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Autore: bibersell    29/12/2015    1 recensioni
La vita di Eden è perfetta. Ha ottimi voti a scuola e un fidanzato perfetto. É circondata da amorevoli amici, vive in una bellissima casa in un quartiere residenziale e può certamente contare sul sostegno dei suoi genitori. Tutto gira nel verso giusto finché una tiepida notte settembrina tutto cambia. Il suo punto fermo viene a mancare e lei cade con esso seguendolo negli abissi infernali più profondi. Lei, Eden, baciata dalla bellezza e dalla fortuna fin dalla nascita sprofonda in un buco nero senza fine. Ma la mitologia le andrà incontro e sarà proprio una creatura infernale a riportarla in paradiso. O più semplicemente qualcuno che ne porta il nome.
"C’è chi arriva alla vita cadendo dal cielo su morbide coperte di cashmere tra le braccia calde e premurose di una madre affettuosa e chi ci giunge nel pieno di una tempesta travolto dalle onde del mare con l’acqua alla gola, fin da subito in apnea.
Non è possibile appartenere ad entrambi i mondi, sono troppo distanti. Eppure c’è un momento in cui questi collidono, si toccano, e un po’ di sabbia sporca la morbida coperta e tutto va a rotoli. Nulla ha più senso."
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La
bambola
Rotta
 

Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so... Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe... Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.
-Lettera di addio al marito. Virginia Woolf 

Prologo.

 
Non permettete a nessuno di dirvi che l’adolescenza è il periodo più bello della vita. Non è vero. Chi lo dice non si ricorda com’è sentirsi inadatti, incompresi, inopportuni. Non accettati. Non se lo ricorda perché dopo è anche peggio. Gli impegni e le responsabilità ti opprimono fino a mozzarti il respiro. Ti strangolano torcendoti il collo e togliendoti ogni possibilità di sopravvivenza. È una continua e ripida scalata per arrivare a quella meta che ci sembra tanto deliziosa e ghiotta ma che in realtà non è come appare. Ognuno ha la propria montagna da scalare e il personale traguardo. Non so ancora quale sia il mio. E non sono sicura di volerlo conoscere.
C’è chi arriva alla vita cadendo dal cielo su morbide coperte di cashmere tra le braccia calde e premurose di una madre affettuosa e chi ci giunge nel pieno di una tempesta travolto dalle onde del mare con l’acqua alla gola, fin da subito in apnea.
Non è possibile appartenere ad entrambi i mondi, sono troppo distanti. Eppure c’è un momento in cui questi collidono, si toccano, e un po’ di sabbia sporca la morbida coperta e tutto va a rotoli. Nulla ha più senso.
Io sono venuta al mondo avvolta da lenzuola di seta bianche e quando la sabbia marrone talmente bagnata da sembrare fanghiglia ha macchiato la seta, la differenza era così abissale da non poter passare inosservata.
Io sono una bambola rotta. Un pezzo minuscolo ed insostituibile si è rotto. Gli ingranaggi faticano a muoversi e mi chiedo quando arrivi il momento in cui ogni cosa smetta di funzionare.

(Sul quaderno degli appunti di storia)


