita Suigetsu intuì immediatamente nel suo sguardo la consueta scintilla dell’antipatia sempre viva di lei nei suoi confronti. Per qualche motivo questo lo tranquillizzò, permettendogli di respirare meglio. Karin lo odiava come sempre, almeno una cosa normale c’era ancora.

“Dormito bene?” chiese con scherno.

Karin non  rispose, rimanendo immobile con gli occhi fissi. Suigetsu la guardò meglio e si accorse che qualcosa non andava. Il suo volto era di un biancore allarmante, le labbra tirate e quasi livide, le braccia serrate a lato del corpo con eccessiva pressione.

Aggrottò la fronte, perplesso. Ottimo, se stava già così di suo, figurarsi dopo aver saputo che Sasuke era morto. Proprio una fortuna, averla nel Falco.

“Lo so già.”

La voce flebile e cantilenante di Karin lo riportò bruscamente alla realtà, facendolo sussultare.

“Cosa?” gracchiò interrogativo, intuendo un’inquietante ipotesi.

“Lo so già,” ripeté Karin esangue, con voce fredda e sterile. “Ho visto mentre succedeva.”

Suigetsu rimase soltanto immobile. Per la prima volta da quando la conosceva non gli venne in mente nulla di cattivo da dirle, piegò soltanto le labbra verso il basso con un genuino moto di disgusto verso la vita in generale. Questa era veramente una carognata, a Karin non sarebbe dovuto succedere. Cioè, non che lei non meritasse il peggio, ma così era troppo per chiunque.

Chinò la testa, per non farsi vedere senza parole.

Karin inspirò un rantolo raccapricciante.

“Voglio dimenticarmene. Voglio dimenticarmi di averlo visto morire, voglio scordare la sua faccia e il suo nome e il suono della sua voce come se non fosse mai esistito,” aggiunse, e il suo tono adesso era acuto e affannoso, quasi supplice, la mano era artigliata alla guancia tanto da graffiarla a sangue.

“Così al massimo ti cavi un occhio,” commentò Suigetsu asciutto, d’istinto.

Sperò che Karin gli rispondesse male, che lo mandasse a quel paese e gli desse del povero stronzo, invece lei chinò la testa verso le gambe raccolte, affondando il viso nella coperta.

“Sai chi mi ha soccorsa?” chiese secca, con rancore. “Quella.”

Suigetsu rimase per un istante disorientato, preso in contropiede dal brusco cambio di argomento. Aggrottò pensosamente la fronte per qualche secondo, prima di sbuffare annoiato.

“Oh. Sakura, o come si chiama,” dedusse, laconico.

“E’ andata vicino a…” Karin s’interruppe, inspirò forte. “Gli ha sentito il polso e…si è messa a piangere. Ho capito che era morto, altrimenti avrebbe fatto qualcosa. È un medico, no? Invece stava lì e piangeva così forte che avevo voglia di urlarle di smetterla, maledetta oca. Lo stringeva e singhiozzava. Volevo ucciderla, capisci?”

Suigetsu non si stupì poi più di tanto di quell’ultima affermazione. Era facilissimo attirarsi le mire omicide di Karin, lui ci era riuscito in meno di due ore la prima volta che si erano incontrati.

“Se è solo per questo, la settimana scorsa borbottavi di voler uccidere Juugo per un fondo di salsa di soia,” replicò noncurante, tentando ancora, automaticamente, di far esplodere il risentimento di lei. Dei, voleva un insulto. Si era fatto un mazzo tanto, no? Aveva il sacrosanto diritto di pretendere una feroce sequela di vituperi.

“Sei un povero imbecille ritardato, Suigetsu,” sussurrò Karin con profonda disapprovazione, sprezzante.

Grazie al cielo.

“E tu sei una menosa scocciatrice, Karin. Già so che ora non la pianterai più con questa storia di Sas’ke, così io e Juugo saremo costretti a cavarci i timpani.”

Adesso gli avrebbe risposto che glielo poteva strappare via lei con piacere, un timpano, e magari anche i testicoli. Tendeva a diventare scurrile, nei momenti di angoscia.

“Non sei costretto a starmi a sentire. Vattene.”

