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Autore: Lilmon    31/12/2015    0 recensioni
Su un pianeta molto lontano dalla Terra, un gruppo autoctono di seguaci di una dea oscura chiamata Xanfer commette una serie di delitti che apparentemente sembrano essere del tutto scollegati. Starà al protagonista districarsi in questo groviglio di vicoli ciechi, per giungere infine a un'atroce conclusione.
Genere: Mistero, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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III.

 

    Manfer scintillava nel cielo limpido di quel caldo pomeriggio, e con il suo calore abbracciava l’amato e lo cullava dolcemente tra le sue luminose braccia. Il calore aveva fatto divenire talmente irrespirabile l’aria dello studiolo che l’inserviente, attanagliata dall’istinto di sopravvivenza, fu costretta a spalancare la finestra. Aveva inoltre acceso la vecchia televisione che si trovava sopra a un mobiletto a ridosso della scrivania, pieno zeppo di polvere; dopo aver girato due o tre canali trovò finalmente quello che stava cercando ed era sul punto di decidersi che fosse il momento di iniziare a far ciò per cui era stata pagata, ma all’improvviso il vecchio alcolizzato iniziò a lamentarsi nel sonno. Fu subito presa dallo sconforto, siccome quell’abitudine di brontolare nel sonno si manifestava specialmente quando il vecchio alzava di troppo il gomito; cercò di convincersi che era troppo presto e che era molto improbabile che egli si fosse già abbandonato a1lla sua brutta abitudine. Presa quindi da grande affettazione decide di muovere i suoi passi verso il bagno e, una volta afferrata la maniglia della porta, solo quando si sentì pronta, la aprì. “Devo assolutamente chiedergli un aumento” pensò, dopo aver visto le condizioni in cui versava il bagno; specialmente la tazza, essa era imbrattata da capo e piedi di rigurgito. La vecchia umanoide fece un grande sospiro di rassegnazione, e si preparò a pulire lo sozzume che ricopriva tutto quel luogo; di tutti gli uffici che doveva ripulire durante la sua giornata lavorativa sicuramente lo studio del detective Hapto era quello che ella detestava maggiormente. Più e più volte si era ripromessa di venir meno a quell’impiego, ma ogniqualvolta ci pensasse nella sua mente compariva la grottesca figura del detective e la fine che avrebbe fatto se non si fosse occupata del suo studio: probabilmente sarebbe morto di qualche strana malattia in poco tempo, viste le condizioni igieniche del bagno dopo soli due giorni dalla sua ultima visita. Si mise a ridere in silenzio e si disse “Se non lo faccio io, chi lo fa?”; sapendo la risposta della sua stessa domanda si mise i guanti e iniziò il suo duro lavoro.

    Un respiro più brusco degli altri fece sussultare il detective, che si risvegliò dal suo sonno profondo. Era piuttosto confuso e non capì subito chi lo avesse portato in quel luogo, né dove fosse e nemmeno il perché di quella strana esistenza, che sentiva più vivida che mai nelle sue mani intorpidite. Sgranatosi gli occhi, il mondo riapparve alla sua vista indagatrice che, analizzando in gran fretta le forme e i colori circostanti, lo riportò presto alla dura realtà che gli piombò in testa come un’incudine di ferro. D’un tratto si ricordò d’essere un vecchio fallito, della signorina Deblor e del pito. Pensò che due fatti positivi su tre potessero essere una gran conquista per quella giornata di duro lavoro; poi, improvvisamente, gli balenò in mente che madame Deblor era in realtà sposata e decise perciò di sprofondare sulla poltrona. Guardandosi intorno sconfortato per qualche secondo s’accorse che la televisione era accesa e che quindi la signora Exer doveva essere arrivata già da qualche tempo e doveva trovarsi ancora lì da qualche parte.
-Buongiorno signora Exer- disse cercando di ricomporsi.
-Signor Hapto, ormai dovrebbe aver capito che non mi scandalizzo più per certe cose; stia tranquillo. Me ne sarei già andata altrimenti, non crede?- rispose una voce roca che pareva provenire dalla libreria dietro le sue spalle. Non poteva essere che lei.
