Storia arrivata seconda al “Contest ANTIROMANTICO SuiKa” e vincitrice del Premio per lo stile.
Sono commossa.
Ho avuto due bellissimi bannerini ma non sono
buona a metterli su con EFP. Lo farò appena la giudice o qualcun altro
di competente avrà avuto la bontà di spiegarmi come.
E dopo questa bella autocelebrazione, ringrazio
sentitamente Mala_Mela
e Hipatya,
mi congratulo con le altre partecipanti e vi lascio alla fanfic.
Buona lettura
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Gli sembrava ci fosse un rumore continuo, persistente. Un
ronzio che tappava le sue orecchie e rendeva i suoni distorti, le voci fumose e
rimbombanti. Non arrivava a vedere bene, vuoi per la posizione sdraiata, vuoi
per l’estrema debolezza. Scorgeva il bianco del soffitto e una mano che
entrava ed usciva saltuariamente dal suo campo visivo.
“Dove sono i miei compagni?” biascicò,
per l’ennesima volta consecutiva.
Non riusciva a smettere di pensarci. Anche se li aveva
sempre reputati tre perfetti imbecilli ed era convinto che essere stato
liberato da Sasuke fosse una delle cose peggiori mai capitategli –
perché era evidente che fosse così già solo per il fatto
che si era trovato costretto a convivere con tre imbecilli, fino ad arrivare a
considerare il numero sproporzionato di volte in cui aveva rischiato la vita
nel Falco – l’idea che potessero essere morti lo sprofondava in un
panico insensato che rendeva quasi impossibile anche il semplice respirare.
“Sta’ calmo,” intimò una voce
femminile, squillante e imperativa. “Sei ferito abbastanza gravemente,
cerca di non muoverti.”
Suigetsu non le prestò nemmeno vagamente
attenzione, sbuffando rumorosamente nonostante le lancinanti fitte al fianco.
“Dove diamine sono i miei compagni?”
ripeté ancora, caparbio.
“Ma perché non sta zitto un momento?”
sentì borbottare qualcuno con fastidio, poi udì dei passi
allontanarsi.
“Ehi! Io sto zitto quando mi pare e pia...”
S’interruppe di scatto nel rizzarsi a sedere, serrò le labbra e se
le morsicò per soffocare il grido di dolore dovuto a quel movimento,
mentre ricadeva indietro sul materasso mugolando.
“Pessima idea, tigre,” lo schernì la
voce femminile, cui adesso poteva collegare un volto: una bella ragazza bionda
dall’aria stanca e provata, con grandi occhi azzurri e la pelle chiara.
Se ne disinteressò completamente, storcendo le labbra in una smorfia.
“Dove sono loro?”
La bionda chinò lo sguardo, allungò le mani
e riprese a lavorare sulla sua fasciatura.
“Il tipo strano e la ragazza dovrebbero
cavarsela,” illustrò, con tono professionale.
Il tipo strano doveva essere Juugo – ed
effettivamente, come darle torto, era strano davvero; oh, sì, e lei non
sapeva quanto – e la ragazza era Karin, ovviamente. Sentì
un’ondata di sollievo percorrergli l’interezza del corpo come una
scarica rigenerante al pensiero che sarebbero sopravvissuti, quasi gli
sembrò di udire la voce acuta e un po’ petulante della kunoichi più insopportabile di tutte le Nazioni
maggiori.
“Bene. Sas’ke è col suo amichetto
volpe?” chiese, con improvvisa, beffarda allegria.
La bionda voltò la testa di scatto. Le sue labbra
tremarono in modo incontrollato e Suigetsu per un secondo vide nero, mentre i
suoi polmoni si strappavano con improvvisa angoscia.
“Uchiha Sas’ke è morto in seguito alle
ferite riportate nel contrasto con il bijuu risvegliato. Il suo cuore si
è fermato dieci minuti fa.”
Suigetsu riuscì soltanto a spalancare gli occhi,
la voce della bionda gli risuonò in mente come l’eco di una
valanga mentre gli sembrava che tutto il rumore sparisse improvvisamente
annegando un in soffocante silenzio.
La bionda si passo velocemente il dorso della mano sugli
occhi, voltando la testa.
“Mi stai dicendo che quello sfigato in arancione di
Uzumaki l’ha fatto fuori?” esalò lui, e gli faceva male
dappertutto, all’improvviso, non era solo la ferita e nemmeno la tempia
che aveva battuto contro le rocce quando Madara
l’aveva colpito, né le gambe indolenzite dalla lunga battaglia, ma
era tutto insieme e anche il resto, era dentro lo stomaco e nei polmoni.
Pensò di urlare, ma non ne aveva il fiato.
La bionda si sporse di scatto verso di lui, avvampando di
rabbia. Arricciò le labbra con malcelata ira.
“No, non Naruto. Kyuubi,” affermò, e
la bella voce squillante tremava dolorosamente. “Naruto non avrebbe
mai...”
La bionda chinò la testa e tacque, ma Suigetsu non
vi badò.
“Non ti
mettere contro di me adesso, non ti conviene.”
Il sorriso di
Uchiha Madara era così sfacciatamente sicuro
di sé da far venire la nausea.
“Che ti
dice che mai stato dalla tua parte?”
Sasuke non gli
era mai sembrato tranquillo come in quel momento, piantato a gambe larghe tra
il leader dell’Akatsuki e il jinchuuriki di Konoha, tanto che Suigetsu
per un attimo s’era chiesto dove fosse finito il suo tetro, iroso
caposquadra dalla lingua appuntita come una lama.
Madara non si era mosso per qualche
secondo. Aveva soltanto sorriso con infinita superiorità, noncurante, e
poi Suigetsu l’aveva visto voltarsi verso di lui.
“E tu?
Vuoi morire anche tu come questo ragazzino sconsiderato?”
Aveva sbattuto
le palpebre una volta, perplesso dalla domanda inattesa.
“Chi credi
di minacciare, specie di pazzoide?” era intervenuto Naruto, facendo
rabbiosamente un passo avanti.
“Suigetsu.
Raggiungi Karin e Juugo e levatevi dai piedi. Questa non è la vostra
guerra. Naruto, fai quello che ti pare ma non guardare quell’uomo negli
occhi.”
Suigetsu aveva
sbattuto nuovamente le palpebre, allibito. Per un momento gli era scappato
quasi da ridere, ma si poi si era trattenuto pensando che non avrebbe giovato
all’atmosfera pregnante del momento. Dei, Sasuke era davvero un ragazzino
sconsiderato: cosa credeva di fare, da solo con il jinchuuriki imbecille?
Poteva anche essere forte come nessun altro, Uzumaki, ma a suo avviso e del
tutto arbitrariamente restava un cretino.
“Non hai
sentito il tuo capo?” lo aveva apostrofo Madara
con aperto scherno.
Suigetsu aveva
sorriso a sua volta, caricandosi meglio il peso della lama sulla spalla,poi aveva portato una mano al fianco in posa
sfacciatamente provocatoria.
“Non
è il mio capo,” aveva risposto, calmo e irriverente.
“E’ quello che guida il nostro gruppo. Gli devo un favore e non mi
piacciono i debiti. Siete una famiglia di pazzi e non darò retta
né all’uno né all’altro, quindi no, non intendo
morire e no, non muoverò un passo da qui.”
Naruto aveva
grugnito qualcosa in approvazione, Sasuke si era voltato verso di lui col naso
arricciato, come succedeva ogni volta che qualcosa lo contrariava profondamente
– cioè continuamente.
“Raggiungi
Juugo e Karin.”