Suigetsu socchiuse le labbra, già pronto a rispondere che il suo morboso interesse per i suoi testicoli lo inquietava, ma rimase impalato con la bocca semiaperta ed un palmo di naso.

“Eh?”

“Ho detto vattene, sordo coglione. Non ti voglio qui.”

“Ho attraversato tutto l’ospedale per venire a dar retta alle tue stronzate! Un po’ di riconoscenza, che cavolo,” protestò lui garrulo, oltremodo indignato.

Karin sollevò il capo con un sorriso velenoso, superiore, che non raggiunse i suoi occhi. Suigetsu notò in quel momento che non aveva gli occhiali, e gli parve strano.

“Non è come se annunciassi di aver fatto una marcia di sei giorni nel deserto senza cibo né acqua, no?” lo rimbeccò con apatica indifferenza. “Vattene.”

Suigetsu guardò ancora per qualche secondo i leggeri segni della montatura sui lati del suo naso, maldisposto e allibito. Piegò la labbra con freddo assenso a si rialzò in piedi, aggrappandosi allo schienale della sedia mentre aspettava che la fitta di dolore scemasse.

“Stronza,” constatò piccato, prima di zampettare malamente all’esterno.

Così non c’era gusto. Niente commento edificante di Sasuke sulla loro scarsa utilità sul campo, niente insulti a sfregio di Karin, o minacce di violenza. E Juugo che dava i numeri.

L’assoluta, incontrastabile disfatta.

 

 

Quarto giorno

 

“Senti un po’, mente illuminata,” esordì Suigetsu con pesante sarcasmo, facendo il suo trionfale ingresso nella stanza con passo quasi naturale. “Ho parlato con la medic-ninja. Com’è che non mangi? Guarda che non ti imbocco nemmeno se mi paghi, Karin, e mi riferisco a un sacco, ma un sacco di soldi.”

La kunoichi non spostò nemmeno lo sguardo dal muro.

“Ma perché non somministrano più calmanti, in questo ospedale? Non dovresti stare, non so, sdraiato, immobile e in assoluto silenzio?” replicò gelida. “E poi sei un criminale, ti dovrebbero arrestare.”

Suigetsu sorrise astioso, scoccandole un’occhiata malevola.

“Konoha ci fornisce un’amnistia di tre settimane, a patto che non rientriamo mai più in vita nostra nei confini della Nazione del Fuoco. Come se ci tenessimo particolarmente, poi,” aggiunse con una smorfia di ribrezzo. “Ora mangi?” concluse sbrigativo.

“Ma a te cosa cambia?”

“Da bambino soffrivo la fame. Odio gli sprechi di cibo,” imbastì lui, inventando su due piedi.

“Come no…e poi cosa c’entra? Mica butto via niente, inqualificabile essere,” obiettò Karin con spregio, ma senza degnarlo di vero interesse. “Sei veramente di un’idiozia abissale. Se devi per forza dire stronzate almeno dille credibili,” aggiunse condiscendente, e il suo sguardo rimaneva fisso alla parete.

Suigetsu assottigliò le palpebre, indispettito.

“Ti farò infilare un tubo per alimenti liquidi direttamente nel c…”

“E vattene!” sbottò Karin esasperata.

Lui scosse la testa, marciando via.

Così, continuava a non essere divertente.

 

 

Decimo giorno

 

“Juugo è in piedi. Completamente squilibrato, ma in piedi,” annunciò Suigetsu oltrepassando la porta senza nemmeno bussare.

Non che fosse particolarmente sollevato dal fatto che Juugo stesse almeno fisicamente meglio. Erano stati una squadra per una serie di casualità, ma ora non aveva più vere ragioni per interessarsi di quelle due persone; però era ancora convalescente e non se ne poteva andare, tanto valeva ingannare il tempo. Sì, era per questo.

“No. Non oggi, Suigetsu. Non credo di poterti tollerare.”

“Ma ieri non sono venuto,” obiettò lui, contrariato.

“Ieri è stata la migliore delle ultime dieci giornate della mia vita,” asserì Karin con piatta sicurezza.

“Anche della mia, e pensa che sono io a venire qui spontaneamente e rovinarmele tutte,” replicò lui ironico, scrollando la testa.

Karin sospirò stancamente.

“Vattene o chiamo un infermiere sorvegliante,” lo informò lei telegrafica.

