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Autore: babbiona    01/01/2016    2 recensioni
Brittany Susan Pierce aveva fatto brillare l’oscurità della mia anima nelle altezze più supreme del cielo, facendomi ardere come una dannatissima supernova al sapore di caramelle mou, di crema di latte e di “saudade”.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un po’ di “saudade” è venuta a tutti (o quasi) in questo periodo.

 

            Ci scommetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Felice 2016 a tuuuutti quanti!

 

 

 

 

 

:*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saudade

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[The love that remains, the love that stays after someone is gone].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Santana’s POV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non ero mai stata una persona troppo romantica o sdolcinata – forse proprio per niente.

 

 

            Non avevo versato nemmeno una singola, minchiosa lacrima quando quel pazzo di Jack Dawson era schiattato brutalmente nelle acque ghiacciate dell’Artico, sotto lo sguardo incredulo di una Rose forse un po’ troppo egoista – diciamoci la verità: quel pezzo di legno galleggiante avrebbe retto entrambi, e non solo lei.

 

 

                        Non avevo mai fantasticato esageratamente di sposarmi o di provare un abito nunziale color neve con strascico e pendagli al seguito; ci avevo pensato più per “sfizio”, che per desiderio concreto – un marito strafottuto ed imbottito di soldi a chi non avrebbe fatto comodo?

 

                                   Non avevo mai pensato nemmeno lontanamente – proprio manco per errore – all’eventualità di diventare madre: non faceva per me. Probabilmente, io ero capace di fare solo la figlia, e non sarei mai stata in grado di rivestire il ruolo di genitore. Diciamocelo: non ero quello che si dice “il ritratto della responsabilità”, quanto, piuttosto, quello della promiscuità – e mi fermo qui perché è meglio. E poi, beh, una volta rivelato a me stessa ed al resto del mondo il mio orientamento sessuale divenne abbastanza facile – praticamente fulmineo – mettermi il “cuore in pace” riguardo questo genere di problematiche femminili.

 

 

           

 

Ero decisamente la persona più a-romantica di tutto il mondo.

 

 

 

 

Non era nella mia natura, forse, esserlo.

 

 

 

O, beh, semplicemente, non avevo mai incontrato nessuno per cui valesse la pena diventarlo.

           

 

 

Nessuno con cui avesse avuto senso sognare un futuro condiviso e luccicante di gioia.

                       

 

Nessuno con cui avessi potuto essere talmente me stessa da potermi spaparanzare – nuda di sentimenti, con l’anima pulsante stretta in mano – sul divano, con la faccia sfatta dal trucco decisamente sbavato, esausta dopo un’interminabile giornata di lavoro, con una coperta di pile addosso, infagottata nel mio più orrendo pigiama – strappato, liso dal tempo e bucherellato qua e la, con un coniglio infantilissimo ricamato sul davanti ed una tartarughina sorridente disegnata sul didietro – ad abbuffarmi, stretta in un caldo abbraccio, di tavolette di cioccolata e pop-corn ultra salati.

 

 

 

                                   Nessuno con cui avessi potuto lamentarmi di quanto il mondo facesse schifo, di quanto la mattina non avessi voglia di levarmi dal letto, di quanto mia madre scassasse i coglioni, di quanto mi sentissi grassa come un porco dopo essermi abbuffata di gelato e Nutella durante uno dei sette giorni in cui venivo impossessata dal Diavolo in persona – dicevano che se avessi trovato “il Santo/la Santa” che mi avesse sopportato quando ero in periodo “mestruo”, in cui mi trasformavo in un mostr(u)o”, allora quella, proprio quella sarebbe stata la persona adatta a me.

 

 

 

 

 

            Beh.

 

 

 

 

Cazzate di cui non mi preoccupavo affatto.

            E mai mi sarei preoccupata.

 

 

 

 

 

 

 

                                   [Così credevo].

 

 

 

 

 

 

 

 

Poi, poi, un giorno d’estate conobbi Brittany Susan Pierce ed i suoi meravigliosi occhioni blu, ed un embolo di caramello fuso e miele mi scoppiò violentemente in testa.

 

 

 

 

 

 

                        Divenni cretina.

            Cretina veramente.

 

 

 

 

 

Cominciai a vomitare farfalle ogni tre per due, e a sternutire unicorni e pulcini ogni qualvolta Brittany apriva la bocca.

