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Autore: theuncommonreader    31/12/2015    5 recensioni
La vigilia di Natale, Flora tende una mano amica a un ragazzo solitario – e un artiglio si chiude attorno ad essa.
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“Incontrare un’auto da quelle parti è un caso raro; in effetti, è bizzarro incontrare qualcuno su quella strada, che Flora, però, potrebbe percorrere camminando all’indietro, tanto le è familiare – il panorama malinconico, i vapori che si levano dall’asfalto rugoso, i guardrail resi opachi, granulosi da uno spesso bozzolo di polvere, sono tatuati nelle sue retine.
Quella sera, eppure, non è sola a gettarsi bruscamente alle spalle il tramonto. Quella sera, una mano stringe la sua destra, una mano calda, morbida, che nella propria quasi sparisce.”

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Ispirato al contest “Malia: il canto delle sirene” indetto da YUKO CHAN sul forum di EFP. Partecipa al “Random Contest” indetto da Fabi_Fabi su EFP.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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horror

Autore: Harlequin Valentine (FFZ) / theuncommonreader (EFP)
Titolo: Les Fleurs du mal
Fandom scelto: Originale.
Prompt scelti:

-          Immagini: http://www.everystockphoto.com/photo.php?imageId=819 ; http://www.everystockphoto.com/photo.php?imageId=9841

-          Citazione: “La fiducia si trova in difficoltà nel momento in cui ci rendiamo conto che il male si può nascondere ovunque; che esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non ha segni particolari né usa carta d'identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile.” (Zygmunt Bauman)

  Prompt: I) Spirito; II) https://s-media-cache-ak0.pinimg.com/originals/7a/fd/cf/7afdcf6f95cbb0996338ab566e68e5df.jpg

Note dell'autore: Il titolo è ovviamente ripreso dalla raccolta lirica di Baudelaire. La scelta è ricaduta su di esso sia per il riferimento all’immagine scelta, sia per il gioco di parole creato dal nome della protagonista – Flora.


 

 


avatar by YUKO CHAN

 

 

 

 

Nell’ora in cui il sole affoga dietro la collina e l’erba scheletrita si colora di viola nel tramonto invernale, il vento che si insinua sotto gli abiti scava la pelle come la punta di un coltello. Stringersi nella giacca troppo ampia, troppo leggera, le serve a poco: le folate gelide le graffiano la nuca, e la pelle si increspa di brividi.

Ad ogni suo respiro, nuvolette di fiato si addensano nell’aria, bianche come fumo di sigaretta. Un sorriso si distende sulle sue labbra, appena accennato. Il ricordo le attraversa la mente come una meteora: una se stessa bambina, l’indice e il medio tesi a imitare sua madre che porta la cicca alla bocca dipinta di rosso, bella come le ragazze francesi che ammiccavano dalle copertine dei suoi giornali di moda.

Il sorriso si congela, irrigidendosi in una smorfia che Flora scrolla via dal viso arrossato con un gesto brusco del capo. Sua madre è morta da tanto tempo, e lei non ha mai imparato il francese per andare a fumare fuori dai bar di Parigi, una cloche nera in testa e una baguette appena sfornata ad attenderla fumante nel cestello della sua bicicletta.

Si accorge solo in quel momento di essersi fermata. Le flebili luci dei lampioni si rifrangono sulla cortina di nebbia che si alza dall’erba umida. Prende un respiro profondo, e l’aria pulita le gonfia i polmoni, allargando la gabbia delle costole fin quasi a spalancarne le porte.

Incontrare un’auto da quelle parti è un caso raro; in effetti, è bizzarro incontrare qualcuno su quella strada, che Flora, però, potrebbe percorrere camminando all’indietro, tanto le è familiare – il panorama malinconico, i vapori che si levano dall’asfalto rugoso, i guardrail resi opachi, granulosi da uno spesso bozzolo di polvere, sono tatuati nelle sue retine.

Quella sera, eppure, non è sola a gettarsi bruscamente alle spalle il tramonto. Quella sera, una mano stringe la sua destra, una mano calda, morbida, che nella propria quasi sparisce. Quando ha arrestato la propria marcia, la figuretta, ad un solo passo di distanza da lei, si è anch’essa bloccata sul posto.

Occhi grandi e scuri la fissano dal basso, interrogativi sul viso per metà di bambino, per metà di giovane uomo.

Gli angoli della bocca piccola sono ancora sporchi di cioccolato.

 

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Non le piacciono le folle.

