Un po’ di “saudade” è venuta a tutti (o quasi) in
questo periodo.
Ci scommetto.
Felice 2016 a tuuuutti quanti!
:*
Saudade
[The love that remains, the love that stays after
someone is gone].
Santana’s POV
Non
ero mai stata una persona troppo romantica o sdolcinata – forse proprio per niente.
Non avevo versato nemmeno una
singola, minchiosa
lacrima quando quel pazzo di Jack Dawson era schiattato brutalmente nelle acque ghiacciate dell’Artico, sotto lo
sguardo incredulo di una Rose forse un po’ troppo egoista – diciamoci la verità:
quel pezzo di legno galleggiante
avrebbe retto entrambi, e non solo lei.
Non avevo mai fantasticato esageratamente di sposarmi
o di provare un abito nunziale color neve con strascico e pendagli al seguito;
ci avevo pensato più per “sfizio”, che per desiderio concreto – un marito strafottuto
ed imbottito di soldi a chi non avrebbe fatto comodo?
Non avevo mai pensato nemmeno lontanamente –
proprio manco per errore –
all’eventualità di diventare madre: non
faceva per me. Probabilmente, io ero capace di fare solo la figlia, e non sarei mai stata in grado
di rivestire il ruolo di genitore.
Diciamocelo: non ero quello che si dice “il ritratto della responsabilità”, quanto, piuttosto, quello della promiscuità – e mi fermo qui perché è
meglio. E poi, beh, una volta rivelato a me
stessa ed al resto del mondo il mio orientamento
sessuale divenne abbastanza facile
– praticamente fulmineo – mettermi il “cuore in pace” riguardo questo genere di
problematiche femminili.
Ero decisamente la
persona più a-romantica di tutto il
mondo.
Non era nella mia natura, forse, esserlo.
O,
beh, semplicemente, non avevo mai
incontrato nessuno per cui valesse la
pena diventarlo.
Nessuno
con cui avesse avuto senso sognare un
futuro condiviso e luccicante di
gioia.
Nessuno con cui avessi potuto essere talmente me stessa da potermi
spaparanzare – nuda di sentimenti, con
l’anima pulsante stretta in mano – sul divano, con la faccia sfatta dal trucco decisamente sbavato,
esausta dopo un’interminabile giornata di lavoro, con una coperta di pile addosso, infagottata nel mio più orrendo pigiama – strappato, liso dal
tempo e bucherellato qua e la, con un coniglio infantilissimo
ricamato sul davanti ed una tartarughina sorridente disegnata sul didietro – ad
abbuffarmi, stretta in un caldo abbraccio, di tavolette di cioccolata e pop-corn ultra salati.
Nessuno con
cui avessi potuto lamentarmi di quanto il mondo facesse schifo, di quanto la mattina non avessi voglia di levarmi dal
letto, di quanto mia madre scassasse i coglioni,
di quanto mi sentissi grassa come un porco dopo essermi abbuffata di gelato e
Nutella durante uno dei sette giorni
in cui venivo impossessata dal Diavolo in persona – dicevano che se
avessi trovato “il Santo/la Santa”
che mi avesse sopportato quando ero in periodo “mestruo”, in cui mi trasformavo in un “mostr(u)o”, allora quella, proprio quella
sarebbe stata la persona adatta a me.
Beh.
Cazzate
di cui non mi preoccupavo affatto.
E mai mi sarei preoccupata.
[Così
credevo].
Poi, poi, un giorno d’estate
conobbi Brittany Susan Pierce ed i suoi meravigliosi
occhioni blu, ed un embolo di caramello fuso e miele mi scoppiò violentemente
in testa.
Divenni cretina.
Cretina veramente.
Cominciai
a vomitare farfalle ogni tre per due,
e a sternutire unicorni e pulcini ogni qualvolta Brittany apriva la bocca.
E la forma delle mie pupille assunse la perenne sembianza di un paio di orrendi
(ma… dolcissimi) cuoricini color
rosso rubino – senza contare che, a detta di Brittany
stessa, possedevo sul fondo degli occhi una leggera spruzzata di “polvere fatata di stelle filanti ed
arcobaleni”.
Cioè.
Roba da pazzi.
Da pazzi scatenati e,
soprattutto, innamorati.
Riusciva a rendermi cretinamente
dolce, quella ragazza.
E poi, quando mi teneva per mano, mi sentivo leggera e libera – forse lo ero veramente
per la prima volta; libera di essere me
stessa, stronza e psicopatica, ma
anche dolce e delicata al contempo (sì, avevo scoperto di essere in grado anche io di comportarmi da “ragazza premurosa”) – proprio come una mongolfiera.
Ero piena.