Mi alzai da terra pulendomi le mani sui jeans sporchi di fango che avevano visto sicuramente tempi migliori. Gettai la sigaretta a terra per poi calpestarla e spegnerla definitivamente con la suola consumata delle Vans nere. I raggi del sole timidamente filtravano tra le foglie della folta chioma della quercia. Sotto quei rami mi sentivo protetta da sguardi inquisitori e priva di ogni responsabilità. Non avvertivo il freddo del terreno o il trascorrere del tempo. Con la sigaretta tra le labbra e la stilografica tra le dita ero libera di viaggiare nei meandri più reconditi della mia mente.
Scrivere -scrivergli- lunghe lettere mi aiutava. Mettere i miei pensieri su carta mi aiutava. Scrivevo ovunque. Sulla corteccia degli alberi. Sulle carte delle caramelle. Sui muri. La città era disseminata di bigliettini volanti e scritti di mio pugno.
Posai la penna e il quaderno nella cartella e mi avviai verso scuola preparandomi a vivere un altro giorno. Un’altra giornata uguale alle altre. Più distanza mi costringevo a mettere tra me e il boschetto dietro la scuola e più il senso di oppressione si faceva sentire. Tenni la testa bassa cercando di evitare sguardi estranei. Fissavo le punte delle mie scarpe che lentamente e a piccoli passi si muovevano sull’asfalto producendo un rumore sordo. Il rimbalzare della cartella sulla schiena era rassicurante e mi ricordava quanto fossi normale e mortalmente viva. Cercai li liberare la mente dai pensieri, di lasciarla sgombra. Almeno per un po’. Giusto quel poco che mi permetteva di mantenere una certa sanità mentale.
La scuola era il mio inferno personale, ma non perché mi costringeva a svegliarmi presto ogni mattina e mi teneva impegnata tutto il giorno. Il vero motivo era un altro. In quel luogo c’erano troppi ricordi. Tra quelle mura viveva ancora la sua risata allegra e travolgente. Ovunque mi girassi vedevo il suo volto. Sentivo la sua voce chiamarmi e dirmi di smetterla. Di tornare a vivere. Ma io non potevo. Non potevo andare avanti senza di lui. Frequentare i nostri amici era troppo. All’inizio ci avevo provato, ma avevo fallito. Forse dovevo essere più testarda, ma tra i due lui era quello che non mollava mai.
Scossi la testa nel vano tentativo di far uscire quei dolorosi pensieri dalla mia mente. Varcai le porte del liceo e immediatamente il chiacchiericcio dei miei compagni mi inondò le orecchie. Nonostante il rumore fosse assordante non riusciva a riempire la voragine che avevo dentro. Né il rumore né la musica riuscivano nell’intento. Solo le parole. Le parole scritte riuscivano a farmi tornare a sentire. Era un momento, un momento in cui sentivo le punte delle dita fremere e capivo. Capivo che dovevo scrivere per gettare fuori tutto quello che avevo dentro. Ad ogni lettera impressa sentivo salire sempre più su quel nodo alla gola ma non riusciva mai ad arrivare talmente in altro da uscire fuori e sciogliersi. Era un nodo che si inglobava con nodi più piccoli lasciando solo devastazione e voragini al suo seguito.
Mi bloccai lungo il corridoio ed estrassi la carta lisa di un vecchio pacchetto di Vigorsol.

Cosa si nasconde dietro l’altra faccia della luna?

Scrissi e arrotolai velocemente il pezzo di carta e lo infilai nella tasca posteriore dei pantaloni. Una sensazione di pace si impossessò di me per un attimo, un solo minuscolo secondo. E poi svanì lasciandomi in compagnia della desolazione.