Suigetsu aveva
socchiuso le labbra pronto a rispondere, ripetendo per l’ennesima volta
che il fatto di aver sconfitto Orochimaru non lo autorizzava a comportarsi da
piccolo tiranno, ma poi le aveva allargate in un sorriso sbruffone.
“Loro,
intendi?” aveva chiesto, indicando i due shinobi che atterravano a pochi
metri di distanza dopo una precipitosa corsa tra gli alberi.
Sasuke aveva
biascicato qualcosa incollerito, tornando a guardare Madara
con i suoi occhi neri, che pure brillavano come fiamme rossastre anche senza
sharingan.
E poi
c’era stata la battaglia, violenta come la fine del mondo.
“Non è morto. Uno shinobi del genere non
muore semplicemente cosi, come se niente fosse,” affermò
faticosamente, stringendo spasmodicamente il lenzuolo per tentare di mantenere
la calma. Gli devo un favore e non mi
piacciono i debiti, che bella stronzata. E’ un matto ed è odioso
ma è il mio primo vero amico, però questo non gliel’ho
detto. Qualcuno per caso può farlo per me?
“Gli altri due sono vivi.”
La voce della bionda era apatica e impersonale, il suo
incarnato sembrava ancor più niveo.
“Maledizione!” ruggì Suigetsu, e
questa volta nemmeno il dolore atroce gl’impedì di rizzarsi a
sedere. “Questa dovrebbe essere la buona notizia? Che farà Juugo
senza Sas’ke, eh?” abbaiò feroce, infischiandosene del fatto
che la dottoressa bionda di Konoha non potesse sapere del piccolo problema psicologico di Juugo. “Come
farà a... E Karin, eh? Avanti, va’ a dire a Karin che gli altri due sono vivi, specie
di...”
Non poté più parlare, emise soltanto un
verso gutturale che manifestava tutta la sua rabbia e il suo dolore, non
codificabili in uno schema alfabetico.
Karin.
Quella piattola romantica si sarebbe buttata dal primo
ponte, poco ma sicuro. Si concentrò sul pensiero fastidioso della kunoichi e della sua certamente melodrammatica reazione
alla notizia, cercando di allontanare per un momento l’immagine vivissima
di Sasuke dalla mente.
“Ma chi diamine credi di essere tu?”
sbottò la bionda, fremendo. “Pensi che importi solo a voi se...
Noi siamo cresciuti con lui! Eravamo bambini insieme, ero...” La voce le
si spezzò mentre chinava repentinamente la testa con un’ondata
d’oro di capelli.
Suigetsu spostò lo sguardo su di lei, inespressivo
e amaro.
“Come ti chiami?” borbottò freddo.
“Ino.”
Lui accennò un sorriso sarcastico.
“Un’altra spasimante rifiutata, mh?”
La bionda non rispose, ma Suigetsu vide le sue mani
serrarsi a pugno e non gli occorse altro. Ebbe l’impulso istintivo di
voltarsi verso Sasuke e commentare beffardo la sua innata attitudine a spezzare
cuori, ma con una fitta di angoscia rammentò che non poteva più
farlo.
Serrò forte le labbra, trattenendo il fiato per
celarne il tremore affannoso.
A proposito di cuori spezzati, era tempo di alzarsi da
quel letto e cercare Karin.
Alfiere diventa Re
Per poter uscire dalla sua stanza di ospedale Suigetsu
dovette prima accettare di essere sottoposto ad un interrogatorio. A quanto
pareva la partecipazione del Falco alla salvezza di Konoha era indubbia, ma
bisognava ugualmente verificare la situazione.
“Non ho intenzione di perdere tempo, devo
raggiungere quegli impiastri dei miei compagni,” affermò risoluto
quando Ino l’ebbe informato di quel fatto.
“Nessuno dei due è ancora in grado di
comunicare.” Suigetsu si voltò di scatto verso la porta,
osservando l’uomo che aveva parlato svogliatamente, con voce grave e
priva d’inflessioni. “E non credo tu sia nella posizione di
rifiutare quanto stabilito dall’Hokage.”
Lo shinobi era alto, ben messo e aveva il viso coperto.
Sembrava a stento reggersi sulle gambe ma non dava l’idea di esserne
particolarmente turbato: teneva le mani cacciate nelle tasche, l’unico
occhio visibile era vigile e imperscrutabile e la schiena ritta con sicurezza.
Il solo particolare che stonava era il fianco che teneva poggiato alla parete
per stare in piedi.
Suigetsu l’aveva intravisto in battaglia, ore
prima, anche se non ricordava bene che stesse facendo. Sasuke lo conosceva, si
erano scambiato una frase o due prima di scagliare contemporaneamente un paio
di chidori devastanti.
“Cosa volete da me?” chiese lo spadaccino,
diffidente.
“Farti qualche domanda,” rispose lo shinobi
con fare posato.
“Non mi interessa. Due miei compagni sono in gravi
condizioni e il nostro leader è morto.”
“Questo lo so anche io,” rispose lo shinobi
noncurante, con voce ancor più bassa e cupa. “Ma temo di dover
comunque insistere...Hozuki Suigetsu. Giusto?”
Lui mostrò i denti in un sorriso come un ringhio.
“Se lo sai perché me lo chiedi?
Lo shinobi non badò alla provocazione, mentre Ino sgusciava fuori dalla stanza annuendo, ad un suo muto
cenno.
“Dunque. Sei uno dei tre fratelli Hozuki, talentuosi spadaccini. Ti sei unito alle truppe di
Orochimaru cinque anni fa. Sei stato il primo ad aggregarsi a Uchiha
Sas’ke, quando si è ribellato ad Oto.
Correggimi se qualcuna delle informazioni in mio possesso non ti suona.”
Suigetsu sbuffò annoiato, intimamente infastidito
dal fatto che quell’uomo di Konoha sembrasse sapere su di lui molto
più di quanto gli stesse bene.
“E’ tutto esatto,” borbottò
distaccato.
“Perché?”
La voce dell’uomo sembrava improvvisamente
più interessata, pronunciando quella parola.
Suigetsu lo guardò interrogativo, gli occhi chiari
un po’ spalancati.
“Perché cosa?” controbatté
sulla difensiva.
“Perché hai accettato la proposta di
Sas’ke?”
Suigetsu guardò fissa la parete, in silenzio.
Perché aveva accettato la proposta di Sasuke? Se l’era chiesto
anche lui più d’una volta, senza mai riuscire a fornirsi una vera
risposta. Ne aveva dedotto che era semplicemente così che doveva andare
e a dispetto di quando affermava continuamente non ne era affatto pentito.
Si strinse brevemente nelle spalle.
“Ha fatto fuori il vecchio mostro, dando prova di
un certo talento, ed aveva un piano per la testa. Mi ha incuriosito e comunque
non avevo niente da perdere, come lui.”
Lo shinobi di Konoha abbassò il capo verso terra,
forse in segno di assenso.
“E’ vero che non ha mai avuto granché
da perdere,” commentò piano, quasi parlando tra sé.
E Suigetsu ricordò improvvisamente la battaglia,
l’occhio rosso e una frase di Sasuke di settimane prima sul suo sensei, e seppe.
“Kakashi Hatake, il ninja copia,”
asserì neutro.
Lo shinobi sollevò il volto con un accenno di
sorriso composto.
“Già. Vogliamo andare avanti?”
Suigetsu si sentì stanco, tutt’a un tratto.
Konoha era un posto che non aveva mai visto, un posto che per lui aveva un
unico riferimento: Sasuke. Come se non bastasse, tutte le persone che stava
incontrando sembravano aver avuto un legame più o meno reciproco di una
certa importanza con il defunto erede dello sharingan.