Voltatosi, disse -Capito, capito. Grazie per il suo lavoro. Non saprei come fare se non ci fosse lei a prendersi cura di-. La vecchia inserviente lo interruppe rispondendo bruscamente –Lo so signor detective. Si risparmi i convenevoli!-.
Hapto ne fu molto sollevato, non era infatti nella sua natura dire simili stupidaggini. L’umanoide riprese:
–Mi dica piuttosto, ha visto quello che è successo?- e, avendo indicato la televisione con un gesto del capo affinché il suo interlocutore vi prestasse attenzione, concluse –E’ intervenuto persino l’Astro in persona!-.

    Il canale su cui era sintonizzata la televisione trasmetteva unicamente notiziari su notiziari, a ogni ora del giorno. Ci si poteva dunque chiedere se esistessero davvero così tante notizie da riempire l’intero palinsesto di una giornata, ma in quei giorni stavano accadendo delle strane vicende, che avevano scosso da capo a piedi l’opinione pubblica e risvegliato così la paura collettiva, sopita ormai già da qualche rivoluzione. In quel preciso momento una giovane umanoide molto distinta, ma dall’aria piuttosto preoccupata stava rivolgendo alcune domande a un vecchio bardato di bianco e seduto su uno scranno di velluto rosso.
-Sommo Astro, insomma, per tutti questi motivi lei è sicuramente la persona più adatta a rispondere a questa domanda. Sta forse accadendo nuovamente?-.
-Cara signorina-, rispose il sommo sacerdote con un gesto pacato della mano, -Posso assicurarglielo, ora come ora nessuna cellula separatista sta minando alla pace che abbiamo conquistato con così tanta fatica e con così tanto spargimento di sangue. Il ricordo è forse lontano nel tempo, ma ancora vivo nella mia memoria; ma è inutile guardarsi alle spalle, ciò che abbiamo costruito assieme, tutto ciò di cui possiamo godere oggigiorno, l’abbiamo raggiunto sì con il sacrificio di alcune vite umane, ma esso era necessario alla costruzione di una pace solida e duratura.-
La giornalista non sembrava essere contenta della risposta del suo interlocutore, perciò decise di rincalzarlo:
-Capisco bene ciò che afferma, sua eminenza; ma se dunque non si tratta di crimini di matrice separatista, chi può aver commesso tutti questi omicidi d’ispirazione religiosa? E’ innegabile infatti che costui stia cercando di inviarci una sorta di messaggio, ma a che prezzo? Quante persone ancora dovranno morire?-
-Signorina, io sono un semplice uomo di fede, non un cartomante, e nemmeno un detective. Non posso certo rispondere alle sue domande; l’unico obiettivo a cui posso aspirare è infatti di rivolgermi a lei e a tutta la brava gente che ci sta ascoltando in questo momento, e assicurarvi che non vi è nulla di religioso in questi atti ferini. Nessun vero uomo di fede agirebbe in tal modo; nemmeno fosse esso un separatista. Chiunque sia costui non posso certo considerarlo né un umanoide e tantomeno un Tork, ma unicamente una matta bestia, che con il nostro credo non ha nulla a che vedere, se non forse una conoscenza dozzinale dei sacri Kapor. Conoscenza che per altro non possiamo valutare in maniera diretta.-

    Hapto con un rapido gesto spense il televisore e iniziò a brontolare:
-Certo che per essere l’Astro ne dice di stronzate. Non pensi anche tu, cara?-. Dalle sue parole e dai suoi gesti emergeva evidente il tono di scherno nei confronti del vecchio sacerdote e di tutte quelle persone che, come la vecchia signora Exer, sembravano serbare un’attenzione speciale per le sue parole. Come se costui dovesse essere tenuto da conto, dovesse avere un tratto elitario che lo elevasse al di sopra di tutti gli altri; costui, certamente, ricopriva la carica di Astro ed era sceso in prima linea rivoluzioni addietro durante il periodo buio della primavera separatista, tuttavia agli occhi del vecchio detective rimaneva null’altro che un vecchio ipocrita.