Scoppiettante e lucida di felicità assassina.
Farcita
di aria nuova, di pensieri così dannatamente stupendi e colorati che, quando mi fissavo allo specchio, stentavo a
riconoscermi, talmente ero rimasta fulminata
da lei, dalla sua dolcezza e dalla
sua disarmante semplicità benigna.
E volavo, volavo
per davvero con Brittany.
Verso
l’alto.
Sempre più in alto.
Quella ragazza aveva fatto centro in me.
Era riuscita dove tutti gli altri avevano fallito.
Aveva divelto le molteplici difese
che avevo posto innanzi al mio cuore, permettendo a me stessa di concedermi la tranquillità
che da sempre m’ero negata, per un motivo o l’altro, aiutandomi ad affrontare
alcuni tra i mostri più ombrosi del
mio difficile passato.
Brittany Susan Pierce aveva fatto brillare l’oscurità della
mia anima nelle altezze più supreme del cielo, facendomi ardere come una dannatissima supernova al sapore di
caramelle mou, di crema di latte e di
“saudade”.
Saudade.
Sì, non c’entra un cazzo, lo so.
Eppure, quando mi scontrai con Brittany
Susan Pierce, mi scontrai anche con quella
particolare “essenza” linguistica,
dal sapore dolce-amaro, croccante e frizzantino come il profumo di calore e
pelle che respiravo di nascosto tra i suoi capelli.
I
portoghesi e i brasiliani sanno quanto quella “sensazione”, quel “modo di
essere” sia incredibilmente
indescrivibile con qualsiasi altro termine o modo.
Non che Brittany fosse lusitana – ma garantisco che sapeva
essere veramente “quente”,
“atraente”,
e, oh sì, anche “caliente” quando ci si metteva… –,
e né avesse una spiccata abilità per le lingue
– solo per la mia, a dir la verità,
era davvero preparata.
Incontrai “saudade” per la prima volta una mattina di parecchi anni fa.
Brittany
era chinata tutta indaffarata e pimpante – solo lei potrebbe mai esserlo alle sette
di mattina – sui fornelli, intenta a prepararmi i miei dolcetti preferiti:
palline di soffice pan di spagna lievitate e ripiene di enormi goccioloni di cioccolata fondente.
Non stava facendo nulla di
particolare, nulla di eccelso, nulla di esageratamente sdolcinato – nonostante per me, la
colazione rimaneva uno dei momenti da condividere con lei più romantici in assoluto.
Eppure mi incantai a fissarla, incapace di proferir
parola.
Non ne so spiegare il
motivo, sinceramente – tuttavia ammetto che ogni qualvolta in cui Brittany si preoccupava
per me, si occupava di me, mi cullava
coi suoi gesti, le sue gentili parole, le sue braccia forti ed al contempo delicate,
mi era assai facile sciogliermi in
brodo di giuggiole; sta di fatto che rimasi appoggiata allo stipite della
porta, come una perfetta deficiente, in piedi, con gli occhi stracolmi di lei.
Ricordo
ogni singolo particolare di quegli istanti.
Ricordo i riflessi luccicanti dei
suoi lunghi capelli dorati raccolti in una coda scompisciata, dolcemente sbaciucchiati dalla luce del sole
autunnale.
Ricordo il suo corpo
muoversi a ritmo di una musica che solamente le sue magiche orecchie stavano sentendo in quel momento.
Ricordo che portava una mia camicia, quella rossa e
blu, arrotolata alla rinfusa all’altezza dei suoi candidi avambracci color neve
– solo a lei avevo mai permesso di
indossarla; era la mia preferita,
perché era di papà, e sapeva ancora di lui, nei miei ricordi: c’era un leggero sentore
di dopobarba al mentolo, uno spruzzo di quel dolce aroma di caramelle gommose e multicolore che mi comprava la domenica ed una tenue soffiata di
tabacco, fumato di nascosto dagli occhi della mamma. Era stato l’ultimo
indumento che papà aveva tenuto addosso, prima di lasciarmi, debole e privo di vita, in quell’asettico, striminzito lettino
d’ospedale.
Ricordo
il suo dolce faccino, accartocciato in una meravigliosa espressione di dolcezza
ed amore una volta accortasi della mia presenza.
Ricordo
che mi parse di scorgere il suo cuore
scoppiettarle di felicità fuori dal petto.
Ricordo il maremoto che mi fracassò gli ormoni e quella maledetta sensazione di
essere così fottutamente felice ed,
al contempo, malinconica (per non so
quale ragione).