Mal sopporta il mare di corpi ammassati l’uno con l’altro mentre cammina per l’unica via del suo minuscolo paesello di campagna: più che una strada principale, un lungo corridoio che dà su negozietti addobbati a festa, sfavillanti di luci dai colori troppo intensi che mutano troppe volte e troppo velocemente. L’eco di canzoni festose scivola fuori dalle fessure delle porte a vetri ben chiuse per combattere i morsi del gelo.

Si sente soffocare, e un brivido segreto le corre lungo la schiena mentre fissa un volto dopo l’altro, macchie bianche confuse in una distesa di cappotti.

Non dare confidenza agli estranei, Flora. Mi raccomando. Il male si può nascondere ovunque, non lo distingui in mezzo alla folla.

Tra la gente, Flora, che è una figlia ubbidiente, non dimentica mai di guardarsi le spalle.

Mentre gira il collo per fare proprio quello, quasi inciampa, sbilanciata in avanti da un ostacolo che cozza contro la scarpa da tennis.

Stupita, Flora si afferra al muro per sostenersi, grattando il palmo nudo della mano.

“Scusami…”

Una mormorio. Flora, rimettendosi in piedi e soffiando sulla pelle che le brucia, cerca con gli occhi il proprietario di quella voce abbattuta, posandoli sul capo scuro di un ragazzino.

Ha il viso chino, le gambe, che prima dovevano essere allungate sul marciapiede, strette al petto. Siede sulla soglia dell’unica rosticceria della città – l’odore della carne ben cotta solletica le narici di Flora.

Lo osserva circospetta, borbottando qualcosa. Vorrebbe allontanarsi in fretta – fa un passo per rimettersi in cammino.

Torna indietro.

“Ehi, senti. Sei solo?”

Quello sussulta, stringendosi nelle braccia sottili. La guarda dal basso, annuendo vago per poi lanciare un’occhiata oltre la porta a vetri della bottega. Ha solo un maglione scuro addosso.

Flora riesce a sentire il suo stomaco che gorgoglia anche sotto ai toni festosi di Astro del Ciel.

Si fruga nelle tasche. Le ricorda desolatamente vuote, ma, nella destra, la punta di un dito sfiora l’incarto di quello che si rivela un cioccolatino. Le luci del negozio riverberano sulla plastica scarlatta, minuscoli ghirigori d’oro che si intrecciano attorno allo stemma bianco che spicca ai lati.

“Cherry Brandy”, la informa una grafia elegante, quasi il dolcetto stesse vezzosamente facendo le presentazioni. Liquore. Un regalo di Eva di Contabilità, senza dubbio.

Non è certo l’ideale, per un bambino, ma Flora coglie il suo sguardo avido, la linguetta rosa che passa veloce sulle labbra riarse.

Non è poi così piccolo.

Ora che riesce a vederlo meglio in viso, stima che non potrà avere meno di dodici anni - un’età ragionevole per un bonbon acolico, in fin dei conti. Dunque allunga la mano e glielo passa.

Gli occhi scuri di lui si fanno prima più grandi, poi sottili, mentre scarta veloce il dolcetto di un marrone carico che riluce appena mentre il ragazzino ci affonda i piccoli denti senza esitazione o pietà.

Il ripieno rosso gli sporca le labbra, la lingua raccoglie avida la ciliegia candita celata all’interno, la succhia con un suono osceno.

Un vago turbamento attraversa Flora, repentino come una nuvola che, scolpita dal vento, assume una forma riconoscibile e la conserva solo per un attimo mentre veleggia verso l’infinito. Il ragazzino si lecca le labbra offrendole un sorriso estatico, e Flora ricambia senza neppure accorgersene.

“Hai un posto dove stare?”

Un cenno di diniego, senza mai staccare gli occhi da lei. Flora quasi si costringe a battere le palpebre – rompere il contatto; poi, si guarda attorno.

Nessuno pare fare caso a loro. Nessuno arriva per recuperarlo, prenderlo per mano e augurare a lei un affrettato “buone feste”, mentre lo rimprovera aspramente per essersi allontanato troppo.

Silenzio.

“Sto andando a casa, non è lontano. Che dici se vieni da me e poi pensiamo a qualcosa per la notte?”

Prima o poi, le chiederà di usare il telefono, ne è sicura. Di certo, ha qualcuno da chiamare.

Senza una parola, il ragazzo si lecca le dita sporche, lasciando cadere in terra l’incarto rosso; poi, le avvolge attorno alla mano tesa di Flora. “Tienila stretta, o ci separeranno. Sempre la stessa storia, come se tutti si ricordassero del Natale solo la sera della Vigilia”, borbotta con disapprovazione, avviandosi a passo deciso.

La plastica rossa rotola a terra, sospinta dall’aria fredda, finendo presto tra le grate di un tombino.

