Renesmee’s
Lullaby ~
Se non ci fossero state tutte quelle carte sulla superficie
lucida dello strumento, probabilmente quel pianoforte mi sarebbe parso più
inquietante. Spiccava fra i mobili, su un rialzo, un palco. Tutti gli sguardi puntavano lì.
Da piccola – be’, qualche anno fa – osservavo mio padre perdersi fra i tasti,
suonare meravigliose melodie a me sconosciute. Ero meravigliata dalla sua
bravura, dalla fluidità con cui le sue mani correvano sui tasti d’avorio e
d’ebano. Più volte aveva cercato di insegnarmi a suonare, ma mi ero sempre
rifiutata, forse temendo di non essere brava quanto lui.
Solitamente, il pianoforte era un luogo immacolato, incontaminato dalla
presenza di zia Alice e dei suoi profumatissimi mazzi di fiori. Lo strumento
rimaneva lì, su quel palco, conscio delle attenzioni di tutti. A volte m’inquietava;
sembrava quasi minaccioso.
Ora, però, il pianoforte era seppellito da una marea di fogli pieni di note,
appunti, spartiti. Mio padre diceva che era in fase creativa a che avrebbe
preso a morsi chiunque si fosse azzardato a toccare il suo lavoro. E non
credevo affatto che scherzasse; mi era sembrato più che serio.
Eppure, ora avevo deciso di rischiare. Forse ero convinta che mio padre non
avrebbe mai preso a morsi me. Dopotutto, io ero capace di intenerirlo con un
solo sguardo. Lui mi adorava.
Non so cosa mi spinse a sedermi davanti a quello strumento a cui da piccola
avevo sempre evitato di avvicinarmi. Forse il fatto di essere sola, in
casa. I miei genitori erano andati a
cacciare, zia Rose e zia Alice a fare shopping, usando i rispettivi mariti come
facchini e i nonni erano ad un pranzo organizzato dai colleghi di nonno. Avevo
ridacchiato, quando avevo visto la faccia di nonno al pensiero di mangiare cibo
umano.
La casa deserta mi metteva quasi paura. Enorme e vuota, sembrava come morta,
priva di quella vita che scintillava quando tutti eravamo insieme. Era solo un’enorme
vuoto.
Ed ora mi ritrovavo sola, davanti a quel pianoforte enorme.
Posai la mia mano sui tasti d’avorio e un miscuglio di note dissonanti avvolse
la stanza. Sobbalzai leggermente e tolsi la mano, spaventata. Respirai a fondo
e chiusi gli occhi, prima di guardare nuovamente lo strumento.
Respirai di nuovo e, con curiosità, iniziai a sbirciare tra gli spartiti.
Esme.
Il primo portava il nome della nonna. Provai a intonare due note della
sinfonia, ma, probabilmente, non ero abbastanza brava da suonarla come doveva
essere suonata.
Giocherellai un po’ con i tasti, lasciai che le mie mani scivolassero da uno
all’altro tasto, senza curarmi della melodia che stava prendendo forma, poi
rinunciai, sconfortata dalla mia pessima abilità.
Tornai a curiosare tra gli spartiti di mio padre con un sospiro. C’erano vecchissimi
fogli risalenti, probabilmente, al secolo prima, forse acquistati da papà per
esercitarsi. Sembravano fragili, pronti a rompersi al minimo tocco.
E poi c’erano quelli più recenti, quelli che portavano il nome dei membri della
nostra famiglia.
Carlisle, Esme, Jasper, Alice, Rosalie, Emmett, Bella.
Molte volte mamma mi aveva raccontato della ninnananna che papà scrisse per
lei, quando lei era ancora umana. Papà l’aveva suonata più volte, facendo
imbarazzare la mamma – potevo dire con certezza che, se non fosse stata
vampira, sarebbe arrossita – ed io me ne ero innamorata. Innamorata di quella
melodia così dolce, tenera, lieve che mio padre aveva scritto per l’unica persona
che avesse mai amato.
Non provai neanche a suonarla. Non volevo intaccare i bellissimi ricordi che
avevo di quella sinfonia con la mia maldestra abilità.
E poi diedi una sbirciatina all’ultimo foglio e rimasi congelata sul posto.
Renesmee’s Lullaby.