Ricordo quella nostalgia che mi pervase da capo a
piedi, lasciandomi priva di parole. Sinceramente, non riuscii a capire cosa mi stesse capitando; eppure giunsi
alla conclusione che mi stavo sentendo esattamente
in quel modo proprio perché avevo desiderato così tanto, seppur nei miei sogni più segreti, reconditi ed inconsci, un momento del genere, con la
persona amata, e che in quell’esatto istante non mi pareva vero che stesse accadendo sul serio.
E Brittany sapeva di “saudade” allo stato puro.
Saudade
come dolcezza, felicità, delicatezza,
lussuria, semplicità, gioia di vivere, infantilità, ingenuità, colore,
sfrenatezza, golosità…
Sapeva di “saudade”,
perché saudade rappresentava la complessità del suo essere.
Saudade
era quella particolare personalità appartenente a Brittany
soltanto e che, semmai non l’avessi mai incontrata, avrei potuto solamente e nostalgicamente sognarla per tutto il
resto della mia vita.
Fortunatamente, il Destino
aveva continuato a giocare con clemenza nei miei riguardi, e quella meravigliosa
testolina (a)dorata non aveva mai
smesso di sorridermi con lo stesso calore e la stessa trepidazione di quel
lontano giorno di giugno.
Ed
eccola, eccola ancora lì, dopo ben dieci
anni da quel nostro primo incontro, baciata in viso dal sole allo stesso
identico modo; è mollemente appollaiata sulla sedia sdraio della veranda di
casa nostra, con le gambe distese e
coperte da un sottile panno di pile.
Un battito più forte degli altri mi sta
sfondando la gola.
Mi sento così emozionata.
Come
tutte le volte che rientro a casa e la vedo, d’altronde.
Ora un altro battito,
forse addirittura più forte di quello di prima.
Mi smuove i dotti lacrimali e percepisco una strana voglia di cacciarmi a piangere.
È colpa della magia di Brittany,
lo so.
Mi succede ogni giorno, ormai.
Ogni
giorno quando parto al mattino e la
lascio a casa da sola.
Mi sento come morire quando la porta si chiude alle
mie spalle.
Mmmh,
trascorrere otto ore lontana da lei
mi mette di cattivo umore; infatti, al lavoro penso di essere più schizzata di quanto lo ero al Liceo. Sono eccessivamente tragica, giusto?
È che non vorrei mai più starle lontana.
Nel modo più assoluto.
Tum tum.
Ancora quel battito, ancora quel sapore.
Nostalgia.
Gioia.
Malinconia.
Felicità.
Tum tum tum tum.
Questi maledetti ormoni mi uccideranno per davvero,
un giorno.
Brittany sorride
nel modo più delicatamente dolce che io abbia mai visto.
Siamo davvero sicuri sia una creatura umana e non fatata come comincio effettivamente a
pensare?
Si
è accorta di me.
Tum tum.
Ancora, una forte palpitazione mi sconfinfera da capo a piedi.
Io lo so; è un battito di “saudade”, questo.
Oh sì, ancora lei.
È lei
da una vita.
E la stessa preziosa “saudade” che ha assistito me e Brittany
come una protettrice silenziosa dall’alto dei cieli, proprio quando eravamo
collassate di lacrime, dopo tutto quel dolore.
La stessa cara “saudade” che ha valso tutti gli urli di rabbia e
le brutte parole che sono volate tra noi quando le cose, purtroppo, sembravano
essersi spezzate per sempre.
“Saudade” che è
rimasta a vegliare su entrambe durante i lunghi mesi che abbiamo passato da
separate.
Saudade significa
“tutto”.
Saudade “non significa niente”.
“E’
bugia!”, direbbe Brittany, col faccino contratto
in una buffissima smorfia indignata.
Eccome se lo è.
Saudade è
(ed è stata) vita.
La nostra.
Saudade ci
ha fatto battere il cuore e non ha mai smesso di farlo.
Saudade sa di Brittany
Susan Pierce ed un grasso gatto rosso seduto al suo fianco, sul tappetino caldo
della soglia di casa.
Saudade sa di
quel fagottino fragile e delicato che Brittany
Susan Pierce nasconde sotto il maglione da cinque
mesi, ormai.
Saudade è un
violento sentimento struggente, dal sapore dolce e amaro, del colore della
malinconia più pura e delle risate più elettrizzanti e colme di vita.
Saudade è un fuoco d’artificio acceso e spruzzato a mille
dentro una tanica di benzina.
Saudade è quel
lento trascorrere del tempo che ha fatto leva tra il nostro passato ed il
nostro presente.
Saudade
è l’espressione del nostro futuro, solido e forte, e, soprattutto, pieno di
speranza.
Saudade ci ha viste piangere davvero
tante volte, dall’alto del Cielo.
Saudade ci ha
viste farci tanto male, spiandoci
dalle nuvolette del Paradiso.