 

 

 

 

 

 

                        E la forma delle mie pupille assunse la perenne sembianza di un paio di orrendi (ma… dolcissimi) cuoricini color rosso rubino – senza contare che, a detta di Brittany stessa, possedevo sul fondo degli occhi una leggera spruzzata di “polvere fatata di stelle filanti ed arcobaleni”.

 

 

 

 

            Cioè.

 

 

 

 

                                   Roba da pazzi.

 

 

 

 

 

                                               Da pazzi scatenati e, soprattutto, innamorati.

 

 

 

 

 

 

            Riusciva a rendermi cretinamente dolce, quella ragazza.

 

           

 

 

 

            E poi, quando mi teneva per mano, mi sentivo leggera e libera – forse lo ero veramente per la prima volta; libera di essere me stessa, stronza e psicopatica, ma anche dolce e delicata al contempo (sì, avevo scoperto di essere in grado anche io di comportarmi da “ragazza premurosa”) – proprio come una mongolfiera.

 

           

 

 

                        Ero piena.

            Scoppiettante e lucida di felicità assassina.

Farcita di aria nuova, di pensieri così dannatamente stupendi e colorati che, quando mi fissavo allo specchio, stentavo a riconoscermi, talmente ero rimasta fulminata da lei, dalla sua dolcezza e dalla sua disarmante semplicità benigna.

 

 

 

 

 

            E volavo, volavo per davvero con Brittany.

 

 

 

 

 

 

Verso l’alto.

 

 

 

 

 

            Sempre più in alto.

 

 

 

 

 

            Quella ragazza aveva fatto centro in me.

 

 

 

 

 

Era riuscita dove tutti gli altri avevano fallito.

 

 

                       

 

 

                                   Aveva divelto le molteplici difese che avevo posto innanzi al mio cuore, permettendo a me stessa di concedermi la tranquillità che da sempre m’ero negata, per un motivo o l’altro, aiutandomi ad affrontare alcuni tra i mostri più ombrosi del mio difficile passato.

 

 

 

 

Brittany Susan Pierce aveva fatto brillare l’oscurità della mia anima nelle altezze più supreme del cielo, facendomi ardere come una dannatissima supernova al sapore di caramelle mou, di crema di latte e di “saudade”.

 

 

 

           

           

           

                            Saudade.

 

 

 

 

 

 

Sì, non c’entra un cazzo, lo so.

 

 

 

 

 

            Eppure, quando mi scontrai con Brittany Susan Pierce, mi scontrai anche con quella particolare “essenza” linguistica, dal sapore dolce-amaro, croccante e frizzantino come il profumo di calore e pelle che respiravo di nascosto tra i suoi capelli.

 

 

 

 

 

 

I portoghesi e i brasiliani sanno quanto quella “sensazione”, quel “modo di essere” sia incredibilmente indescrivibile con qualsiasi altro termine o modo.

 

 

 

 

 

Non che Brittany fosse lusitana – ma garantisco che sapeva essere veramente “quente”, “atraente”, e, oh sì, anche “caliente” quando ci si metteva… –, e né avesse una spiccata abilità per le lingue – solo per la mia, a dir la verità, era davvero preparata.

 

           

 

 

           

            Incontrai “saudade” per la prima volta una mattina di parecchi anni fa.

Brittany era chinata tutta indaffarata e pimpante – solo lei potrebbe mai esserlo alle sette di mattina – sui fornelli, intenta a prepararmi i miei dolcetti preferiti: palline di soffice pan di spagna lievitate e ripiene di enormi goccioloni di cioccolata fondente.

            Non stava facendo nulla di particolare, nulla di eccelso, nulla di esageratamente sdolcinato – nonostante per me, la colazione rimaneva uno dei momenti da condividere con lei più romantici in assoluto.

 

 

 

 

 

Eppure mi incantai a fissarla, incapace di proferir parola.

 

 

 

 

 

                        Non ne so spiegare il motivo, sinceramente – tuttavia ammetto che ogni qualvolta in cui Brittany si preoccupava per me, si occupava di me, mi cullava coi suoi gesti, le sue gentili parole, le sue braccia forti ed al contempo delicate, mi era assai facile sciogliermi in brodo di giuggiole; sta di fatto che rimasi appoggiata allo stipite della porta, come una perfetta deficiente, in piedi, con gli occhi stracolmi di lei.

 

 

 

 

 

 

Ricordo ogni singolo particolare di quegli istanti.