“Per…? Farmi fare un clistere?”

Karin soffocò un suono gutturale, come un guaito sfuggito al suo controllo. Poi serrò gli occhi e quando li riaprì il suo viso era atteggiato a biasimo e profondo fastidio.

“Sei una creatura ripugnante, coso,” sentenziò aggressiva.

Suigetsu represse a stento un sorriso soddisfatto, consapevole di averla quasi fatta ridere. Era tutta questione di stile, tutto lì: Karin sarebbe stata in piedi di lì a qualche giorno e se ne sarebbero andato tutti e tre insieme, per non perdere la faccia davanti a quel villaggio di stronzetti presuntuosi.

Naruto, Sakura, fesserie e scemenze. Erano tutti tanto dispiaciuti per loro, ma dei. Il Falco era stato la sua vita, per tutto il tempo che era durato. Prima loro non erano più niente, non avevano più nemmeno un’esistenza propria: poi era arrivato quel ragazzino presuntuoso e temerario, aveva steso Orochimaru e dato loro un nuovo motivo per esistere. Cosa credevano, a Konoha, che adesso fossero felici?

Credevano che Juugo continuasse a guardarsi intorno per caso, che non stesse cercando gli occhi di qualcuno? O che Karin rimanesse immobile e intorpidita perché era un ragazza pigra e posata? O che lui si trascinasse appresso una custodia di katana – vuota, ché non poteva tenere armi - per far bella figura?

Beh, avrebbe potuto, sì. Ma non era quello il caso.

“Io almeno mi sono lavato, di recente,” osservò tronfio. “Chi è la più ripugnante, mh?”

“Non potrei raggiungere il tuo livello di bassezza nemmeno rotolandomi nel guano per settimane, Suigetsu. Levati di torno.”

Lui annuì indifferente, voltandole le spalle senza parlare oltre. Non aveva importanza, c’era tempo.

Tempo per cosa, non lo sapeva bene nemmeno lui.

 

 

Dodicesimo giorno

 

“Possibile che tu non riesca ancora a stare in piedi?” borbottò Suigetsu contrariato, sbuffando appoggiato allo stipite della porta.

Karin sospirò ad occhi chiusi, senza muoversi.

“Starei cercando di dormire, Suigetsu. Non lo vedi? Sei così stupido da non comprendere le cose più elementari?” osservò maldisposta. 

“C’è differenza tra il non comprendere e il non considerare. Io comprendo che stai cercando di dormire, ma non lo prendo in considerazione. Scelgo consapevolmente di ignorare il tuo intento,” replicò lui vittorioso.

“Io ignorerò le tue fanfaronate da imbecille pieno di sé, allora. Leva le tende.”

“Perché non riesci ancora ad alzarti?” insistette Suigetsu senza badarle.

Karin sospirò profondamente, esasperata.

“il mio chakra sta recuperando lentamente. La tua vicinanza non aiuta affatto, sappilo,” puntualizzò, con una goccia della sua vecchia petulanza. “Perché non te ne vai da solo, o con Juugo?” aggiunse speranzosa.

Lui accennò una smorfia maligna, derisoria.

“Cercherò di essere meno traumatico possibile, Karin: qui non ti ci vogliono. Vogliono essere sicuri che te ne vada prima possibile. Come dar loro torto, d’altra parte.”

“Mi alzerò quando potrò. Non scocciarmi.”

Che piaga infinita, quella ragazza, non fosse stato per la caduta d’immagine e perché Juugo sembrava tenerci, alla storia di partire tutti insieme – e lui non desiderava particolarmente contrariarlo, al momento – se la sarebbe svignata per conto suo. Che se la vedesse da sola, la signorina principessa delle seccatrici.

 

 

Sedicesimo giorno

 

“La medic-ninja dice che se volessi avresti le energie per camminare anche dieci chilometri,” iniziò Suigetsu tagliente, scaraventandosi nella stanza dove Karin continuava a vegetare. “Dice che non ti riprendi perché non vuoi. Sei matta come Juugo, lo capisci che due pazzi per un solo individuo sano sono troppi?”

“L’individuo sano saresti tu?” ribatté Karin scettica, con un’occhiata di aperto disprezzo nella sua direzione.