Saudade ha capito tante cose di noi, prima di noi.
Prima
ancora di esistere.
Saudade.
Mi
sento sciogliere dalla felicità.
Saudade mi sta
sorridendo proprio in questo istante attraverso i dolci occhioni grandi e colmi
di luce di Brittany Susan Pierce.
«Amore».
Saudade mi sta
abbracciando assieme a Brittany Susan Pierce, dopo l’ennesima
giornata trascorsa lontana da casa.
Mi
scosto appena per guardarle negli
occhi; il mondo brilla dentro di loro.
«Mi sei mancata,
lo sai?».
Non posso
far altro che sbattere gli occhi velocemente, per evitare di sciogliermi in un
inutile piagnisteo da donna incinta;
in effetti, dovrebbe essere proprio Brittany a lacrimare
sentimenti da ogni singolo poro del suo corpo.
Eppure, quel dolce sorriso al sapore di meringhe
glassate, di miele color arcobaleno e di crema pasticcera continua imperterrito
a fissarmi, come ormai fa da ben dieci anni a questa parte.
Saudade significa “ti ho amata, ti amo, ti amerò”.
Ti
ho amata anche quando l’amore sembrava scomparso del tutto e per sempre.
Ti ho
amata nei sogni, in ogni singolo istante foderato di lacrime e dolore, nel
silenzio del trascorrere della mia vita.
Ti ho amata anche quando non sapevo di farlo.
Ti ho
amata senza accorgermene, continuando a sorridere per te di nascosto, quando mi
guardavo allo specchio.
Ti
ho amata ed ho continuato a farlo in ogni momento trascorso lontano dal tuo
profumo, perché di te, dentro di me, era rimasto tutto dolce come la prima
volta.
Ti
ho amata ancora, a lungo, perché quella era l’emozione più forte che avessi mai
provato.
Il
tuo amore mi ha accompagnata per mano ed ha vegliato su di me per tanto tempo, come
la morbida copertina di Linus.
Ti
ho amata forte, fortissimo quando ci
siamo riabbracciate per sempre.
Ti
amo, e nemmeno tu hai mai smesso di farlo.
«Anche voi
mi siete mancate», pigolo sottovoce, affogando il naso tra i suoi
profumatissimi capelli di pesca.
Brittany ridacchia delicata,
poggiando le sue labbra sul mio collo, passandomi una mano sulla schiena; mi
stringo a loro due, e percepisco la
sua panciotta dolce ed irriverente sbucare orgogliosa
attraverso la camicia a quadri che tanto le dona.
«Ehi, mamma, mica ti metterai a piangere,
vero?».
Dio.
“Ti amo immensamente, lo sai?”.
Una risata isterica mi
sfugge di bocca – sì, ormai annego nelle lacrime…. Non sono più la tizia di una volta – e sprofondo ancor più dentro
la maglietta bianca di Brittany.
«Oggi Saudade mi ha chiesto di te».
Cristo.
“Vuoi uccidermi, vero?”.
Tiro forte col naso, specchiandomi in quel suo sguardo
blu elettrico che sa di mare e salsedine e vacanze estive.
Non
credo potrà mai esistere una mamma più bella di lei.
Ogni singolo, fottuto tratto del suo viso,
del suo essere, della sua anima è stato progettato appositamente per quello.
«D-da cosa l’hai capito che chiedeva proprio di me?».
Brittany arriccia il naso in una smorfia che sa tanto di pinguino di Babbo Natale, baciandomi le
labbra con trasporto.
I
suoi occhi si sono fatti lucidi ed acquosi.
Le
sue guance sono color mela, e potrei bruciare semmai osassi sfiorarle.
«Mi ha accarezzato la pancia con un piedino nello stesso punto e allo stesso, identico, esattissimo modo in cui lo fai tu, tutte le sere, prima di addormentarci».
Non so predire il
futuro, ma so per certo che Saudade sarà
una bambina bellissima, proprio come il nostro amore, ancora così nuovo e
frizzante come l’aria di quel lontano, torrido, dolce giorno di giugno.
Ho dato un’interpretazione strana
a questo vocabolo, lo ammetto.
Eppure… credo che parole così
forti ed indescrivibili come “saudade” siano personalmente adattabili. Questo proprio perché l’animo di tali terminologie (esistono
tantissime parole di una bellezza disarmante….) è immenso e malleabile e, soprattutto, privo di confine.
Mi auguro di non avervi tediato
troppo, perché, giuro, dentro la mia testa ciò che ho scritto ha un senso.
;)
(PT) « Chega de saudade |
(IT) « Basta nostalgia |
(Vinicius de Moraes, Chega
de saudade, 1958) |