 

 

 

 

 

            Ricordo i riflessi luccicanti dei suoi lunghi capelli dorati raccolti in una coda scompisciata, dolcemente sbaciucchiati dalla luce del sole autunnale.

                        Ricordo il suo corpo muoversi a ritmo di una musica che solamente le sue magiche orecchie stavano sentendo in quel momento.

Ricordo che portava una mia camicia, quella rossa e blu, arrotolata alla rinfusa all’altezza dei suoi candidi avambracci color neve – solo a lei avevo mai permesso di indossarla; era la mia preferita, perché era di papà, e sapeva ancora di lui, nei miei ricordi: c’era un leggero sentore di dopobarba al mentolo, uno spruzzo di quel dolce aroma di caramelle gommose e multicolore che mi comprava la domenica ed una tenue soffiata di tabacco, fumato di nascosto dagli occhi della mamma. Era stato l’ultimo indumento che papà aveva tenuto addosso, prima di lasciarmi, debole e privo di vita, in quell’asettico, striminzito lettino d’ospedale.

            Ricordo il suo dolce faccino, accartocciato in una meravigliosa espressione di dolcezza ed amore una volta accortasi della mia presenza.

 

 

 

                        Ricordo che mi parse di scorgere il suo cuore scoppiettarle di felicità fuori dal petto.

 

                                  

 

            Ricordo il maremoto che mi fracassò gli ormoni e quella maledetta sensazione di essere così fottutamente felice ed, al contempo, malinconica (per non so quale ragione).

 

 

 

                        Ricordo quella nostalgia che mi pervase da capo a piedi, lasciandomi priva di parole. Sinceramente, non riuscii a capire cosa mi stesse capitando; eppure giunsi alla conclusione che mi stavo sentendo esattamente in quel modo proprio perché avevo desiderato così tanto, seppur nei miei sogni più segreti, reconditi ed inconsci, un momento del genere, con la persona amata, e che in quell’esatto istante non mi pareva vero che stesse accadendo sul serio.

 

 

 

 

            E Brittany sapeva di “saudade” allo stato puro.

                        Saudade come dolcezza, felicità, delicatezza, lussuria, semplicità, gioia di vivere, infantilità, ingenuità, colore, sfrenatezza, golosità…

 

 

 

            Sapeva di “saudade”, perché saudade rappresentava la complessità del suo essere.

                        Saudade era quella particolare personalità appartenente a Brittany soltanto e che, semmai non l’avessi mai incontrata, avrei potuto solamente e nostalgicamente sognarla per tutto il resto della mia vita.

 

 

 

 

 

 

            Fortunatamente, il Destino aveva continuato a giocare con clemenza nei miei riguardi, e quella meravigliosa testolina (a)dorata non aveva mai smesso di sorridermi con lo stesso calore e la stessa trepidazione di quel lontano giorno di giugno.

 

 

 

 

 

 

Ed eccola, eccola ancora lì, dopo ben dieci anni da quel nostro primo incontro, baciata in viso dal sole allo stesso identico modo; è mollemente appollaiata sulla sedia sdraio della veranda di casa nostra, con le gambe distese e coperte da un sottile panno di pile.

 

 

 

 

 

 

                        Un battito più forte degli altri mi sta sfondando la gola.

           

 

 

           

                                   Mi sento così emozionata.

                        Come tutte le volte che rientro a casa e la vedo, d’altronde.

 

 

 

 

 

                                               Ora un altro battito, forse addirittura più forte di quello di prima.

 

 

 

 

 

            Mi smuove i dotti lacrimali e percepisco una strana voglia di cacciarmi a piangere.

 

 

 

 

                        È colpa della magia di Brittany, lo so.

                                   Mi succede ogni giorno, ormai.

Ogni giorno quando parto al mattino e la lascio a casa da sola.

Mi sento come morire quando la porta si chiude alle mie spalle.

           

Mmmh, trascorrere otto ore lontana da lei mi mette di cattivo umore; infatti, al lavoro penso di essere più schizzata di quanto lo ero al Liceo. Sono eccessivamente tragica, giusto?

 

 

 

 

 

                                               È che non vorrei mai più starle lontana.

                                   Nel modo più assoluto.

 

           

 

 

            Tum tum.

 

 

 

 

 

 

                        Ancora quel battito, ancora quel sapore.

           

 

 

 

 

 

                                   Nostalgia.

                        Gioia.

                                   Malinconia.

                        Felicità.

 

 

 

 

 

                                                           Tum tum tum tum.

