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Autore: Leccalecca    03/01/2016    3 recensioni
Una notte che, per entrambe, ha significato un cambiamento.
Beatrice e Federica.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lei era una di quelle ragazze con la mentalità da rockstar.
Quella che aveva amici in tutta la scuola che venivano a prenderla all'intervallo, che aveva spirito critico e le battute giuste sempre in bocca.
Lei si imbucava in ogni video fatto con il cellulare per fare una faccia buffa, e in ogni foto aveva la bocca spalancata in una risata roca.
Quella che tutti criticavano e di cui tutti cercavano l'approvazione.
Lei prendeva posizione, aveva opinioni, credeva nelle cose. Era così vera.
Era una mia compagna di classe, e la vedevo sempre entrare nell'aula, con una mano sul leggero foulard nero e rosso e verde, i polsi che tintinnavano, fasciati da bracciali e ciondoli che se glielo chiedevo, poteva dirmi chi, dove e quando gliel'aveva regalato, e perché era importante per lei indossarlo.
Si scostava un ciuffo di capelli neri dalla fronte, e se era dell'umore, poteva benissimo mettere in crisi l'insegnante con una domanda di una polemicità squisita (che faceva sorridere soprattutto me). O con una domanda cretina (che faceva sorridere soprattutto gli altri).
Rassicurava tutti con un atteggiamento noncurante, faceva crollare ogni preoccupazione con semplicità, in modo naturale. Le smentiva sistematicamente.
Fancazzista assoluta, ma se la cavava in ogni situazione. (Non riuscivo a mandarla a quel paese nemmeno quando aveva quei momenti di fortuna sfacciata. Riuscivo solo a stare dalla sua parte, a essere contenta per lei).
E tutte le canzoni migliori le imparavi quando le note le sentivi arrivare dalle sue cuffie mentre varcava la soglia della classe.
Era la ragazza che ti faceva l'occhiolino quando si avvicinava alla cattedra per le interrogazioni e ti sventolava un dito medio nel cielo in segno di saluto se la incrociavi per strada. La ragazza che, come un temporale estivo, si incazzava velocemente, spesso e volentieri, e se la faceva passare altrettanto in fretta, in tempo per riderci sopra. E non si lasciava abbattere. Mai. Da nulla.

Ebbene, fu lei, proprio lei, che trovai mentre tornando a casa, decisi di passare dal ponte di Via Cinquefoglie.

Bazzicavo spesso il posto da bambina, ma sapevo che la zona si era svuotata con la costruzione del piccolo cinema e del Parco del Verde. Passavo da lì appunto per evitare la confusione terribile che si scatenava nel fulcro del mio paesino a quell'ora di notte.
Non mi preoccupavo di possibili malintenzionati, era un posto fin troppo...familiare, come se lo stesso luogo potesse percepire una presenza estranea e scacciarla volontariamente. E sì, sono consapevole, solo ora, di quanto questo ragionamento sia stato incosciente.
Ero assolutamente confusa, e un nugolo di emozioni mi invase la mente e il petto, vorticando furiosamente.

La trovai seduta sul bordo del ponte, che due anni fa era ancora senza ringhiere, con le gambe penzoloni e senza scarpe, i suoi fidati stivaletti rosso fuoco (Dr. Martens, ovviamente. A lei la moda piaceva).

Le aveva tolte, e aveva anche sfilato i braccialetti dai polsi, ed era tutto sistemato in modo preciso intorno a lei, accanto al foulard, anch'esso arrotolato con cura. Mi ricordo che fu proprio quello che fece scattare la paura, che guizzò tra le altre sensazioni come un pesce brillante fuori dal suo banco: la meticolosità con cui aveva disposto tutto attorno a sé. In un ordine inquietante, che mi spiazzò.

L'unico lampione che c'era su quella strada aveva la luce gialla e cruda ma crepitante di un neon rotto. Tremolando le illuminava la faccia, e distinsi nitidamente lo scintillio di lacrime che le scorrevano lungo le guance.
Non so perché, ma pur essendo totalmente atterrita da quello che vedevo, non riuscivo a spiegarmi perché non fossi, in fondo, sorpresa di vederla in quello stato critico.