 

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Flora sorride nervosa. Le parole di rassicurazione rimangono intrappolate in gola.

Le dita del ragazzo sono calde e piacevolmente asciutte contro i suoi polpastrelli, eppure, a Flora pare di sentire le proprie sempre più intirizzite e rigide – fatica quasi a muoverle per strizzare leggermente la mano del ragazzino in una stretta rassicurante.

Ci siamo quasi, vorrebbe dirgli, ma le parole restano incagliate sui denti; invece, riprendono a camminare, e, pure se è verso casa di Flora che si dirigono – la sua casetta con l’orticello addormentato nella stagione invernale e i vasi di rosmarino alle finestre – in realtà, si rende conto, è lui a condurla dove desidera.

I loro passi rimbombano a ritmo regolare sulla pavimentazione, echeggiano nel silenzio. Procedono lentamente, tanto lentamente che il cervello di Flora rallenta anch’esso e si inceppa su ricordi di sé ragazzina, mano nella mano con suo padre, le braccia che dondolano avanti e indietro, i loro sorrisi identici e stupidi come quelli di due bambini un po’ tardi. La portava a vedere il tramonto, uscendo dalla fabbrica, e poi le prime stelle. Si fermavano sullo spiazzo di fronte alla temibile curva a gomito poco distante da casa loro, famigerata nemica di ogni mezzo su ruote, e se ne stavano a naso per aria; la cena era sempre più buona, dopo, e il suo dolce peso sullo stomaco le diffondeva calore dalla pancia fino alla punta di piedi e capelli.

L’erba fruscia sotto le suole delle loro scarpe. La presa delle dita del ragazzino si fa più decisa. Flora si sente quasi trascinare, e getta una vaga occhiata alle proprie spalle nell’attimo che le è concesso per farlo. La nebbia si è inghiottita la strada, e i suoi occhi non riescono a penetrare quella parete. I lampioni non arrivano a illuminare i loro passi, mentre si allontanano dalla guida sicura dei guardrail, e solo la luna, dal cielo nero, rischiara la loro salita.

Presto, Flora ha il fiato corto.

Deglutisce, e un suono liquido della propria saliva le invade le orecchie. « Dove andiamo? », riesce a domandare – perché ormai è chiaro che non è verso casa sua che stanno andando – e intanto si piega su se stessa, costringendo quel ragazzino instancabile ad arrestare la marcia forzata. Lui si volta, regalandole appena uno sguardo degli occhi chiari – chiarissimi, quasi bianchi. « A casa, vedi. Lì. »

Solleva la mano libera, tendendo un dito per indicare la sommità della collina immersa nel sonno. Non un rumore fende il silenzio, se non quello del suo respiro pesante. Flora solleva gli occhi, seguendo la traiettoria tracciata dall’indice candido – così magro da apparire scheletrico.

Una casa la osserva dalla sommità del colle, una visuale vagamente familiare ma che non riesce davvero a inquadrare – un elemento sullo sfondo della propria infanzia, un edificio che ricorda di aver visto ma mai davvero osservato. Il profilo affilato svetta pallido nel buio, come un viso levato verso il cielo. Qualcosa, di quella vista, le appare storto, sbagliato, ma la mano ancora nella propria, così soffice e calda, la tira gentile e Flora si scopre un’ubbidiente bambina di trent’anni.

La salita continua. Le scarpe da tennis di Flora si aggrappano facilmente alla terra dura, ma la ragazza comincia ad avvertire davvero il peso della fatica, quasi che le erbacce troppo coriacee per soccombere all’inverno la frenino di proposito, intrecciandosi alle sue caviglie, facendola incespicare. Ogni frammento di energia rimasta si concentra nel restare in piedi, non accasciarsi, accartocciarsi su se stessa per riprendere fiato.

Il tocco gentile del ragazzino, che pure non emette sbuffo mentre si arrampica agile e a proprio agio come un capretto di montagna, la sprona a seguirlo. Ha così freddo che vorrebbe solo poterlo abbracciare, tenerlo contro di sé per accogliere il suo calore sotto la pelle.

« Ci siamo quasi », mormora lui, la voce infantile che si insinua nelle orecchie congelate di Flora – neppure avverte più la carezza dei capelli sulla pelle insensibile. La stanchezza le pesa addosso come una cappa di velluto bagnato, ed è già tardi. La luna è alta, e a quell’ora, Flora sarebbe già sotto le coperte, le chiacchiere della radio in sottofondo e Cime Tempestose aperto sulle ginocchia, una tisana bollente a portata di mano sul comodino di legno tra il letto e il muro. Deve svegliarsi presto, il giorno dopo. Per andare… per andare…

« Ecco, siamo arrivati. »

Ci sono davvero.