“Ha. Ha. Ha. Mi sto sganasciando,” commentò Suigetsu, inespressivo. “Tu puoi alzarti, lo devi semplicemente…fare. Non sei debole, sei solo cretina.”

“Come sempre la profondità delle tue analisi mi lascia sbigottita, coso.”

Suigetsu digrignò i denti, frustrato. I giorni si accumulavano e lui metteva la muffa in quel ridicolo ospedale scalcagnato, con Juugo che scalpitava sempre più instabile e la scema che continuava il suo teatrino della vedova affranta, esangue e intorpidita. Una volta aveva quasi riso e in due occasioni aveva alzato la voce, e basta. Considerata la frequenza quasi continuativa delle urla belluine della Karin dei tempi andati, il bilancio era peggio che sconfortante.

“Stammi a sentire, ochetta,” sentenziò con fare superiore. “Ora ti alzi da lì e ti dai una mossa, o fra dieci secondi ti troverai culo a terra. Mi sono spiegato abbastanza chiaramente per le tue limitate capacità?”

“Provaci, verme, e te ne farò pentire!” sibilò lei, ritraendo le gambe.

“Uno, due, tre, dieci,” cantilenò Suigetsu irrisorio, poi scattò su di lei e la afferrò semplicemente per le spalle, come se fosse stata un grosso sacco ingombrante, e nonostante due calci, sei tentativi di divincolarsi e innumerevoli unghiate estirpò una Karin soffiante e inviperita dalle lenzuola.

“Razza di bastardo schifoso!” inveì lei inferocita, scalciando e rivestendolo di pugni alla cieca. “Lasciami, stronzo! Lasciami o t’ammaz…” minacciò, interrompendosi di botto nel trovarsi in piedi. Soffocò un singulto e traballò, facendo per ributtarsi sul materasso.

“Ferma lì, psicopatica,” l’ammonì Suigetsu bloccandola al volo.

“E lasciami, pesce del cazzo!” sbraitò Karin, colpendolo con più forza. Suigetsu incamerò il cazzotto con un sospiro condiscendente, scuotendo la testa con perfida bonarietà.

Ma Karin si lasciò andare a peso morto, con un ansito da agonizzante, e per poco non trascinò a terra anche lui. Ringhiò convulsamente, picchiando i pugni sottili a terra.

“E tirami su, pezzo di merda!” intimò furiosa. “Tirami…tira…”

Suigetsu era rimasto fermo, preso completamente alla sprovvista da quel gesto inatteso e forse autentico. Magari la medic-ninja non capiva un accidente e Karin stava lì per. Ma poi la sentì scoppiare in singhiozzi, il viso volto verso il pavimento, e realizzò che forse la medic-ninja non era poi così tonta. La sentì farfugliare un qualcosa di incomprensibile in cui ricorreva la lettera esse e non gli ci volle particolare fantasia per intuire che il nome Sasuke c’entrava in qualche modo.

“Ripeti sillaba per sillaba che non capisco niente, Karin. Scandisci, diamine,” commentò sarcastico, senza aspettarsi realmente di essere ascoltato. E difatti lei continuò a piangere, e forse era meglio così, perché non l’aveva ancora vista versare una sola lacrima. Continuò a singhiozzare anche quando l’ebbe issata di nuovo sul letto, rannicchiandosi sotto le coperte fino a sparirvi quasi completamente. Soltanto qualche ciocca di capelli rossi sbucava dalle sommità delle lenzuola.

Suigetsu si voltò e lasciò la stanza in silenzio. Si chiuse la porta alle spalle, scuotendo la testa per costringersi a non provare niente di vagamente simile alla pena e alla comprensione per la stronzetta. Karin non ce la poteva fare, Juugo andava spostato alla svelta. L’avrebbe lasciata lì, forse a Konoha sarebbero stati clementi e l’avrebbero graziata. In ogni caso non era un suo problema: non era un leader, era un individualista. Lui voleva diventare il più grande spadaccino della Nebbia e possedere tutte e sette le spade, il Falco era stata un parentesi che ormai andava chiusa.

Avrebbe trovato un posto in cui scaricare Juugo, e tanti saluti.

Quanto a Karin, peggio per lei.

 

 

Diciannovesimo giorno

 

“Karin.”