“Non so molto. Non siam...eravamo
soliti fare grandi conversazioni. Non ho assistito alla morte di Itachi. I
colloqui tra Sas’ke e Madara avvenivano sempre
senza testimoni. Il mio ruolo nel Falco era, temo, quello di braccio destro del
moccioso, ma Sas’ke mi diceva quel che occorreva sapessi e
nient’altro, né mi sarebbe interessato. Eravamo d’accordo da
un paio di settimane sulla posizione che avremmo preso al momento del dunque,
ed è esattamente quel che abbiamo fatto. È tutto quello che
so.”
Kakashi Hatake lo osservò con estrema attenzione,
aggrottando la fronte.
“Non è stato un’idea del momento, vuoi
dire?” chiese dopo un
silenzio lunghissimo in cui non fece altro che scrutarlo con quel
penetrante e asettico occhio nero.
Suigetsu inclinò appena il collo, accennando un
sorriso truce.
“Metterci contro l’Akatsuki? No. Credo sia
stato il progetto di Sas’ke fin dall’inizio, ma immagino non lo
sapremo mai con certezza,” rispose stancamente. Il senso di vuoto si
allargò nel suo stomaco senza che potesse farci assolutamente nulla, ma
non ne diede alcun segno esteriore. Insieme alla voragine gli nacque dentro una
rabbia infinita, generalizzata, e puntò gli occhi sull’estraneo
con ostilità. “Sembra che nessuno di voi abbia mai capito granché
di lui.”
Kakashi Hatake resse impassibile il suo sguardo per
qualche secondo, poi distolse il proprio e si voltò di lato verso la
finestra, scrutando distrattamente il cielo crepuscolare. Tacque così a
lungo e quel poco che s’intravedeva del suo volto era così teso e
pallido che Suigetsu si chiese se non stesse per svenire per la debolezza
già notata in precedenza.
“Non penso sia un argomento di tua
competenza,” commentò poi fermo il ninja copia, con
serietà.
Suigetsu scrollò le spalle con una smorfia sardonica,
apparentemente disinteressato.
“Non è che voi di Konoha abbiate fatto
molto, no? La so anche io la storia. Avete mandato dei semplici genin e un
chunin appena promosso al suo seguito, quando ha lasciato il vostro villaggio.
Forse non vi dispiaceva poi così tanto che l’ultimo Uchiha si
levasse dai piedi e andasse a farsi ammazzare da Orochim…”
Non fece in tempo a finire di parlare, né ebbe
modo di accorgersi minimamente del movimento dell’altro finché la
mano del jonin della Foglia non fu serrata intorno al suo collo inchiodandolo
al muro. Gemette per il rinnovato dolore al fianco, mentre Kakashi Hatake lo
guardava dritto negli occhi con durezza.
“Stai attento a quel che dici, ragazzo,” lo
ammonì pacato. “Non sono un uomo che ami scherzare sulla morte
delle persone che mi sono care.”
Lo lasciò andare con leggerezza, senza tradire
rabbia o altri sentimenti. Suigetsu lo fissò ostile, massaggiandosi la
gola con gesti risentiti.
“Voglio andare da Juugo e Karin,”
affermò secco.
“Vai pure,” rispose Kakashi Hatake senza
più degnarlo di alcun interesse.
Suigetsu barcollò per tirarsi in piedi.
Sentì la testa girare per l’estrema debolezza e al primo passo il
fianco ferito gli fece così male che non riuscì a trattenere un
lamento. Si aggrappò alla porta cercando di prendere fiato nonostante
gli spasmi e rimase immobile per qualche secondo.
“Eri suo amico?”
La nuova frase del ninja copia lo fece voltare di scatto,
sorpreso. Aggrottò la fronte e storse le labbra verso il basso, mentre
lo shinobi continuava a guardare il panorama all’esterno.
“Certo che sì,” rispose fiero, col
fiato rotto per lo sforzo di stare in piedi. “Anche se era odioso,”
precisò, più che altro per restare fedele a se stesso.
Kakashi Hatake annuì, in silenzio. Suigetsu seppe
che ora la conversazione era davvero finita.
Fuori ritrovò la bionda Ino,
intenta a sistemare delle siringhe ordinatamente su un carrello.
“Dove sono Juugo e Karin?” chiese, reggendosi
contro la parete.
La ragazza sussultò nel sentirsi parlare di
sorpresa ed aggrottò gli occhi cerulei con rimprovero, affrettandosi a
sostenerlo.
“Ma sei pazzo?” sbottò irata, anche se
dal tono pareva più un’affermazione che una domanda. “Non
puoi alzarti, eri in pericolo di vita fino a due ore fa! Torna subito a
letto!” ordinò, despotica.
Suigetsu si arpionò al muro, scuotendo lentamente
la testa.
“Juugo…potrebbero esserci problemi,
potenzialmente pericolosi. Non deve sapere di Sas’ke in mia assenza, ne va
della vita dei vostri dottori,” la informò spiccio, senza scendere
nei dettagli.
Ino sgranò gli occhi,
perplessa.
“Cosa intendi?” chiese cauta.
Suigetsu scrollò il capo, sbrigativo.
“Solo quello che ho detto. Fammelo vedere
ora.”
La bionda esitò, con espressione seria e viso
fosco, aggrottato. Scosse nuovamente le chiome dorate, riflettendo tra
sé, quindi lo puntellò per aiutarlo a camminare.
“Tu sei proprio pazzo,” borbottò
bizzosa.
Non aggiunse niente altro, né Suigetsu riprese a
parlare mentre si trascinava avanti. Non aveva mai provato un’ansia del
genere. Riusciva ad avvertire quasi fisicamente la sensazione di angoscia,
tanto da aver voglia soltanto di liquefarsi e, per la prima volta, non per poi
ricomporsi da qualche altra parte. Poteva avvertire concretamente la
preoccupazione per Juugo e Karin appesantirgli il respiro, e la sensazione non
gli piacque.
Non erano affari suoi, se quei due non sarebbero stati in
grado di cavarsela. Non era certo un problema suo se Juugo era pazzo, che si
arrangiasse. Quanto a Karin, poi…se l’era voluto, Sasuke, no?
Nessuno l’aveva costretta ad invaghirsi, ed era così
insopportabile, petulante, oca e insopportabile – e insopportabile,
seriamente – che non sarebbe certo stato così stupido da
preoccuparsi di lei.
“La stanza è quella in fondo a questo
corridoio, ora la…” iniziò Ino,
dopo una faticosa svolta a sinistra.
“Vado da solo,” esclamò Suigetsu
brusco, divincolandosi dall’appoggio della ragazza.
“Ma non ce la fai, razza di testar…”
ribatté Ino piccata, mentre lui rimbalzava
avanti contro la parete, sottospecie di patetico antieroe. Non riusciva davvero
a capacitarsi di se stesso.
“Dammi retta, è meglio. Restate tutti alla
larga da questa zona. Tra poco qui ci sarà da ridere,” e nel dirlo
sorrise davvero, con amaro sarcasmo. Il suo sguardo si mosse nel corridoio per
puro istinto finché non trovò quanto di più corrispondente
all’oggetto delle sue ricerche: un bisturi sul carrellino a metà
lunghezza tra lì e la stanza di Juugo. Suigetsu lo afferrò con
scioltezza mentre vi passava accanto, sbuffando leggermente tra sé. Non
era proprio come avere tra le mani una katana, ma almeno tagliava.