 

 

           

 

 

            Questi maledetti ormoni mi uccideranno per davvero, un giorno.

 

 

 

 

                       

 

                        Brittany sorride nel modo più delicatamente dolce che io abbia mai visto.

                                   Siamo davvero sicuri sia una creatura umana e non fatata come comincio effettivamente a pensare?

 

 

                                  

 

 

 

                                               Si è accorta di me.

 

 

 

 

 

 

            Tum tum.

 

 

 

 

 

                        Ancora, una forte palpitazione mi sconfinfera da capo a piedi.

 

 

 

 

 

                                   Io lo so; è un battito di saudade”, questo.

 

 

 

 

 

            Oh sì, ancora lei.

                        È lei da una vita.

 

 

 

 

 

                        E la stessa preziosa “saudade” che ha assistito me e Brittany come una protettrice silenziosa dall’alto dei cieli, proprio quando eravamo collassate di lacrime, dopo tutto quel dolore.

 

 

 

            La stessa cara “saudade che ha valso tutti gli urli di rabbia e le brutte parole che sono volate tra noi quando le cose, purtroppo, sembravano essersi spezzate per sempre.

 

 

 

“Saudade che è rimasta a vegliare su entrambe durante i lunghi mesi che abbiamo passato da separate.

 

 

 

 

 

Saudade significa “tutto”.

                        Saudade “non significa niente”.

 

 

 

 

 

 

                        E’ bugia!”, direbbe Brittany, col faccino contratto in una buffissima smorfia indignata.

 

 

 

 

 

            Eccome se lo è.

 

 

 

 

Saudade è (ed è stata) vita.

            La nostra.

 

 

 

 

Saudade ci ha fatto battere il cuore e non ha mai smesso di farlo.

 

 

 

 

                        Saudade sa di Brittany Susan Pierce ed un grasso gatto rosso seduto al suo fianco, sul tappetino caldo della soglia di casa.

           

 

           

 

 

 

 

            Saudade sa di quel fagottino fragile e delicato che Brittany Susan Pierce nasconde sotto il maglione da cinque mesi, ormai.

 

 

 

 

 

 

            Saudade è un violento sentimento struggente, dal sapore dolce e amaro, del colore della malinconia più pura e delle risate più elettrizzanti e colme di vita.

 

 

 

 

 

Saudade è un fuoco d’artificio acceso e spruzzato a mille dentro una tanica di benzina.

 

 

 

 

 

            Saudade è quel lento trascorrere del tempo che ha fatto leva tra il nostro passato ed il nostro presente.

 

 

 

 

                        Saudade è l’espressione del nostro futuro, solido e forte, e, soprattutto, pieno di speranza.

 

 

 

 

 

 

                        Saudade ci ha viste piangere davvero tante volte, dall’alto del Cielo.

 

 

 

 

 

Saudade ci ha viste farci tanto male, spiandoci dalle nuvolette del Paradiso.

 

 

 

 

 

            Saudade ha capito tante cose di noi, prima di noi.

                        Prima ancora di esistere.

 

 

 

 

 

                                      Saudade.

 

                       

           

 

 

                        Mi sento sciogliere dalla felicità.

 

 

 

 

 

 

Saudade mi sta sorridendo proprio in questo istante attraverso i dolci occhioni grandi e colmi di luce di Brittany Susan Pierce.

 

 

 

 

            «Amore».

 

 

 

 

Saudade mi sta abbracciando assieme a Brittany Susan Pierce, dopo l’ennesima giornata trascorsa lontana da casa.

 

 

 

 

 

 

            Mi scosto appena per guardarle negli occhi; il mondo brilla dentro di loro.

 

 

 

 

 

 

 

«Mi sei mancata, lo sai?».

 

 

 

 

 

Non posso far altro che sbattere gli occhi velocemente, per evitare di sciogliermi in un inutile piagnisteo da donna incinta; in effetti, dovrebbe essere proprio Brittany a lacrimare sentimenti da ogni singolo poro del suo corpo.

 

 

 

            Eppure, quel dolce sorriso al sapore di meringhe glassate, di miele color arcobaleno e di crema pasticcera continua imperterrito a fissarmi, come ormai fa da ben dieci anni a questa parte.

 

 

 

 

           

 

 

            Saudade significa “ti ho amata, ti amo, ti amerò”.

 

 

 

 

 

                        Ti ho amata anche quando l’amore sembrava scomparso del tutto e per sempre.