-Lei è troppo prevenuto signor Hapto! E io in realtà avrei voluto continuare ad ascoltare; perciò se non le dispiace..- e, tendendo la mano destra verso di lui, si fece consegnare il telecomando dal vecchio, che pareva ormai rassegnato all’idea di doversi sorbire tante stupidaggini tutte insieme. Perciò, consegnatole l’apparecchio, disse -Sta bene! Faccia quel che vuole!-. Così la signora Exer riaccese la televisione, ma ormai l’intervista con l’Astro era terminata e alla conduzione del programma era subentrata un’altra distinta signora, un poco più anziana e imbellettata della precedente. Costei parlava con molta disinvoltura poiché il suo unico scopo in quella giornata era stato e sarebbe continuato ad essere quello di ripetere più e più volte ciò che era accaduto in quei giorni; quasi come una filastrocca di morte e distruzione.
-Piuttosto- continuò l’inserviente -Lei, che è un signor Detective, cosa ne pensa di questa situazione d’allerta?-.
Hapto, che certo aveva colto la nota ironica delle parole dell’umanoide, tuttavia era troppo stanco per darci qualsiasi cenno d’importanza e si limitò a rispondere –Penso che non siano affari miei. Ecco ciò che penso. E poi, suvvia, sono morte solo tre persone in una decina di giorni; certamente  c’è un pazzo omicida tra noi, e questa è un’apposizione innegabile, ma confrontare tutto ciò con i fatti accaduti venti rivoluzioni fa è da persone stupide-.
-E che mi dice dunque della matrice religiosa degli omicidi?- disse la signora Exer, controbattendo.
-Su questa questione, devo ammetterlo con mio rammarico, non ho che da concordare con il vegliardo- e, facendo un gesto verso la televisione, che continuava a far da sottofondo al loro discorso, riprese – Guardi dove mi ha spinto il suo tanto farneticare, a concordare con un vecchio ipocrita; ma non c’è assolutamente nulla di religioso in tutti questi omicidi. Se non il fatto che l’assassino probabilmente è un pazzo invasato che conosce qualche passo dei Kapor. Non è certamente una novità che qualcuno voglia lasciare un messaggio attraverso i suoi crimini; c’è chi decide di farlo tramite il teatro, tramite un bel film o un buon libro; ma c’è anche chi, al contrario di costoro, sceglie il sangue e la distruzione. D’altronde se il mondo fosse stato fondato dagli albori dei tempi su una pace eterna e immutabile non potremmo godere, per esempio, degli stessi Kapor e di alcune delle migliori opere da noi create; non ci sarebbe alcun eroe da ricordare, non ci sarebbe alcun racconto di gesta epiche, nessun film d’azione, poiché essenzialmente non vi sarebbe alcuna oscura trama de decifrare e diramare. Tutto ciò che conosciamo diverrebbe un eterno e soffocante presente fatto di ripetitività-.
La vecchia umanoide pareva non riconoscere più l’ubriacone che le si parava dinnanzi agli occhi, il quale, accoccolato sulla sua poltrona in pelle, continuava:
-Fu proprio questa strana “necessità del male” a spingermi in primo luogo a entrare nel corpo di polizia e a motivarmi durante tutte le rivoluzioni della mia carriera; e, mi creda signora Exer, che, tra tutta la massa di delinquenti che ogni giorno condividono con noi Pumbar, di tanto in tanto ne emerge qualcuno che, per sua oscura natura, guarda all’esistenza con occhi diversi, e ne fa una forma d’arte, distorta e corrotta, ma pur sempre una forma d’arte-.
-Certo che lei è proprio pazzo-, rispose apertamente l’inserviente, –Dev’essere stato il pensionamento che l’ha reso folle-, prorompendo poi in una risata.
Hapto, quasi come risvegliatosi dalle sue fantasticherie, rispose –Vecchiaccia maledetta! Giuro che un giorno-; ma fu subito interrotto dall’umanoide che disse, ridendo, -Cosa farà? Mi caccerà via? Lo sa meglio di me che sono l’unica disposta a pulire tutto il suo sudiciume giornaliero-.
-Maledetta- rispose lui e, sconfitto nell’animo, decise di infilarsi la giacca e uscire, affidando la custodia dello studiolo alla signora Exer.