La stanza era immersa nella penombra notturna, ma Suigetsu percepì il movimento e seppe che lei lo stava sentendo. Ma non gli rispondeva, non lo faceva da tre giorni.

“Io e Juugo partiamo dopodomani,” annunciò freddo. “Se non vuoi rimanere qui da sola, questo è il momento per muoverti.”

Karin non rispose ancora.

“Andiamo verso il mio paese, la Nebbia. Troveremo qualcosa da fare, laggiù, e poi io sto ancora cercando le spade,” continuò con tono impersonale.

Karin continuò a non rispondere, perfettamente silenziosa.

“Lui resterà con me. In fondo un paio di braccia mi possono fare comodo, non sarà uno scherzo battere tutti gli altri spadaccini. Devo solo capire come farlo star buono quando dà di testa, ma ci sto lavorando su.”

Nessuna risposta.

Suigetsu sospirò, sconfitto. Si passò la mano tra i capelli e torse le labbra, seccato.

“Ho sempre saputo che sei terribilmente scema, ma non pensavo così tanto. Non serve a niente quello che stai facendo. Senti, Karin, io penso di avere imparato una cosa. Non è che sia il tipo da lezioncine morali buoniste, però credo di aver capito che ci sono cose per cui morire e altre no. Penso che ci sia una verità, dietro questa storia, e che niente sia successo per caso ma per…far vedere a tutti noi una cosa importante. Sas’ke non è morto per uccidere Itachi Uchiha, invece è morto per salvare Naruto Uzumaki. Penso che questo dovrebbe indicarci qualcosa,” spiegò, e gli parve strano come fosse facile sviscerare parlando con Karin tutto quel che gli frullava in testa da giorni.

“Tipo che la vita è una cosa orrenda?”

Suigetsu non si aspettava più che Karin parlasse e poco mancò che gli facesse paura, ma recuperò in fretta la composta sfacciataggine che lo caratterizzava.

“No. Che magari a volte…oh, sei veramente odiosa. Dai così fastidio che preferirei sedermi su un nido di formiche rosse,” borbottò stizzito. “Guarda, partirò con la mia spada e con una custodia di katana vuota. La porterò con me, perché credo di aver capito che a volte le persone contano, e conta quel che lasciano in te. Non che tu personalmente conti, intendiamoci, e non volevo per forza citare Sas’ke ma…”

S’impappinò miseramente, smozzicando un’imprecazione a mezza voce. Ma tu guarda che figura di merda, e con l’arpia per giunta.

Prese fiato, tornando verso la soglia.

“Il Falco era una bella squadra. Ci abbiamo creduto, no?” concluse atono.

Si allontanò senza aspettare oltre.

Lui ci aveva creduto. E anche se senza Sasuke non sarebbe stata la stessa cosa, avrebbe continuato a crederci per tutti e due. Adesso lo poteva ammettere.

 

 

Ventunesimo giorno

 

“Forse potremmo aspettare fino a domani, Suigetsu.”

Juugo sembrava incerto, riluttante. Continuava a guardare il letto rifatto con inquietudine.

“No che non possiamo, a meno di fingere di non saper contare. Ci hanno detto di andarcene entro tre settimane per approfittare dell’amnistia, e oggi scadono le tre settimane. Cosa non ti torna?” ribatté Suigetsu truce.

“Ma Karin…” iniziò Juugo, incerto.

“Se vuoi puoi stare qui con lei,” lo interruppe lui, sarcastico. Si cacciò la custodia vuota a tracolla, con un gesto fluido. Come spadaccino della Nebbia faceva ridere, ma alle porte di Konoha gli avrebbero reso la sua spada e forse sarebbe riuscito di nuovo a respirare normalmente.

Juugo sospirò avvilito, caricando in spalla lo zaino da viaggio che Ino Yamanaka aveva regalato loro. Per i begli occhi di Suigetsu, sospettavano entrambi.

“Addio, Konoha,” borbottò depresso.

Suigetsu annuì senza parlare, stringendo i denti con discrezione. Addio, Konoha, addio occhi da pazzo. Addio, psicotico dello sharingan, addio.

Addio, Karin.