            Ti ho amata nei sogni, in ogni singolo istante foderato di lacrime e dolore, nel silenzio del trascorrere della mia vita.

Ti ho amata anche quando non sapevo di farlo.

            Ti ho amata senza accorgermene, continuando a sorridere per te di nascosto, quando mi guardavo allo specchio.

                        Ti ho amata ed ho continuato a farlo in ogni momento trascorso lontano dal tuo profumo, perché di te, dentro di me, era rimasto tutto dolce come la prima volta.

                                   Ti ho amata ancora, a lungo, perché quella era l’emozione più forte che avessi mai provato.

 

           

 

 

            Il tuo amore mi ha accompagnata per mano ed ha vegliato su di me per tanto tempo, come la morbida copertina di Linus.

 

 

 

 

                                  

                        Ti ho amata forte, fortissimo quando ci siamo riabbracciate per sempre.

 

 

 

 

 

                                               Ti amo, e nemmeno tu hai mai smesso di farlo.

 

 

 

 

 

 

 

«Anche voi mi siete mancate», pigolo sottovoce, affogando il naso tra i suoi profumatissimi capelli di pesca.

 

 

 

 

 

 

Brittany ridacchia delicata, poggiando le sue labbra sul mio collo, passandomi una mano sulla schiena; mi stringo a loro due, e percepisco la sua panciotta dolce ed irriverente sbucare orgogliosa attraverso la camicia a quadri che tanto le dona.

 

 

 

 

 

            «Ehi, mamma, mica ti metterai a piangere, vero?».

 

 

 

 

 

 

 

 

                                   Dio.

 

 

 

 

Ti amo immensamente, lo sai?”.

 

 

 

 

 

 

 

Una risata isterica mi sfugge di bocca – sì, ormai annego nelle lacrime…. Non sono più la tizia di una volta – e sprofondo ancor più dentro la maglietta bianca di Brittany.

 

 

 

 

 

            «Oggi Saudade mi ha chiesto di te».

 

 

 

                       

 

 

                        Cristo.

 

 

 

 

            Vuoi uccidermi, vero?”.

 

 

 

 

 

Tiro forte col naso, specchiandomi in quel suo sguardo blu elettrico che sa di mare e salsedine e vacanze estive.

 

 

 

 

 

 

                        Non credo potrà mai esistere una mamma più bella di lei.

 

 

 

 

 

Ogni singolo, fottuto tratto del suo viso, del suo essere, della sua anima è stato progettato appositamente per quello.

 

 

 

 

 

 

 

«D-da cosa l’hai capito che chiedeva proprio di me?».

 

 

 

 

 

            Brittany arriccia il naso in una smorfia che sa tanto di pinguino di Babbo Natale, baciandomi le labbra con trasporto.

 

 

 

 

                        I suoi occhi si sono fatti lucidi ed acquosi.

 

 

 

 

 

            Le sue guance sono color mela, e potrei bruciare semmai osassi sfiorarle.

 

 

 

 

 

            «Mi ha accarezzato la pancia con un piedino nello stesso punto e allo stesso, identico, esattissimo modo in cui lo fai tu, tutte le sere, prima di addormentarci».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non so predire il futuro, ma so per certo che Saudade sarà una bambina bellissima, proprio come il nostro amore, ancora così nuovo e frizzante come l’aria di quel lontano, torrido, dolce giorno di giugno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho dato un’interpretazione strana a questo vocabolo, lo ammetto.

Eppure… credo che parole così forti ed indescrivibili come “saudade” siano personalmente adattabili. Questo proprio perché l’animo di tali terminologie (esistono tantissime parole di una bellezza disarmante….) è immenso e malleabile e, soprattutto, privo di confine.

 

 

Mi auguro di non avervi tediato troppo, perché, giuro, dentro la mia testa ciò che ho scritto ha un senso.

 

 

;)

 

 

 

 

 

 

 

(PT)

« Chega de saudade
a realidade é que sem ela
não paz, não beleza
É tristeza e a melancolia
[…]
Mas se ela voltar
se ela voltar, que coisa linda,
que coisa louca
[…] »

(IT)

« Basta nostalgia
la realtà è che senza di lei
non c'è pace, non c'è bellezza
tutto è tristezza e malinconia
[...]
Ma se lei ritornasse
se lei ritornasse, che cosa bella
che cosa folle
[…] »

(Vinicius de MoraesChega de saudade, 1958)

 

 

   
 
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