    Quando spuntò fuori dalla porta di ingresso dell’edificio, la vista del detective fu accecata da tutta la luce che Manfer riversava dalle sue fauci e l’aria pareva essere tanto satura di vapori che vi avrebbe potuto galleggiare dentro. Pensò subito che l’idea di metter piede fuori dallo studio in quel pomeriggio afoso non fosse stata certo la sua trovata più geniale. D’altronde la grande metropoli di Darouk era una delle più inquinate della nazione, non solo per via della presenza di innumerevoli industrie che riversavano i propri gas di scarico nell’atmosfera, ma anche perché la città era sorta affianco a un grande lago e dunque si trovava al centro di un’estesa conca naturale, circondata quasi completamente dalle alte Montagne del Nord. L’immensa mole rocciosa dei monti dunque da un lato proteggeva la città da qualsiasi violenta folata di vento, ma purtroppo, così facendo, ne impediva anche un ricambio d’aria, cosicché tutte le polveri inquinanti rimanevano sospese nell’ambiente circostante la città. Le grandi industrie che avevano sede a Darouk inoltre erano specializzate nella lavorazione di componenti altamente tecnologici e quindi facevano utilizzo di materiali altamente inquinanti quali le Terre Rare. Nonostante i vari controlli da parte degli enti di protezione per l’ambiente, le immense ciminiere delle fabbriche rigettavano comunque nell’atmosfera della metropoli una grande quantità di gas denso e nerastro che, una volta rimasto sospeso in aria, era destinato poi a ricadere su Darouk e su tutti i suoi abitanti. Immerso perciò in questa atmosfera infernale, Hapto pian piano si diresse verso la fermata del treno che distava una centinaia di metri dal suo studio; mentre camminava lentamente tra le vie della periferia poteva constatare ogni singola volta il degrado di quei quartieri, così lontani dal centro finanziario e palpitante della metropoli che pareva che la giunta a capo della città non se ne curasse affatto. Ed effettivamente nessuno di loro avrebbe mai messo piede in quelle zone remote, che erano traboccanti di delinquenza e povertà e in cui i servizi statali parevano non essere funzionanti dall’eternità. Per tali ragioni il detective era costretto a passeggiare tra palazzi fatiscenti e catapecchie pericolanti, tra strade dissestate e piazze divorate da piante ed erbacce, in uno scenario sospeso tra vita e morte; nonostante tale trionfo della desolazione ormai non lo sorprendesse più, una nota amara tuttavia sembrava risalirgli la gola, quasi come se qualche strano istinto di rivolta fosse sopravvissuto nel profondo del suo animo durante tutte quelle rivoluzioni. Ma il tempo a sua disposizione per tutte queste riflessioni terminò e, giunto al gabbiotto dei biglietti, ne chiese uno per il distretto centrale di Verberbar. Tale spesa gli prosciugò quasi tutte le risorse finanziarie a sua disposizione; la giunta comunale infatti, per cercare di impedire la diffusione della criminalità dai distretti periferici della città, più poveri, a quelli centrali, più ricchi, aveva disposto una ridefinizione dei prezzi dei biglietti: se prima dunque questi dipendevano unicamente dal chilometraggio di percorrenza della tratta, ora invece variavano esclusivamente in funzione della destinazione. Così facendo i distretti centrali risultavano irraggiungibili per la maggior parte dei cittadini dei distretti periferici e dunque, nell’ottica dei loro residenti benestanti, più sicuri. L’accesso ai binari riservati ai treni in partenza per i distretti centrali era dunque sorvegliato notte e giorno da truppe dell’esercito; Hapto perciò, mostrato il biglietto alle guardie armate e raggiunta la banchina della stazione, si accorse di essere solo e degli sguardi traboccanti d’odio che gli lanciavano le persone che, ammassate sulla seconda banchina, stavano aspettando il treno per gli altri distretti periferici. Il detective era abituato a questa situazione, che si ripeteva identicamente ogni mese; ma a spezzare tutta quella tensione fu provvidenziale l’arrivo del treno che, dopo pochi minuti, ripartì con il detective a bordo.