La mattinata trascorse come tutte le altre: apaticamente. Da quando lui se n’era andato nulla aveva più senso. La mia vita non aveva più senso. Il cuore pompava sangue alle arterie e mi permetteva di vivere. I polmoni gettavano aria al di fuori del mio corpo ma ogni singolo respiro era vuoto. Senza vita. I miei sospiri senza i suoi non erano degni di esistere. Se non c’era lui io non c’ero. Ed io non c’ero più da così tanto tempo che non ricordavo nemmeno più cosa volesse dire esserci.
Uscii da scuola e mi diressi verso l’autobus che mi avrebbe riportato a casa. I miei piedi si mossero ma non ci badai. Non sentivo nulla. Non percepivo i rumori che mi circondavano. Quel giorno avevo la testa vuota. Era peggio degli altri giorni. Era peggio perché in quella settimana c’era l’anniversario. Quei pensieri mi colpirono come cazzotti allo stomaco e mi portai istintivamente le mani al ventre. Non dovevo pensarci. Non dovevo. Salii sull’autobus come un automa e mi appoggiai can la spalla al palo vicino alle porte. Non provai nemmeno a vedere se ci fosse un posto libero tanto non mi sarei seduta. Mi sarei fatta mezz’ora di autobus impiedi e con lo zaino pesante pur di non sedermi.
Feci partire la musica. Le mie orecchie si riempirono delle grida e degli accordi rabbiosi dei Linkin Park. Mi sentivo intorpidita. Congelata da quelle emozioni delle quali non mi riuscivo a liberare. Era come in quei giochi di illusionismo quando il mago indossava la camicia di forza e in pochi secondi riusciva a liberarsi. Io ero quel mago ma io non sapevo quale fosse il trucco per liberarsi. Nessuno me l’aveva detto e adesso ogni secondo che passava mi sentivo sempre più costretta e soffocare da quelle emozioni e da quel passato che erano la mia camicia di forza.
L’autobus si fermò e io scesi lieta di poter respirare di nuovo aria pulita. Detestavo restare a lungo in posti chiusi. Mi dava un senso di impotenza che odiavo. Già una volta avevo sentito quel sentimento impossessarsi di me e farmi da padrone. Mi ero ripromessa che non sarebbe accaduto mai più. A piccoli passi mi avvicinai a quella che era la mia casa. Una bella casa bianca con le imposte scure e i fiori gialli e rossi sul davanzale. Il piccolo giardino d’avanti casa permetteva a mia madre di esercitare il suo pollice verde e mostrare ai vicini quanto fossero belle le sue petunie. In un quartiere residenziale e tranquillo come quello ci si poteva permettere di tenere un tavolo con delle sedie in bella mostra sul prato ben curato. Entrai in casa evitando appositamente di osservare due biciclette ancora legate tra loro e in disuso da così tanto tempo che le mie gambe non ricordavano più come si facesse a pedalare. O più semplicemente non volevano ricordare.
Sbattei la porta alle mie spalle e mi diressi al piano di sopra chiudendo la porta della camera dietro le mie spalle. In casa non c’era nessuno e questo lo sapevo bene. Mia madre era immersa nell’ennesimo turno di lavoro sfiancate e sarebbe tornata solo in tarda serata seguita dalla scia puzzolente di farmaci e malattie. Era impiegata all’ospedale come infermiera. Il lavoro era la sua vita. Passava più tempo tra quei corridori asettici che a casa nostra. Mio padre invece era partito la settimana prima per un viaggio di lavoro e ancora non era tornato. Tanto chi voleva prendere in giro, sapevamo –io e la mamma- che quei viaggi erano solo una scusa per evadere dalla realtà. La nostra -la mia- vita stava andando allo scatafascio e io non sapevo cosa fare per riprendermela in mano.
Mi stesi sul letto abbandonandomi al nulla lasciando che la solitudine e la depressione inondassero il mio corpo sperando di tornare a sentire. Ma non fu così. Presi a pizzicarmi una gamba ma nemmeno allora sentii dolore. Aspettai che l’ansia e l’angoscia si impossessassero di me. Attesi. Attesi il nulla che non arrivava. Presi a schiaffeggiarmi le cosce ma nemmeno quello parve farmi sentire nulla.
Con gli occhi appannati e la mente in pausa presi una manciata di monete del portafoglio e le infilai nelle tasche dei jeans. Afferrai il pacchetto di Marlboro e uscii di casa non sapendo bene dove fossi diretta. Sapevo solo che dovevo trovare un modo per ritornare a provare qualcosa.


My space..
Ed eccomi tornata con una nuova storia. Ho come l'impressione di essermi messa in un grosso guaio. Quanto può essere difficile scrivere una storia del genere? Tanto. Ci vuole di giusto umore (o sarebbe meglio dire l'adatto cattivo umore) per scrivere questa storia. 
Tuttavia sento il bisogno di dare vita a questi personaggi e non posso certo rifiutarmi. 
Per adesso non ho ancora nulla da dirvi sulla storia se non che spero vi sia piaciuta o quantomeno incuriosito.
Sono curiosa di sapere i vostri pareri e mi farebbe piacere ricevere consigli o critiche purché costruttive. 
Un bacio e alla prossima.
-B


 
  
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