Ino si era fermata, esitava
qualche metro dietro a lui. Suigetsu le lanciò un ultimo sguardo di
ammonimento e lei parve comprendere che il pazzo era serio. Sembrò ancor
più inquieta, ma non lo seguì.
Suigetsu si issò dentro la stanza dove riposava
Juugo. Registrò con fastidio la presenza di altri due feriti, ma in
fondo erano shinobi di Konoha e se durante la crisi Juugo li avesse ammazzati
lui non avrebbe certo sprecato tempo a dolersene. L’importante era non rimetterci
la propria, di pelle, e finora aveva funzionato. Non se ne sentiva contento, al
momento, ma questo sarebbe venuto da sé: bastava soltanto aspettare che
l’immagine di Sasuke sbiadisse un po’.
“Ehi,” borbottò rigido, sporgendo il
capo per sbirciare se l’altro fosse sveglio o no.
“S-s-suigetsu?
Sei…tu?”
La voce di Juugo era già inquieta, mentre
socchiudeva faticosamente gli occhi mormorando quelle prime parole speranzose.
“Se non sono io, mi somiglio molto,” rispose
lui con superiorità, ironico. “Come va, hai ancora tutti i pezzi
al loro posto?” continuò con noncuranza.
“S-sì, questo
sì ma…Suigetsu, credo di a-avere urgente
bisogno…dov’è Sas’ke-kun?”
continuò febbrilmente Juugo, con un evidente sforzo per dominare se
stesso, il volto contratto e le mani serrate.
Suigetsu si passò stancamente le mani sul viso,
talmente afflitto da non accorgersi neanche di aver mancato il proprio bulbo
oculare con la lama del bisturi di appena qualche millimetro.
“C’è un problema, Juugo. Non credo che
Sas’ke possa venire,” annunciò atono, scandendo le parole
senza alcune espressività.
“S-sta male? E’
ferito gravemente?”
La voce di Juugo era stridente, adesso, e le sue mani
già tremavano. Era questione di attimi, ormai. Suigetsu buttò
fuori un groppo di fiato amaro e chiuse gli occhi per un secondo, poi li
riaprì.
“Sas’ke è morto, Juugo.”
Poi cercò di impedire ai propri timpani di sentire
la voce di Juugo, il suo urlo disperato e la sua furia. Cercò di non
ascoltare nessuna delle sue parole sofferenti, e ci riuscì così
bene che era già pronto a scattargli addosso non appena quello si
rizzò in piedi con la furia violenta del suo doppio interiore. Lo
sbatté al muro con tutta la forza che il suo corpo malmenato
riuscì a mettere insieme e avvicinò il bisturi alla sua gola, non
senza curarsi di tenerlo abbastanza lontano da non colpirlo accidentalmente
mentre si divincolava, con spasmodiche convulsioni.
“Non puoi…v-vattene, Suigetsu!”
urlò Juugo coprendosi il viso, rabbioso. “Presto!”
Col cavolo. Se quel fighetto di Sasuke poteva farlo star
buono con uno sguardo, lui avrebbe fatto anche di meglio. Anticipò un
suo pugno e lo sbatté ancora al muro, sapendo bene di avere i decimi di
secondo contati. Inchiodò il suo collo alla parete e avvicinò il
volto al suo orecchio, prendendo fiato.
“Juugo, maledizione!” urlò a pieni
polmoni. “Se fai questo ti ammazzano! E poi ammazzano me e Karin,
penseranno che li vogliamo attaccare. Juugo, ascoltami!”
Il colpo lo scaraventò via, facendolo arretrare
boccheggiando di un paio di metri. Scosse la testa, intontito, mentre
l’altro gli si buttava di nuovo addosso con un grido d’attacco
quasi bestiale. Suigetsu, nello stato in cui era, non avrebbe potuto muoversi
nemmeno volendo. E si sorprese quando vide Juugo finire a tappeto sotto il
violento pugno di uno dei feriti che avrebbero dovuto in teoria rivelarsi un
impiccio.
Pensò che avrebbe ringraziato, semmai, in un altro
momento e si avvicinò di nuovo, alzando la voce.
“Dobbiamo arrangiarci tra noi, adesso, non
c’è più niente da fare. Sas’ke non ti può
più aiutare. È finita, il Falco ha chiuso le ali. Ora dobbiamo
cercare di restare a galla, e credo in materia di saperne abbastanza,” e
azzardò un sorriso sornione, con un bagliore acqueo nelle iridi chiare. Juugo
era immobile e tremava, gli occhi assenti e spiritati. Suigetsu picchiò
il palmo della mano accanto alla sua testa per risvegliare la sua attenzione.
“Lo capisci, Juugo, non è vero? Non sei ancora diventato tanto
stupido.”
E per un istante fu certo che sarebbe stato di nuovo
colpito, invece Juugo scivolò verso terra, da appoggiato che era alla
parete, si lasciò scorrere giù accasciandosi, sdrucciolò
tra le sue braccia tese a fare leva sul muro a si acquattò a terra.
Suigetsu lo sentì piangere soffocando i singhiozzi, in sordina, e chiuse
gli occhi con rinnovato affaticamento.
Per fortuna Juugo era ferito e stremato dalla battaglia,
o non si sarebbe fermato.
Lo spadaccino gettò via il bisturi, voltò
la testa verso il ferito che l’aveva soccorso e rantolò “Ino”.
L’uomo si affacciò alla porta e
chiamò la dottoressa, mentre lui si chinava verso Juugo senza poter dire
proprio niente.
L’uomo si avvicinò di nuovo a loro, con fare
solerte.
“Chi sei tu?” borbottò Suigetsu,
sedendosi a terra in cerca di riposo.
“Il mio nome è Genma.
Sono un jonin di Konoha,” rispose l’uomo serio, scrutando
attentamente Juugo, ancora scosso da violenti tremiti. “Il tuo amico
sembra non stare affatto bene.”
“Non è mio am…”
rispose meccanicamente Suigetsu, sostenuto, serrando poi le labbra di scatto.
“…Sì. Ha qualcosa che non va, ma andrà meglio,”
brontolò controvoglia.
Ino fu loro vicina dopo pochi
secondi, somministrò a Juugo un pesante calmante e suggerì a
Suigetsu di tornare a riposare.
Lo spadaccino vagheggiò l’ipotesi per
qualche secondo, ma l’immagine spiacevole di Karin lo costrinse a demordere.
Non che si sentisse tenuto a fare qualcosa per lei, anche perché Karin
non l’avrebbe apprezzato e restava odiosa, ma insomma. Bisognava che
qualcuno le dicesse qualcosa a proposito di Sasuke, no? E poi, se non ci avesse
pensato lui a darle una calmata sarebbe partita con un melodramma infinito, e
dopo chi la sopportava più.
Liquidò la kunoichi
della Foglia senza troppi complimenti, ribadendo la necessità di vedere
entrambi i compagni di squadra immediatamente. Ino
sembrò seriamente esasperata e sbuffò teatralmente, tentò
di opporsi e lo minacciò di addormentarlo con i sedativi e di chiamare
il senpai Kakashi, ma Suigetsu non si fece
intimidire.
“Fa’ quel che ti pare, bambolina,”
replicò beffardo. “Ne parliamo dopo, eh.”
Ino gli strillò dietro che
un sospettato di tentata strage non poteva andarsene in spasso per
l’ospedale come se niente fosse e che avrebbe mandato una squadra ANBU,
ma poi finì per borbottare, altera e astiosa, che la camera in cui era
sistemata Karin si trovava nella direzione opposta.