    Il supertreno sfrecciava attraverso i palazzi scuri della periferia, lasciandosi alle spalle la stazione del distretto di Derfer, che scivolava verso l’orizzonte indistinto. L’interno della carrozza del treno era pressoché asettico: l’ambiente, quasi del tutto di colore bianco, poteva risultare, a un primo impatto, poco accogliente per il passeggero, il quale, varcando la soglia del vagone, si ritrovava sospeso tra un magico sogno candido che gli si parava dinnanzi agli occhi e la nera crudeltà della realtà che si era lasciato dietro. I sedili, disposti in gruppi da quattro elementi, erano molto larghi e comodi e i corridoi tra essi erano ben segnalati da innumerevoli sorgenti luminose che, poste sul terreno in successione, ne seguivano il districato percorso. Hapto si sedette sul primo sedile libero che riuscì ad adocchiare, a ridosso di uno dei grandi finestrini che s’affacciavano su Darouk; la carrozza era quasi sempre vuota, se non per la presenza sporadica di alcuni funzionari statali di ritorno dal sopralluogo delle grandi fabbriche della periferia. Questi ultimi erano riconoscibili dalla loro lunga uniforme nera, che, simile a un pastrano di feltro, li ricopriva da capo a piedi e sulla quale era appuntata una scintillante spilla d’argento raffigurante il simbolo della “Nazione degli Umanoidi”: una testa di Harricar cesellata in un circolo da cui dipartivano sette punte. Ogni funzionario statale infatti possedeva un’unica spilla di tal sorta poiché era proprio questa che elevava la sua posizione e legittimava il suo agire; per tale ragione le spille erano prodotte in serie e numerate, affinché, per mezzo di uno schedario, a ognuna di esse corrispondesse il nome di un unico funzionario. Era dunque impossibile non notare la presenza di un funzionario a bordo del supertreno; il nero dei loro abiti infatti contrastava con il bianco dell’ambiente circostante come  una grande chiazza d’inchiostro su un foglio intonso. Quel pomeriggio però Hapto pareva essere l’unico passeggero, non solo del vagone, ma del supertreno intero: la banchina di ogni stazione del distretto di Derfer in cui esso si fermasse era deserta e la corsa del detective proseguiva dunque in quella candida solitudine. Ma dopo una ventina di minuti si rese finalmente visibile dal finestrino la grande barriera nera dei distretti centrali; tale imponente costruzione era una muraglia alta una sessantina di metri e larga una trentina che circondava e proteggeva nella loro interezza i cinque distretti centrali di Darouk, impedendone l’accesso a chiunque, proveniente dai distretti periferici, non possedesse i requisiti adatti. Essa infatti era sorvegliata notte e giorno dalle forze armate che, senza sosta, proteggevano le quattro porte della muraglia e ne regolavano il flusso di persone e mezzi. Al supertreno però erano riservati sette ingressi privilegiati ed elevati rispetto al livello del suolo abitato, attraverso i quali esso era libero di sfrecciare senza alcuna necessità di fermare la sua corsa; al detective Hapto effettivamente piaceva molto tale peculiarità del supertreno: varcare quell’enorme simbolo del potere statale con così tanta facilità pareva gli conferisse una sorta di autorità che egli poteva possedere unicamente nei suoi sogni più intimi. Varcata dunque la soglia delle mura, il distretto di Verberbar si parò dinnanzi agli occhi del detective: i vecchi palazzi anneriti dallo smog sembravano essere un lontano ricordo dinnanzi agli immensi grattacieli in vetro, che, riflettendo la luce di Manfer, parevano scintillare come diamanti. Erano presenti inoltre innumerevoli parchi, soprattutto a ridosso delle sponde del lago Elkoferkana, che si stagliava nel mezzo della metropoli: il loro verde lussureggiante, contrapposto all’atmosfera grigia della periferia, era un caldo abbraccio per la vista.