La casa sbagliata incombe su di loro e, tanto da vicino, le pare enorme, quasi un castello. Ogni pietra del muro di fronte sembra guardarli fissi, le due ampie finestre senza imposte somigliano a orbite vuote di un teschio.

Il ragazzino non la lascia, ma, ora che gli è accanto, Flora lo vede frugare sotto il colletto alto del maglione di lana pesante che indossa, alla ricerca di qualcosa di certo appeso al collo esile. Avverte, più che vedere, un luccichio, un bagliore argenteo, che non dovrebbe essere in grado di discernere – non in quel buio, non alla sola luce della luna.

Una chiave. La guarda sparire in una toppa, anch’essa troppo brillante nell’oscurità quasi totale.

Uno scatto, un cigolio acuto.

Per l’ultima volta, la terra si afferra ai piedi di Flora mentre la ragazza compie il primo e ultimo passo oltre la soglia. Un cono di luce lunare carezza i capelli del bambino – candidi ricci, pallidi del pallore della malattia.

Dietro di loro, la porta si chiude come una tagliola.

 

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La casa non ha il tetto.

Il nero del cielo la invade come inchiostro rovesciato su un tavolo. Non ci sono stanze, né illuminazione. O pavimento. Solo quattro mura e un tappeto di splendidi fiori dall’odore intenso. Flora si meraviglia di non averlo avvertito prima: adesso, le penetra le narici, si insinua fino al cervello, carezzandolo oltre le pareti del cranio.

Il ragazzino le lascia la mano e Flora batte le palpebre.

« Vieni con me, dai. Giochiamo. »

Flora è una bambina ubbidiente.

Avanza. Ad ogni passo, una nuvola di polline si alza nell’aria, bianca contro i petali di un grigio carnoso di quegli strani fiori troppo aperti, dai petali oscenamente tesi verso le caviglie di Flora, quasi spalancassero le bocche allungando i minuscoli pistilli scurissimi con la sensualità di una lingua intenta al bacio.

Flora decide di fermarsi, coglierne uno. Quando si piega, sollevando la destra per chiuderla attorno a uno stelo, si arresta a mezz’aria, stupefatta: una mano secca si para sotto il suo sguardo, il dorso attraversato da grosse vene scure. La mano scheletrica di una vecchia, dalla punta delle dita fino al polso sottile.

Un artiglio.

L’urlo che le sale in gola si infrange contro la prigione delle sue labbra in un mugolio sofferente quasi inudibile.

« Vieni, Flora, vieni a giocare! »

 

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Un albero bianco.

Privo di foglie, sottile e flessuoso, rami come ossa illividite dal sole che la invitano a farsi vicina. Il ragazzino siede tra le radici che fanno capolino timide dalla terra scura – bianco anche lui, gli occhi, i capelli, e le mani dalle dita tese a invitarla.

Flora è così stanca. Deve sedersi, un attimo solo.

Trascina i piedi, calpesta senza ritegno i fiori che continuano a sfiorarla quasi con lussuria – e che poi la accolgono quando si sdraia a terra, con un sospiro profondo, liberatorio. Attende si formi la solita nuvoletta nell’aria, ma quella rimane pulita e silenziosa.

 

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Apre gli occhi.

Non ricorda di averli chiusi. Le pare di essere così leggera, così calda. Sazia, pur senza cibo in corpo. Avverte un peso attorno al collo, un piccolo macigno – e un altro, più dolce, contro il seno. Il lineamenti del ragazzino, nel sonno profondo, prendono il rilassamento della morte. Le sembra neppure respiri.

Flora tenta di voltare il viso, ma i loro capelli formano un’unica massa, tanto che non riesce a muovere bene il capo, quasi qualcuno li abbia intrecciati assieme. Solleva lo sguardo. Bianchi.

Lentamente, alza una mano e si tasta la zona del collo, e poi giù, verso il petto. Fa scivolare una mano troppo pallida, troppo magra per essere la propria, sotto la giacca. Sopra il maglione, oltre la barriera della lana, al tatto riconosce la forma di una chiave – una pesante chiave appesa alla fredda catenella che preme contro la pelle e le ferisce la nuca.

Un vento leggero sparge un profumo dolciastro e ferrigno nell’aria. I fiori ancora la carezzano, muovendosi lenti nella brezza voluttuosa.

La luna li spia, dalla sommità del cielo. Dal basso, migliaia di petali scarlatti ricambiano lo sguardo.

 

“Il male si può nascondere ovunque; […] esso non è distinguibile in mezzo alla folla, non ha segni particolari né usa carta d'identità; e che chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa [..].”

 

 

fin.

   
 
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