Era tempo, perché Suigetsu cominciava ad essere
confusamente impaziente, forse per liberarsi di quell’incombenza sgradita
dell’annunciarle la morte di Sasuke. Forse perché sarebbe stato
divertente vederla piangere.
Forse perché era meglio che non fosse sola.
Era un pensiero decisamente idiota e Suigetsu se lo
rimproverò immediatamente, scuotendo la testa con benevola condiscendenza
verso se stesso. Dopotutto non poteva mica essere intelligente ventiquattro ore
al giorno, era un essere umano. Beh, all’incirca.
Vacillava nel corridoio, affacciandosi una porta dopo
l’altra nella ricerca delle chiome rosse e infuocate della kunoichi senza far minimamente caso agli altri feriti. Non
erano fatti suoi, quelli, e non badò a nessuno dei visi che vide
scorrere. Fu soltanto dopo parecchi usci, buttando l’occhio per
l’ennesima volta in una stanza asettica e chiara, che intravide ciocche
di capelli d’un biondo inconfondibile risplendere sul biancore del
cuscino.
Suigetsu serrò i pugni con violenza e strinse di
scatto la mascella. I suoi denti cigolarono per la pressione mentre deglutiva
amaramente e si lasciava colmare dalla rabbia. Marciò nella stanza senza
nemmeno pensare, con un sorriso perfido e aggressivo.
“Beh,” esordì, mentre il degente si
voltava di scatto e, alla sua vista, i suoi occhi azzurri si sgranavano
addolorati. “Non c’è che dire, sei riuscito a riportarlo
indietro. Bravo, sarai contento.”
Gli occhi di Naruto si spalancarono ancora di più,
offuscati da un velo lucido, e Suigetsu si sentì ancora più incazzato
di riflesso. C’era poco da piangere, ormai.
“Lasciami stare,” mormorò poi Naruto
piano, voltandosi verso la parete.
“Ma certamente,” rispose Suigetsu mellifluo,
l’adrenalina che quasi lo faceva tremare. “Povero piccolo
jinchuuriki, vittima innocente del demone malvagio. Non sei stato tu, giusto?
Sicuro, è stato Kyuubi. Sono due cose completamente…diverse,” concluse, con un sorriso
affilato in cui riversò tutta la sua cattiveria.
“LASCIAMI STARE!” ruggì Naruto,
scagliando il cuscino verso di lui con un moto di rabbia animale, così
pallido da sembrare anche lui morto. Tremava tanto che lo poteva vedere anche
Suigetsu dalla distanza a cui era. “Cosa ne sai? Cosa ne sai di cosa sia
voler disperatamente salvare qualcuno e invece distruggerlo, eh?”
La sua voce vivace era distorta da un rantolo di
disperazione, il volto teso da uno spasmo di sofferenza innaturale. Suigetsu
arretrò istintivamente di un passo e si rese conto di aver toppato alla
grande. Non era grave, aveva la faccia tosta per uscirne bene. Ma gli occhi di
Naruto, dei, sembravano un pozzo di tormento.
Desiderò non essere entrato nella stanza. Stava
andando da Karin, era almeno mezz’ora che voleva raggiungerla e
continuava a fare deviazioni assurde, forse solo perché temeva
istintivamente di trovarsela davanti. Era stato difficile fare l’annuncio
a Juugo, ma più che altro per il timore delle sue azioni. Karin era
un’altra cosa. Peraltro, avrebbero sicuramente finito per scannarsi anche
in quel contesto.
E adesso Naruto, con quella faccia, e quello sguardo.
Pensò di dire qualcosa. Forse che dopotutto non
era colpa sua se Sasuke era morto. Che gli dispiaceva, non avrebbe dovuto
parlare così. Ma lo guardò e nel farlo pensò al sorriso
del genio, che aveva visto in due sole occasioni. Si rese conto che qualunque
cosa avesse detto sarebbe stata una ridicola finzione. Stava diventando scemo,
altroché.
Si voltò indietro e traballò fuori,
lasciandosi alle spalle Naruto e la voragine del suo senso di colpa di
assassino.
Quando la trovò, Karin era nelle mani di una
dottoressa che non era la bionda Ino.
L’estranea scrutò l’uomo del Falco con diffidenza e
provò a fargli notare che non era il momento delle visite.
“Non intendo restare tutta la giornata, ho un
impegno con una bionda da urlo,” ribatté Suigetsu senza scomporsi,
prima di abbandonarsi su una sedia nella speranza vana di placare il lancinante
dolore al fianco. “Ci metto un attimo.”
Karin lo guardava in silenzio. Nonostante fosse prostrata
e smarrita Suigetsu intuì immediatamente nel suo sguardo la consueta
scintilla dell’antipatia sempre viva di lei nei suoi confronti. Per
qualche motivo questo lo tranquillizzò, permettendogli di respirare
meglio. Karin lo odiava come sempre, almeno una cosa normale c’era ancora.
“Dormito bene?” chiese con scherno.
Karin non
rispose, rimanendo immobile con gli occhi fissi. Suigetsu la
guardò meglio e si accorse che qualcosa non andava. Il suo volto era di
un biancore allarmante, le labbra tirate e quasi livide, le braccia serrate a
lato del corpo con eccessiva pressione.
Aggrottò la fronte, perplesso. Ottimo, se stava
già così di suo, figurarsi dopo aver saputo che Sasuke era morto.
Proprio una fortuna, averla nel Falco.
“Lo so già.”
La voce flebile e cantilenante di Karin lo riportò
bruscamente alla realtà, facendolo sussultare.
“Cosa?” gracchiò interrogativo,
intuendo un’inquietante ipotesi.
“Lo so già,” ripeté Karin
esangue, con voce fredda e sterile. “Ho visto mentre succedeva.”
Suigetsu rimase soltanto immobile. Per la prima volta da
quando la conosceva non gli venne in mente nulla di cattivo da dirle,
piegò soltanto le labbra verso il basso con un genuino moto di disgusto
verso la vita in generale. Questa era veramente una carognata, a Karin non
sarebbe dovuto succedere. Cioè, non che lei non meritasse il peggio, ma
così era troppo per chiunque.
Chinò la testa, per non farsi vedere senza parole.
Karin inspirò un rantolo raccapricciante.
“Voglio dimenticarmene. Voglio dimenticarmi di
averlo visto morire, voglio scordare la sua faccia e il suo nome e il suono
della sua voce come se non fosse mai esistito,” aggiunse, e il suo tono
adesso era acuto e affannoso, quasi supplice, la mano era artigliata alla
guancia tanto da graffiarla a sangue.
“Così al massimo ti cavi un occhio,”
commentò Suigetsu asciutto, d’istinto.
Sperò che Karin gli rispondesse male, che lo
mandasse a quel paese e gli desse del povero stronzo, invece lei chinò
la testa verso le gambe raccolte, affondando il viso nella coperta.
“Sai chi mi ha soccorsa?” chiese secca, con
rancore. “Quella.”
Suigetsu rimase per un istante disorientato, preso in
contropiede dal brusco cambio di argomento. Aggrottò pensosamente la
fronte per qualche secondo, prima di sbuffare annoiato.
“Oh. Sakura, o come si chiama,” dedusse,
laconico.
“E’ andata vicino a…” Karin
s’interruppe, inspirò forte. “Gli ha sentito il polso
e…si è messa a piangere. Ho capito che era morto, altrimenti
avrebbe fatto qualcosa. È un medico, no? Invece stava lì e
piangeva così forte che avevo voglia di urlarle di smetterla, maledetta
oca. Lo stringeva e singhiozzava. Volevo ucciderla, capisci?”