    Presto una voce robotica, che nulla aveva di umanoide, annunciò -Siamo in arrivo alla stazione di Verberbar-. Il distretto di Verberbar possedeva infatti un’unica stazione, situata all’estremo meridionale del suo territorio; così il detective si preparò per scendere dal mezzo. La banchina della stazione, al contrario di quelle situate in periferia, era ricolma di gente: umanoidi e Tork che aspettavano ognuno il proprio treno diretto negli altri distretti centrali. Un scrosciare di voci si levava nell’aria: c’era, certamente, chi parlava d’affari, ma anche chi parlava di argomenti più frivoli; Verberbar infatti non era unicamente un distretto finanziario, ma anzi possedeva parecchie vie al suo interno rinomate per i negozi lussuosi e per i ristoranti raffinati. Per raggiungere l’uscita della stazione Hapto dovette farsi strada in quella giungla di colori e odori, urtando due o tre passanti; non era certamente in ritardo, e anzi, non aveva fissato alcun appuntamento, ma l’idea di rivedere la sua vecchia compagna Lept stava lentamente risvegliando in lui una passione che gli era concesso di provare unicamente una volta al mese. Era passato infatti circa un mese dall’ultima volta che, in un giorno del tutto analogo a quello, avevano trascorso la sua pausa pranzo assieme; Lept possedeva appunto una piccola boutique d’abbigliamento in una delle vie del centro del distretto di Verberbar e la custodiva gelosamente ormai da una ventina di rivoluzioni. Era un’umanoide piuttosto intraprendente che, grazie al lavoro di rivoluzioni e rivoluzioni, era riuscita ad accumulare una discreta fortuna, che le aveva dunque anche permesso di acquistare il negozio in cui dapprima svolgeva semplicemente il ruolo di commessa. Nessuno avrebbe mai immaginato, non conoscendola approfonditamente, che una signora della sua caratura potesse essere mai stata sposata con un poveraccio come il detective Hapto e che, ancor più sorprendentemente, avesse ancora tanto a cuore la sua sorte da spingerla a incontrarlo mensilmente. Perciò, tutto trastullato dall’idea di rivederla, il detective prese a camminare con grande foga tra i viali alberati e le ariose piazze del distretto, che gli scivolavano da davanti agli occhi come pioggia nel vento; finché, finalmente, non giunse dinnanzi alla vetrina della piccola boutique, posta su uno degli angoli della piazza principale di Verberbar, all’imboccatura con Tegorna Bersek, ovvero “Via dei Mercanti”.

    Era una signora bionda, sulla cinquantina di rivoluzioni, ben tenuta e curata. Era vestita di un lungo abito nero, che riluceva ad ogni suo movimento assieme ad un piccolo diadema d’oro che portava sul capo. Il diadema, che, avvolto nelle sue lunghe trecce, pareva essere stato forgiato e cesellato direttamente tra i suoi capelli, era un ornamento tipico delle umanoidi di Darouk che simboleggiava una certa agiatezza economica e sociale, e per tale ragione dunque esso era tradizionalmente regalato dall’aspirante marito durante la proposta di nozze. Scorgendolo dalla vetrina, Hapto lo riconobbe subito; ella infatti lo indossava sempre, nonostante avesse potuto acquistarne da sé uno di una caratura maggiore. Lept era tutta indaffarata a soddisfare le richieste di una vecchia umanoide, la quale pareva piuttosto insoddisfatta dell’intero mucchio di capi che la proprietaria le aveva mostrato con pazienza. Il detective pensò che quella vecchiaccia dovesse essere proprio una botte di myrir se la sua donna si lasciava comandare con tanta facilità; Hapto infatti, durante tutte quelle rivoluzioni trascorse dopo la loro separazione, non smise mai di pensare a Lept come alla “sua donna”, nonostante sapesse, in cuor suo, che lui invece venisse pensato da lei come un poveraccio, piuttosto che come il “suo uomo”. Un sorriso nacque spontaneamente sul volto del detective, che si accorse solo allora di essersi pian piano avvicinato alla vetrina del negozio sino ad appoggiarcisi sopra con l’avambraccio destro. Di questo fatto si accorsero entrambe le donne; la vecchia umanoide emise un piccolo urlo, portandosi poi le mani alla bocca, mentre Lept, dopo averlo guardato con cattiveria, abbassò lo sguardo rassegnata e successivamente cercò di tranquillizzare l’anziana cliente con parole che il detective non era sicuro di voler conoscere. Hapto si scostò dunque dalla vetrina, vedendo l’aria di tempesta che si addensava nel negozio; la signora infatti decise di raccogliere giacca e borsa e, rimproverando la proprietaria per l’accaduto, uscì dalla boutique con una smorfia di indignazione sul volto e così, in tale assetto da guerra, lanciò per qualche istante al detective occhiate fiammeggianti. Hapto si limitò a salutarla con un cenno della mano, mostrando in volto un sorriso di finta cortesia, che si tramutò in un’allegra risata quando la vecchia fu distante qualche decina di metri. Intanto Lept fece capolino dalla porta vetrata della boutique, pareva piuttosto tesa: stava là, sulla soglia del locale, immobile e a braccia conserte; ma Hapto la conosceva fin troppo bene e sapeva che quella donna non era capace di portar rancore.