Comunque, ero terrorizzata da cosa sarebbe successo se avessi esternato il mio nervosismo e la mia paura, da cosa lei avrebbe potuto fare, come avrebbe reagito. Fui cauta, e guidata da una più che macabra inquietudine.
La salutai con la maggior naturalezza possibile, come se fossimo alla fermata dell'autobus alla fine di una giornata scolastica di Giugno, e non come se fossero le due e quattro minuti di una notte di Novembre.
Rispose al saluto senza girarsi, chiamandomi per nome, e mi chiamò come lo facevano tutti, con un diminutivo e questa volta con un sorriso molto più che incerto sulle labbra. Fissava il vuoto davanti a sé.
Glissai su un “tutto bene?”, la risposta sarebbe stata ovvia.

Le chiesi dei braccialetti, ma intanto pensavo solamente a cosa cazzo avesse intenzione di fare, lì. E probabilmente sapevo la risposta.

Riuscimmo a portare avanti più o meno tre minuti di conversazione surreale, prima che le sue spalle iniziassero a sussultare per dei cacofonici singhiozzi sconnessi.

Mi sentii congelare.

Non tentai di fermarla, perché sembrava avere un bisogno così palpabile di sfogarsi, di svuotarsi. La lasciai piangere. E per un po' gli unici suoni che riempivano quel luogo furono il suo pianto e lo scorrere tumultuoso delle acque fangose e profonde del Maglio, il fiume. In quel momento sembrava impossibile che a poche centinaia di metri ci fossero delle case e delle persone, che a giudicare dall'orario dovevano stare dormendo o festeggiando in centro, senza avere una minima idea del chi fosse qui, sul ponte. Impossibile.
Eravamo nel mezzo della foresta Amazzonica, sulle rive di un laghetto di acqua limpida incastonato, nascosto tra le Alpi, o in un'oasi dispersa nel deserto. Chilometri e chilometri via di lì.

Era così surreale.

Io avevo ingoiato un po' dell'ansia che mi era cresciuta dentro e l'avevo stipata nella mia gola come un doloroso groppo, e mi ero seduta accanto a lei.

Mi chiamò di nuovo per nome, questa volta senza il normale diminutivo.

Poi crollò veramente.
Iniziò a parlare con voce rotta, mormorando, abbandonando le braccia mollemente in mezzo alle gambe.

 

- Il mondo fa così...schifo cazzo -


- Le persone sono tutte false -


- Dio...che schifo-

- Non ha un senso. Questa vita, non ha un senso... E' solo una merda! -


- Dio...-

Avevo l'impressione che ogni sua parola fosse un colpo di fucile nella notte. Risuonavano come spari.

Ma cosa dici, cosa dici a una persona che così, all'improvviso, ha smesso di credere?

Che dici a qualcuno che ha finalmente scoperto quella verità amara, quel nulla che invece altri hanno sempre dato così per scontato, che era così normale?

In lei vedevo tutte quelle illusioni, date per certezze, rivelarsi tutte in una volta per quello che erano per davvero.

Lei era stata sempre una roccaforte per me, la ragazzina depressa, autolesionista, apatica.
Guardandola, pensavo sempre, avevo la certezza, di essere io quella sbagliata. E mi dava una sensazione di quasi sicurezza, perché pensavo esistesse un'alternativa sana a quello che vivevo. Che forse potevo raggiungere.
Magari quello in cui credeva era vero sul serio, e io avrei dovuto piantarla di essere così vuota.

Ma ora, mi rendevo conto, guardandola entrare nel mio mondo fatto di niente, che la verità era sempre stata lì, per gente come me. Nei nostri occhi.
E cosa dovevo dirle?

Di abituarcisi, perché non sarebbe mai tornata indietro?

Che mi dispiaceva?

O forse solo di allontanarsi da quel fottuto parapetto?

Avevo la bocca impastata, eppure sentivo che se l'avessi aperta, avrei formulato un discorso di gran lunga più sconnesso e disperato del suo, e lei non ne aveva bisogno. Non aveva bisogno di sentire anche la mia sottile speranza crollare.

Volevo chiederle cosa l'avesse spinta ad arrivare a quella conclusione, ma ero sicura che non fossero, assolutamente, fatti miei.
Ma Dio, sembrava così sbagliato stare zitta, e allo stesso tempo parlare.

Volevo portarla da qualcuno che la conosceva meglio, da qualche sua amica o amico, perché sapevo che probabilmente, ciò di cui aveva veramente bisogno, era il conforto di una persona importante per lei.