Suigetsu non si stupì poi più di tanto di
quell’ultima affermazione. Era facilissimo attirarsi le mire omicide di
Karin, lui ci era riuscito in meno di due ore la prima volta che si erano
incontrati.
“Se è solo per questo, la settimana scorsa
borbottavi di voler uccidere Juugo per un fondo di salsa di soia,”
replicò noncurante, tentando ancora, automaticamente, di far esplodere
il risentimento di lei. Dei, voleva un insulto. Si era fatto un mazzo tanto,
no? Aveva il sacrosanto diritto di pretendere una feroce sequela di vituperi.
“Sei un povero imbecille ritardato,
Suigetsu,” sussurrò Karin con profonda disapprovazione,
sprezzante.
Grazie al cielo.
“E tu sei una menosa
scocciatrice, Karin. Già so che ora non la pianterai più con
questa storia di Sas’ke, così io e Juugo saremo costretti a
cavarci i timpani.”
Adesso gli avrebbe risposto che glielo poteva strappare
via lei con piacere, un timpano, e magari anche i testicoli. Tendeva a
diventare scurrile, nei momenti di angoscia.
“Non sei costretto a starmi a sentire.
Vattene.”
Suigetsu socchiuse le labbra, già pronto a
rispondere che il suo morboso interesse per i suoi testicoli lo inquietava, ma
rimase impalato con la bocca semiaperta ed un palmo di naso.
“Eh?”
“Ho detto vattene, sordo coglione. Non ti voglio
qui.”
“Ho attraversato tutto l’ospedale per venire
a dar retta alle tue stronzate! Un po’ di riconoscenza, che
cavolo,” protestò lui garrulo, oltremodo indignato.
Karin sollevò il capo con un sorriso velenoso,
superiore, che non raggiunse i suoi occhi. Suigetsu notò in quel momento
che non aveva gli occhiali, e gli parve strano.
“Non è come se annunciassi di aver fatto una
marcia di sei giorni nel deserto senza cibo né acqua, no?” lo
rimbeccò con apatica indifferenza. “Vattene.”
Suigetsu guardò ancora per qualche secondo i
leggeri segni della montatura sui lati del suo naso, maldisposto e allibito.
Piegò la labbra con freddo assenso a si rialzò in piedi,
aggrappandosi allo schienale della sedia mentre aspettava che la fitta di
dolore scemasse.
“Stronza,” constatò piccato, prima di
zampettare malamente all’esterno.
Così non c’era gusto. Niente commento edificante di Sasuke sulla loro scarsa
utilità sul campo, niente insulti a sfregio di Karin, o minacce di
violenza. E Juugo che dava i numeri.
L’assoluta, incontrastabile disfatta.
Quarto giorno
“Senti un po’, mente illuminata,”
esordì Suigetsu con pesante sarcasmo, facendo il suo trionfale ingresso
nella stanza con passo quasi naturale. “Ho parlato con la medic-ninja. Com’è che non mangi? Guarda che
non ti imbocco nemmeno se mi paghi, Karin, e mi riferisco a un sacco, ma un
sacco di soldi.”
La kunoichi non spostò
nemmeno lo sguardo dal muro.
“Ma perché non somministrano più
calmanti, in questo ospedale? Non dovresti stare, non so, sdraiato, immobile e
in assoluto silenzio?” replicò gelida. “E poi sei un
criminale, ti dovrebbero arrestare.”
Suigetsu sorrise astioso, scoccandole un’occhiata
malevola.
“Konoha ci fornisce un’amnistia di tre
settimane, a patto che non rientriamo mai più in vita nostra nei confini
della Nazione del Fuoco. Come se ci tenessimo particolarmente, poi,”
aggiunse con una smorfia di ribrezzo. “Ora mangi?” concluse
sbrigativo.
“Ma a te cosa cambia?”
“Da bambino soffrivo la fame. Odio gli sprechi di cibo,”
imbastì lui, inventando su due piedi.
“Come no…e poi cosa c’entra? Mica butto
via niente, inqualificabile essere,” obiettò Karin con spregio, ma
senza degnarlo di vero interesse. “Sei veramente di un’idiozia
abissale. Se devi per forza dire stronzate almeno dille credibili,”
aggiunse condiscendente, e il suo sguardo rimaneva fisso alla parete.
Suigetsu assottigliò le palpebre, indispettito.
“Ti farò infilare un tubo per alimenti
liquidi direttamente nel c…”
“E vattene!” sbottò Karin esasperata.
Lui scosse la testa, marciando via.
Così, continuava a non essere divertente.
Decimo giorno
“Juugo è in piedi. Completamente
squilibrato, ma in piedi,” annunciò Suigetsu oltrepassando la
porta senza nemmeno bussare.
Non che fosse particolarmente sollevato dal fatto che
Juugo stesse almeno fisicamente meglio. Erano stati una squadra per una serie
di casualità, ma ora non aveva più vere ragioni per interessarsi
di quelle due persone; però era ancora convalescente e non se ne poteva
andare, tanto valeva ingannare il tempo. Sì, era per questo.
“No. Non oggi, Suigetsu. Non credo di poterti
tollerare.”
“Ma ieri non sono venuto,” obiettò
lui, contrariato.
“Ieri è stata la migliore delle ultime dieci
giornate della mia vita,” asserì Karin con piatta sicurezza.
“Anche della mia, e pensa che sono io a venire qui spontaneamente
e rovinarmele tutte,” replicò lui ironico, scrollando la testa.
Karin sospirò stancamente.
“Vattene o chiamo un infermiere sorvegliante,”
lo informò lei telegrafica.
“Per…? Farmi fare un clistere?”
Karin soffocò un suono gutturale, come un guaito
sfuggito al suo controllo. Poi serrò gli occhi e quando li riaprì
il suo viso era atteggiato a biasimo e profondo fastidio.
“Sei una creatura ripugnante, coso,”
sentenziò aggressiva.
Suigetsu represse a stento un sorriso soddisfatto,
consapevole di averla quasi fatta ridere. Era tutta questione di stile, tutto
lì: Karin sarebbe stata in piedi di lì a qualche giorno e se ne
sarebbero andato tutti e tre insieme, per non perdere la faccia davanti a quel
villaggio di stronzetti presuntuosi.
Naruto, Sakura, fesserie e scemenze. Erano tutti tanto
dispiaciuti per loro, ma dei. Il Falco era stato la sua vita, per tutto il
tempo che era durato. Prima loro non erano più niente, non avevano
più nemmeno un’esistenza propria: poi era arrivato quel ragazzino
presuntuoso e temerario, aveva steso Orochimaru e dato loro un nuovo motivo per
esistere. Cosa credevano, a Konoha, che adesso fossero felici?
Credevano che Juugo continuasse a guardarsi intorno per
caso, che non stesse cercando gli occhi di qualcuno? O che Karin rimanesse
immobile e intorpidita perché era un ragazza pigra e posata? O che lui
si trascinasse appresso una custodia di katana – vuota, ché non
poteva tenere armi - per far bella figura?
Beh, avrebbe potuto, sì. Ma non era quello il
caso.
“Io almeno mi sono lavato, di recente,”
osservò tronfio. “Chi è la più ripugnante, mh?”
“Non potrei raggiungere il tuo livello di bassezza
nemmeno rotolandomi nel guano per settimane, Suigetsu. Levati di torno.”
Lui annuì indifferente, voltandole le spalle senza
parlare oltre. Non aveva importanza, c’era tempo.
Tempo per cosa, non lo sapeva bene nemmeno lui.