-Ciao-, disse semplicemente lui; -Quando imparerai ad avvisarmi del tuo arrivo?-, rispose lei.
-Scusami-, rispose il detective, mentendo spudoratamente, ma era certo che lei lo sapesse.
-In ogni caso, ero preparata, ti stavo aspettando-, disse lei, aggiungendo -Anzi, sei in ritardo, speravo fossi finalmente morto-. Ora era toccato a lei mentire: i due si sorrisero a vicenda; poi Lept si rivolse nuovamente a lui, dicendo -Dammi cinque minuti, chiudo la boutique e andiamo-.
-Certo!-, rispose lui lasciando trapelare un sorriso di felicità.

    Avevano percorso la strada fino al ristorante in silenzio, nessuno dei due aveva voglia di iniziare a discutere a pancia vuota. Quando finalmente arrivarono al ristorante e, entrati nel locale, chiesero un tavolo per due, Manfer era alta nel cielo e tutta la metropoli di Darouk, dalla frenesia mattutina, sembrava essere precipitata in un sonno eterno e surreale che aveva immerso tutto e tutti in un silenzio tombale, spezzato raramente solo dal rombo di qualche instancabile navetta. Sedutisi al piccolo tavolino, apersero dunque il menù digitale e scelsero attentamente ognuno il proprio pranzo; mentre Lept decise di tenersi leggera con un’insalata di alghe di lago, Hapto ordinò una sorta di frittura di anfibi d’acqua dolce. Decisero invece di comun accordo di bere soltanto della comune acqua. Le bevande e il cibo arrivarono subito al tavolo; Lept aprì le danze arrotolando una lunga alga bluastra sulla forcina di metallo e portandosela lentamente alla bocca, mentre Hapto, messosi il tovagliolo al collo come un bavaglio, aggredì a mani nude la sua frittura, afferrando un piccolo anfibio dalla forma allungata e mozzandogli la testa con un morso sonoro. Andarono avanti in tal modo per una ventina di minuti; Lept fu la prima a terminare il suo piatto, il detective invece finì qualche minuto dopo e, pulitosi la bocca unta con il tovagliolo, decise di prendere parola.
-Offri tu oggi?-, chiese.
-Come sempre-, rispose lei sottotono.
-Lo sai Lept, offrirei io, ma non ho un myrir in tasca-, disse Hapto tristemente.
-Lo so, lo so, stai tranquillo Vil. Quanto ti serve questo mese?-, disse lei, rabbuiandosi. Ma il detective la rincalzò subito con tono eccitato -Nulla Lept! Nulla! Mi hanno commissionato un lavoro, un lavoro complicato, ma mi pagheranno!-. In quel frangente egli era del tutto convinto di essere sincero con sé stesso e con la sua donna e probabilmente ciò era vero, nell’eccitazione doveva aver rimosso che non avrebbe visto neanche un myrir da quel lavoretto.
-Bene-, rispose la donna, con aria disinteressata. Ma Hapto, come ritornato alla realtà, riprese imbarazzato -Ecco! Però non ho i soldi per tornare in periferia, quindi sì! Mi servirebbe appena un centinaio di myrir-.
Lept domandò seccata -Ma il biglietto del super treno per la periferia non ne costa una decina?-. Non le piaceva parlare di quelle stupide questioni subito dopo aver terminato di pranzare e Hapto lo sapeva bene; quell’imbarazzante situazione le ricordava il vero scopo, del tutto deplorevole, della visita dell’umanoide. Ma sapeva di provare ancora dei sentimenti verso il vecchio compagno, anche se non riconosceva se questi fossero intrisi di tenerezza o di biasimevole pietà.
-Lo sai. Non farmi rispondere- disse Hapto, sorridendo alla vecchia compagna per cercare di sorvolare sull’argomento. “Non cambierà mai” pensò Lept.