Glielo chiesi. “Ti chiamo Emma?”
Emma era la sua migliore amica, dai capelli biondi e grandi occhiali quadrati. Camminavano sempre a braccetto e da quando la conoscevo, non era mai passato un giorno senza che si parlassero in qualche modo. Perché lei poteva andare d'accordo con tutti noi suoi compagni di classe, ma a Emma apriva davvero il suo cuore. Si vedeva da come la guardava, dal timbro di voce che usava.
Lei però scosse la testa, e disse di no.

Si era svuotata. I suoi occhi neri erano stanchi. Avrei voluto mi mandasse a cagare, che si incazzasse con me, pur di non arrivare a quel momento, ma...la vedevo e avevo l'orribile sensazione che fossimo giunte a una specie di capolinea. E un controllore faceva pressione perché scendessimo alla nostra fermata.
Mi posi come obiettivo solo quello di farla spostare da lì. A quel punto avevo troppa paura. Non doveva succederle nulla. Aveva già passato troppo.

Mi concentrai.

Lei doveva andarsene da quel fottuto ponte. Lei doveva andarsene da quel fottuto ponte.

Deglutii.

Con lo sforzo di volontà maggiore che io tuttora ricordi, le parlai senza tremore nella voce. Anzi, la frase uscì quasi allegra, non stonata, morbida. Era di nuovo un pomeriggio di Giugno, la scuola era appena finita ed uscivamo ora dai cancelli. L'aria era leggera e fresca, il sole scottava e risaltava nel cielo azzurro vivo e terso. Eravamo in maniche corte con le cartelle che pendevano distrattamente da una sola spalla, la cinghia più lunga che strisciava sull'asfalto. Stanche ma speranzose, euforiche, eccitate dal sapere che da lì a pochi giorni, saremmo state libere di andare al mare, di bere sotto il cielo stellato, di dormire fino a quando il sole non sarebbe venuto a prenderci a calci nel culo pur di farci alzare dal letto.
Richiamai a me quelle sensazioni così lontane e provai a infondergliele.

 

- Vieni, ti offro un caffè -

Da come l'avevo detto, e di questo sono ancora sconvolta, riuscii a farla sembrare la cosa più ragionevole da fare.
Tremavo come se le mie ossa si stessero sgretolando, ma mi alzai. Cercai di non far passare la situazione come grave.

Di solito riuscivo quasi a vedere cosa le passava per la testa. Le sue idee erano così tante che giuro, si poteva sentire il rumore del suo cervello all'opera. Ora però, la sua mente mi era come blindata.
Non riuscivo a respirare.

Lei sbatté le palpebre un po' di volte.

Quando la vidi infilarsi le scarpe, utilizzai tutto l' autocontrollo che mi era rimasto per non esultare, per non mettermi a gridare.
La osservai in silenzio mettersi i braccialetti e i ciondoli e alzarsi finalmente in piedi. Raccolsi io il foulard e glielo porsi. Lo prese e se lo avvolse intorno al collo.

Tentata di spingerla in avanti lungo la strada, mi spostai quasi impercettibilmente e mi misi fra lei e il bordo del ponte, incitandola con lo sguardo a muoversi.

Lei lanciò un'infinita, terribile, insopportabile ultima occhiata al fiume sotto di noi.

Poi s'incamminò con me verso il paese.

 

 

 

~

 

Da quel giorno, io ho preso l'abitudine di percorrere sempre Via Cinquefoglie, e di passare dal ponte, quando torno a casa.
Lei ha preso le distanze da me, ma c'era da aspettarselo. Nessuno, come lei, avrebbe mai voluto essere colto sul fatto, essere visto in un momento del genere.
Sospiro, quando cammino sull'asfalto pieno di buchi, le suole delle scarpe che pestano ciottoli e pezzi di bitume che si sgretolano come argilla secca.
Sono le due, di un soleggiato e limpido pomeriggio di Maggio, e la cartella è posata accanto a me, che sono seduta sul bordo del ponte, che ho scavalcato la ringhiera.
Il capo è appoggiato alle sbarre di ferro, che premono lievemente senza causare troppo dolore.
Le gambe sono a penzoloni.
Guardo giù, verso l'acqua.
Forse oggi è la giornata giusta.

 

 

 

 

 

 




 

 

 

Angolo dell'autrice:

Forse è un po' più drammatico di quello che scrivo di solito. Comunque, spero sia ben scritto. Ho inserito "tematiche delicate" per sicurezza.
Mi farebbe piacere sentire vostre opinioni,

a presto c:


ZoZo

 

 

 

   
 
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