Dodicesimo
giorno
“Possibile che tu non riesca ancora a stare in
piedi?” borbottò Suigetsu contrariato, sbuffando appoggiato allo
stipite della porta.
Karin sospirò ad occhi chiusi, senza muoversi.
“Starei cercando di dormire, Suigetsu. Non lo vedi?
Sei così stupido da non comprendere le cose più
elementari?” osservò maldisposta.
“C’è differenza tra il non comprendere
e il non considerare. Io comprendo che stai cercando di dormire, ma non lo
prendo in considerazione. Scelgo consapevolmente di ignorare il tuo
intento,” replicò lui vittorioso.
“Io ignorerò le tue fanfaronate da imbecille
pieno di sé, allora. Leva le tende.”
“Perché non riesci ancora ad alzarti?”
insistette Suigetsu senza badarle.
Karin sospirò profondamente, esasperata.
“il mio chakra sta recuperando lentamente. La tua
vicinanza non aiuta affatto, sappilo,” puntualizzò, con una goccia
della sua vecchia petulanza. “Perché non te ne vai da solo, o con
Juugo?” aggiunse speranzosa.
Lui accennò una smorfia maligna, derisoria.
“Cercherò di essere meno traumatico
possibile, Karin: qui non ti ci vogliono. Vogliono essere sicuri che te ne vada
prima possibile. Come dar loro torto, d’altra parte.”
“Mi alzerò quando potrò. Non
scocciarmi.”
Che piaga infinita, quella ragazza, non fosse stato per
la caduta d’immagine e perché Juugo sembrava tenerci, alla storia
di partire tutti insieme – e lui non desiderava particolarmente
contrariarlo, al momento – se la sarebbe svignata per conto suo. Che se
la vedesse da sola, la signorina principessa delle seccatrici.
Sedicesimo
giorno
“La medic-ninja dice che
se volessi avresti le energie per camminare anche dieci chilometri,” iniziò
Suigetsu tagliente, scaraventandosi nella stanza dove Karin continuava a
vegetare. “Dice che non ti riprendi perché non vuoi. Sei matta
come Juugo, lo capisci che due pazzi per un solo individuo sano sono
troppi?”
“L’individuo sano saresti tu?”
ribatté Karin scettica, con un’occhiata di aperto disprezzo nella
sua direzione.
“Ha. Ha. Ha. Mi sto sganasciando,”
commentò Suigetsu, inespressivo. “Tu puoi alzarti, lo devi
semplicemente…fare. Non sei debole, sei solo cretina.”
“Come sempre la profondità delle tue analisi
mi lascia sbigottita, coso.”
Suigetsu digrignò i denti, frustrato. I giorni si
accumulavano e lui metteva la muffa in quel ridicolo ospedale scalcagnato, con
Juugo che scalpitava sempre più instabile e la scema che continuava il
suo teatrino della vedova affranta, esangue e intorpidita. Una volta aveva
quasi riso e in due occasioni aveva alzato la voce, e basta. Considerata la
frequenza quasi continuativa delle urla belluine della Karin dei tempi andati,
il bilancio era peggio che sconfortante.
“Stammi a sentire, ochetta,” sentenziò
con fare superiore. “Ora ti alzi da lì e ti dai una mossa, o fra
dieci secondi ti troverai culo a terra. Mi sono spiegato abbastanza chiaramente
per le tue limitate capacità?”
“Provaci, verme, e te ne farò
pentire!” sibilò lei, ritraendo le gambe.
“Uno, due, tre, dieci,” cantilenò
Suigetsu irrisorio, poi scattò su di lei e la afferrò
semplicemente per le spalle, come se fosse stata un grosso sacco ingombrante, e
nonostante due calci, sei tentativi di divincolarsi e innumerevoli unghiate
estirpò una Karin soffiante e inviperita dalle lenzuola.
“Razza di bastardo schifoso!” inveì
lei inferocita, scalciando e rivestendolo di pugni alla cieca. “Lasciami,
stronzo! Lasciami o t’ammaz…”
minacciò, interrompendosi di botto nel trovarsi in piedi. Soffocò
un singulto e traballò, facendo per ributtarsi sul materasso.
“Ferma lì, psicopatica,”
l’ammonì Suigetsu bloccandola al volo.
“E lasciami, pesce del cazzo!” sbraitò
Karin, colpendolo con più forza. Suigetsu incamerò il cazzotto con
un sospiro condiscendente, scuotendo la testa con perfida bonarietà.
Ma Karin si lasciò andare a peso morto, con un
ansito da agonizzante, e per poco non trascinò a terra anche lui.
Ringhiò convulsamente, picchiando i pugni sottili a terra.
“E tirami su, pezzo di merda!” intimò
furiosa. “Tirami…tira…”
Suigetsu era rimasto fermo, preso completamente alla
sprovvista da quel gesto inatteso e forse autentico. Magari la medic-ninja non capiva un accidente e Karin stava lì
lì per. Ma poi la sentì scoppiare in
singhiozzi, il viso volto verso il pavimento, e realizzò che forse la medic-ninja non era poi così tonta. La sentì
farfugliare un qualcosa di incomprensibile in cui ricorreva la lettera esse e
non gli ci volle particolare fantasia per intuire che il nome Sasuke
c’entrava in qualche modo.
“Ripeti sillaba per sillaba che non capisco niente,
Karin. Scandisci, diamine,” commentò sarcastico, senza aspettarsi
realmente di essere ascoltato. E difatti lei continuò a piangere, e
forse era meglio così, perché non l’aveva ancora vista
versare una sola lacrima. Continuò a singhiozzare anche quando
l’ebbe issata di nuovo sul letto, rannicchiandosi sotto le coperte fino a
sparirvi quasi completamente. Soltanto qualche ciocca di capelli rossi sbucava
dalle sommità delle lenzuola.
Suigetsu si voltò e lasciò la stanza in
silenzio. Si chiuse la porta alle spalle, scuotendo la testa per costringersi a
non provare niente di vagamente simile alla pena e alla comprensione per la stronzetta. Karin non ce la poteva fare, Juugo andava
spostato alla svelta. L’avrebbe lasciata lì, forse a Konoha
sarebbero stati clementi e l’avrebbero graziata. In ogni caso non era un
suo problema: non era un leader, era un individualista. Lui voleva diventare il
più grande spadaccino della Nebbia e possedere tutte e sette le spade,
il Falco era stata un parentesi che ormai andava chiusa.
Avrebbe trovato un posto in cui scaricare Juugo, e tanti
saluti.
Quanto a Karin, peggio per lei.
Diciannovesimo
giorno
“Karin.”
La stanza era immersa nella penombra notturna, ma
Suigetsu percepì il movimento e seppe che lei lo stava sentendo. Ma non
gli rispondeva, non lo faceva da tre giorni.
“Io e Juugo partiamo dopodomani,”
annunciò freddo. “Se non vuoi rimanere qui da sola, questo
è il momento per muoverti.”
Karin non rispose ancora.
“Andiamo verso il mio paese, la Nebbia. Troveremo
qualcosa da fare, laggiù, e poi io sto ancora cercando le spade,”
continuò con tono impersonale.
Karin continuò a non rispondere, perfettamente
silenziosa.
“Lui resterà con me. In fondo un paio di
braccia mi possono fare comodo, non sarà uno scherzo battere tutti gli
altri spadaccini. Devo solo capire come farlo star buono quando dà di
testa, ma ci sto lavorando su.”
Nessuna risposta.
Suigetsu sospirò, sconfitto. Si passò la
mano tra i capelli e torse le labbra, seccato.
“Ho sempre saputo che sei terribilmente scema, ma
non pensavo così tanto. Non serve a niente quello che stai facendo.