Piegò la testa verso il basso con scarso entusiasmo, incamminandosi verso la porta della stanza. Sentì Juugo andargli appresso, percorrere a nemmeno un metro da lui il corridoio asettico, le scale chiare, l’atrio male illuminato. Non si guardò nemmeno intorno, perché gli dava fastidio il modo in cui la gente del Fuoco li osservava.

Quando fu fuori strizzò gli occhi per la luce abbagliante. Lo fece automaticamente, e poi sollevò d’impulso lo sguardo ferito a sfidare il sole, come aveva visto fare tante volte a Sasuke. Gli sfuggì un sorriso amaro. Sfidare il sole, perché no. Non abbiamo niente da perdere, giusto? A parte la pelle, ma in fondo rimettercela non è poi la fine del mondo, dicono.

La custodia della katana di Sasuke rimbalzò contro la sua schiena, rassicurante, e Suigetsu si trovò a pensare che sarebbe stato quasi divertente se ci fossero stati tutti e tre. Ma Karin era irrimediabilmente scema.

“Zotico vigliacco, potevi almeno venire a chiamarmi un’ultima volta.”

Sobbalzò vistosamente nell’udire quella voce nota e altezzosa, voltandosi di scatto verso destra mentre s’imponeva di bloccare un sorriso sollevato. Karin era appoggiata al muretto lungo la via a braccia conserte. Aveva un’espressione indispettita e sprezzante, ma non lo guardava in faccia.

“Per fortuna sono venuta ad aspettarvi fuori, o mi avreste lasciata qui. Bella squadra, complimenti.”

Karin era imbarazzata, si vedeva. Si vedeva anche che era triste, così pallida e emaciata, ma non si poteva dire che fosse l’unica in circolazione.

“Ma sono tre settimane che ti chiamo, oca sculettante,” ribatté lui piccato, con uno sbuffo.

“Io non sculetto, razza di maiale! E sei un pervertito, non guardarmi il sedere!” intimò Karin sdegnosa, minacciandolo con la mano tesa mentre li raggiungeva, affiancando la loro avanzata.

“Ma chi te lo guarda, il sedere!” ribatté Suigetsu disgustato. “Preferisco osservare un accoppiamento tra rospi, patetica femmina.”

Juugo li lasciò continuare a bisticciare, restando indietro di qualche passo. Accennò tra sé un sorriso nell’osservare quella scena per lui tanto abituale, espirando fuori un po’ di tristezza. Il Falco resisteva: Sasuke era morto, ma quello che aveva costruito era rimasto in piedi, e Suigetsu e Karin continuavano a litigare.

 

 

__________________________________

 

 

 

Suigetsu si caricò la spada in spalle con un autentico sospiro di sollievo, resistendo a stento dall’impulso di abbracciarla e principalmente per non fare figure con il chunin di Konoha che gliel’aveva appena riconsegnata e li osservava concludere i preparativi alle porte del villaggio in ricostruzione.

“Bene,” affermò, bilanciando il peso sulle gambe. “Pronti?”

“Sì! In che direzione andiamo?” chiese Juugo, e lo spadaccino si accorse che guardava lui. Storse il naso, incerto, prima di lanciare uno sguardo fuggevole a Karin ma, diamine, anche lei lo stava guardando.

Sollevò di nuovo gli occhi verso il cielo, socchiudendoli nel puntarli dritti al sole.

“Ad est,” esclamò deciso, accennando un sorriso. “Verso la Nebbia e le mie sette spade,” precisò mettendosi in marcia. Juugo annuì soddisfatto, avviandosi al suo fianco, e Karin li seguì senza apparenti reazione.

Poi sbuffò.

“Conoscendoti ci porterai sicuramente a perderci, coso. Probabilmente finiremo dritti ad ovest,” osservò tagliente.

“Andiamo, tu sapresti perderti anche nel giardino di casa. L’ipotetico giardino sul retro, quello minuscolo,” replicò Suigetsu torvo.

“Nient’affatto, stronzetto!” trillò Karin sdegnata. “Per tua informa…”

Le loro voci concitate e battibeccanti si persero in lontananza mentre Udon, dal suo posto di guardia, li osservava allontanarsi ormai fuori dalla portata del suo orecchio.

Gettò un’ultima occhiata alle due sagome in testa, gesticolanti e minacciose, e scosse piano il capo.

Ne era definitivamente convinto: quei due dovevano proprio essere sposati.

   
 
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