Poi egli riprese -Ti vedo in forma comunque! Cosa fai per essere così tonica? Vai in palestra?-.
-Tre volte a settimana- rispose lei, cercando di non far trapelare dalle sue parole la contentezza per quell’osservazione; perciò riprese subito -Dovresti iniziare anche tu sai? Alla signora Parwer… Sai, la cliente che hai fatto spaventare? Ecco, alla signora Parwer ho detto che sei mio pade-. Nemmeno ebbe finito di pronunciare quella frase che ella scoppiò a ridere fragorosamente e il locale si colmò di quelle risa profonde. Sapevano entrambi che aveva detto una cosa impensabile: Hapto non avrebbe mai messo piede in una palestra.
-Sei sempre molto dolce- disse lui, per nulla offeso. Dopo tutto quello che quella umanoide aveva fatto per lui in quelle rivoluzioni, mai si sarebbe permesso di offendersi per una questione di tal sorta.
-Non ti sarai mica offeso?-, rispose lei una volta che si fu ricomposta. Ma il detective colse l’occasione d’oro e rispose -Sai come farti perdonare. Che ne dici di offrirmi un buon bicchiere di pito?-.
L’umanoide accettò e così continuarono a parlare di frivolezze, esaurendo il tempo della pausa pranzo di Lept. Dunque, dopo che la donna ebbe pagato, s’alzarono e si avviarono verso l’uscita del locale. Le loro strade si sarebbero separate da un momento all’altro e non si sarebbero più incrociate per un lungo mese. Lept avrebbe fatto ritorno alla boutique su Tegorna Bersek e Hapto allo studiolo nel distretto di Derfer. Si salutarono dunque con un abbraccio e si promisero di rivedersi il mese seguente; Hapto aspettò che Lept fosse lontana, poi, avendo distolto lo sguardo dalla sua figura, si voltò e iniziò a camminare tristemente verso la stazione di Verberbar.

    Il supertreno sfrecciava attraverso i grattacieli del distretto di Verberbar alla volta della periferia e il detective, nuovamente in solitudine, si era abbandonato su uno dei bianchi sedili del vagone vuoto. Egli aveva appoggiato la testa a uno dei grandi finestrini e lasciava che la sua vista, spaziando stancamente tra gli edifici, non interrompesse i suoi pensieri, soffermandosi su un particolare oggetto. Egli rifletteva sul suo rapporto con Lept, cercando di convincersi che nessuno dei sentimenti che nutriva verso di lei venti rivoluzioni prima fosse rimasto vivo nel suo animo, se non un brandello sciupato di tenerezza. D’altronde, pensava, era stata lei ad averlo abbandonato, non riuscendo ad accettare la sua decisione; egli non poteva certo averla perdonata per ciò che aveva fatto, dal momento che nemmeno lei era riuscita a perdonarsi. Doveva essere proprio per tale ragione, infatti, che ella continuava ad aiutarlo economicamente nonostante tutto il tempo trascorso; sapeva di essere stata egoista e voleva in qualche modo rimediare al torto fatto. Egli dunque non poteva sicuramente provare dei buoni sentimenti verso di lei, o, almeno, questo era ciò che Hapto voleva convincersi di credere. Ma proprio durante uno di questi pensieri un boato assordante tagliò l’aria circostante e un crepitio stridente squarciò cielo e terra; il detective fu preso alla sprovvista, il pavimento sotto ai suoi piedi iniziò a tremare violentemente, tutto il supertreno pareva essere in preda a violente convulsioni. La sua corsa fu perciò bruscamente frenata e il violento scossone che ne derivò catapultò Hapto sul pavimento. Dopo pochi istanti, trovata la forza di rimettersi in piedi, egli assistette attraverso il finestrino crepato del vagone a uno spettacolo raccapricciante: una palla di fuoco si innalzava dal centro del distretto di Verberbar e del fumo nero e denso come la notte pareva colare da essa. Nonostante il dolore al setto nasale sanguinante e il sangue che a fiotti gli scorreva lungo il viso, l’unico pensiero che riuscì a concepire Hapto in quel momento, l’unico grido che gli fuoriusciva dall’anima come un vulcano in eruzione fu “Lept!”.

  
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