Senti, Karin, io penso di avere imparato una cosa. Non è che sia il tipo
da lezioncine morali buoniste, però credo di aver capito che ci sono
cose per cui morire e altre no. Penso che ci sia una verità, dietro
questa storia, e che niente sia successo per caso ma per…far vedere a
tutti noi una cosa importante. Sas’ke non è morto per uccidere
Itachi Uchiha, invece è morto per salvare Naruto Uzumaki. Penso che questo
dovrebbe indicarci qualcosa,” spiegò, e gli parve strano come
fosse facile sviscerare parlando con Karin tutto quel che gli frullava in testa
da giorni.
“Tipo che la vita è una cosa orrenda?”
Suigetsu non si aspettava più che Karin parlasse e
poco mancò che gli facesse paura, ma recuperò in fretta la
composta sfacciataggine che lo caratterizzava.
“No. Che magari a volte…oh, sei veramente
odiosa. Dai così fastidio che preferirei sedermi su un nido di formiche
rosse,” borbottò stizzito. “Guarda, partirò con la
mia spada e con una custodia di katana vuota. La porterò con me,
perché credo di aver capito che a volte le persone contano, e conta quel
che lasciano in te. Non che tu personalmente conti, intendiamoci, e non volevo
per forza citare Sas’ke ma…”
S’impappinò miseramente, smozzicando
un’imprecazione a mezza voce. Ma tu guarda che figura di merda, e con
l’arpia per giunta.
Prese fiato, tornando verso la soglia.
“Il Falco era una bella squadra. Ci abbiamo
creduto, no?” concluse atono.
Si allontanò senza aspettare oltre.
Lui ci aveva creduto. E anche se senza Sasuke non sarebbe
stata la stessa cosa, avrebbe continuato a crederci per tutti e due. Adesso lo
poteva ammettere.
Ventunesimo
giorno
“Forse potremmo aspettare fino a domani, Suigetsu.”
Juugo sembrava incerto, riluttante. Continuava a guardare
il letto rifatto con inquietudine.
“No che non possiamo, a meno di fingere di non
saper contare. Ci hanno detto di andarcene entro tre settimane per approfittare
dell’amnistia, e oggi scadono le tre settimane. Cosa non ti torna?”
ribatté Suigetsu truce.
“Ma Karin…” iniziò Juugo,
incerto.
“Se vuoi puoi stare qui con lei,” lo
interruppe lui, sarcastico. Si cacciò la custodia vuota a tracolla, con
un gesto fluido. Come spadaccino della Nebbia faceva ridere, ma alle porte di
Konoha gli avrebbero reso la sua spada e forse sarebbe riuscito di nuovo a
respirare normalmente.
Juugo sospirò avvilito, caricando in spalla lo
zaino da viaggio che Ino Yamanaka
aveva regalato loro. Per i begli occhi di Suigetsu, sospettavano entrambi.
“Addio, Konoha,” borbottò depresso.
Suigetsu annuì senza parlare, stringendo i denti
con discrezione. Addio, Konoha, addio occhi da pazzo. Addio, psicotico dello
sharingan, addio.
Addio, Karin.
Piegò la testa verso il basso con scarso
entusiasmo, incamminandosi verso la porta della stanza. Sentì Juugo
andargli appresso, percorrere a nemmeno un metro da lui il corridoio asettico,
le scale chiare, l’atrio male illuminato. Non si guardò nemmeno intorno,
perché gli dava fastidio il modo in cui la gente del Fuoco li osservava.
Quando fu fuori strizzò gli occhi per la luce
abbagliante. Lo fece automaticamente, e poi sollevò d’impulso lo
sguardo ferito a sfidare il sole, come aveva visto fare tante volte a Sasuke.
Gli sfuggì un sorriso amaro. Sfidare il sole, perché no. Non abbiamo niente da perdere, giusto? A
parte la pelle, ma in fondo rimettercela non è poi la fine del mondo,
dicono.
La custodia della katana di Sasuke rimbalzò contro
la sua schiena, rassicurante, e Suigetsu si trovò a pensare che sarebbe
stato quasi divertente se ci fossero stati tutti e tre. Ma Karin era
irrimediabilmente scema.
“Zotico vigliacco, potevi almeno venire a chiamarmi
un’ultima volta.”
Sobbalzò vistosamente nell’udire quella voce
nota e altezzosa, voltandosi di scatto verso destra mentre s’imponeva di
bloccare un sorriso sollevato. Karin era appoggiata al muretto lungo la via a
braccia conserte. Aveva un’espressione indispettita e sprezzante, ma non
lo guardava in faccia.
“Per fortuna sono venuta ad aspettarvi fuori, o mi
avreste lasciata qui. Bella squadra, complimenti.”
Karin era imbarazzata, si vedeva. Si vedeva anche che era
triste, così pallida e emaciata, ma non si poteva dire che fosse
l’unica in circolazione.
“Ma sono tre settimane che ti chiamo, oca
sculettante,” ribatté lui piccato, con uno sbuffo.
“Io non sculetto, razza di maiale! E sei un
pervertito, non guardarmi il sedere!” intimò Karin sdegnosa,
minacciandolo con la mano tesa mentre li raggiungeva, affiancando la loro
avanzata.
“Ma chi te lo guarda, il sedere!”
ribatté Suigetsu disgustato. “Preferisco osservare un
accoppiamento tra rospi, patetica femmina.”
Juugo li lasciò continuare a bisticciare, restando
indietro di qualche passo. Accennò tra sé un sorriso
nell’osservare quella scena per lui tanto abituale, espirando fuori un
po’ di tristezza. Il Falco resisteva: Sasuke era morto, ma quello che
aveva costruito era rimasto in piedi, e Suigetsu e Karin continuavano a
litigare.
__________________________________
Suigetsu si caricò la spada in spalle con un
autentico sospiro di sollievo, resistendo a stento dall’impulso di
abbracciarla e principalmente per non fare figure con il chunin di Konoha che
gliel’aveva appena riconsegnata e li osservava concludere i preparativi
alle porte del villaggio in ricostruzione.
“Bene,” affermò, bilanciando il peso
sulle gambe. “Pronti?”
“Sì! In che direzione andiamo?” chiese
Juugo, e lo spadaccino si accorse che guardava lui. Storse il naso, incerto,
prima di lanciare uno sguardo fuggevole a Karin ma, diamine, anche lei lo stava
guardando.
Sollevò di nuovo gli occhi verso il cielo,
socchiudendoli nel puntarli dritti al sole.
“Ad est,” esclamò deciso, accennando
un sorriso. “Verso la Nebbia e le mie sette spade,” precisò
mettendosi in marcia. Juugo annuì soddisfatto, avviandosi al suo fianco,
e Karin li seguì senza apparenti reazione.
Poi sbuffò.
“Conoscendoti ci porterai sicuramente a perderci,
coso. Probabilmente finiremo dritti ad ovest,” osservò tagliente.
“Andiamo, tu sapresti perderti anche nel giardino
di casa. L’ipotetico giardino sul retro, quello minuscolo,”
replicò Suigetsu torvo.
“Nient’affatto, stronzetto!”
trillò Karin sdegnata. “Per tua informa…”
Le loro voci concitate e battibeccanti si persero in
lontananza mentre Udon, dal suo posto di guardia, li
osservava allontanarsi ormai fuori dalla portata del suo orecchio.
Gettò un’ultima occhiata alle due sagome in
testa, gesticolanti e minacciose, e scosse piano il capo.
Ne era definitivamente convinto: quei due dovevano proprio
essere sposati.