Lo spartito era pieno di macchie e di cancellature, note che si
accavallavano l’una all’altra. Non ero abbastanza ferrata in musica per capire
qualcosa, ma quel che vidi, nonostante non l’avessi mai sentita prima, mi
commosse.
Sentii le lacrime scendere lungo le mie guance senza che io potessi fermarle.
Tante volte zio Emmett mi aveva rimproverata, dicendo che ero una piagnona, ma
io non lo avevo mai ascoltato, nonostante avesse ragione.
Ero una dannata piagnona. E anche in quel momento piangevo, commossa,
osservando con i miei occhi appannati l’elegante scrittura di mio padre.
«Nessie, tutto bene?»
Non lo avevo neanche sentito arrivare. Mi voltai verso mio padre con le lacrime
agli occhi e lui mi fissò con un sopracciglio inarcato, mentre mia madre mi
guardava, preoccupata.
«Sì. Tutto bene. Sai che sono una piagnona, no? Zio Emmett lo dice sempre»mormorai,
tirando su col naso. Mamma scosse la testa, con un sorrisetto, e papà mi
scompigliò i capelli, ridendo.
«Emmett diceva anche che lui era il vampiro più forte in circolazione, ma tua
madre lo ha battuto» disse, indicando la mamma che, imbarazzata, lo fissò come
se avesse voluto incenerirlo.
«Non conta. Io ero una neonata»
«Emmett non aveva specificato»
E restarono a discutere, sempre con il sorriso sulle labbra, fino a quando papà
non si rese conto di cosa avevo tra le mani.
«Nessie, quello è mio? » chiese, a metà fra l’arrabbiato e l’imbarazzato.
Sarebbe stato uno spettacolo delizioso, se io non avessi avuto tanta paura
della sua furia assassina.
«Ehm, sì? » Sembrava quasi una domanda.
Lui mi fissò, per un solo attimo, arrabbiato, poi il suo volto si distese in un
sorriso.
«Avevo detto che nessuno doveva toccarli»mi rimproverò, con il sorriso sulle
labbra.
«Ero curiosa»
Sorrise ancora, poi lesse il titolo dello spartito.
«Nessie, quello è …»
Lo fissai per un attimo, senza parole, poi tornai a piangere come una stupida.
E’ per me?
Mio padre mi guardò con un sorriso sulle labbra. Probabilmente aveva letto
i miei pensieri.
Fino a quel momento ero stata sotto lo scudo di mamma – che, almeno quando lei
era in casa, ci teneva ad offrirmi la privacy di cui avevo bisogno – ma lei,
molto probabilmente, aveva capito che
era il caso di toglierlo e ci aveva lasciati soli.
«Certo che è per te! » esclamò, rispondendo ai miei pensieri, dato che non ero
capace di articolare una sola parola. «Vogliamo suonarlo insieme? » domandò,
con gentilezza.
Faccio schifo a suonare. Probabilmente
rovinerei tutto.
«Non rovineresti un bel niente, Nessie. Tu sei bravissima, anche se non lo vuoi
ammettere»
Sospirai e, mentre posavo lo spartito sul leggio, incontrai gli occhi dorati di
mio padre. Erano scintillanti.
«Avanti, iniziamo»
Le sue mani erano troppo veloci, troppo esperte perché io restassi al suo ritmo
e, probabilmente, sbagliai parecchie volte, ma lui non mi rimproverò neanche
una di quelle volte. Le mie mani erano più lente, meno esercitate delle sue,
facevo fatica a seguire la melodia – anche con le lacrime che mi annebbiavano
lo sguardo – eppure la sentivo chiaramente.
Era la sinfonia più bella che avessi mai sentito.
Meravigliosa, stupenda. Forse più bella della ninnananna di mamma. Era
delicata, leggera, lieve come quella, ma al tempo stesso sembrava trasmettere
energia, forza, vita.
Era meravigliosa. Ed era per me.
Quando anche gli ultimi accordi sfumarono, lasciando spazio al silenzio, mi
voltai a guardare mio padre. Lui mi fissava con il solito sorriso sghembo sul
viso da eterno diciassettenne.
«Sei stata bravissima»
Era una bugia, lo sapevo. Non ero stata affatto bravissima, ma in quel momento, non ci feci caso.
Singhiozzai e abbracciai di slancio mio padre. Lui rimase un attimo sorpreso,
forse non se l’aspettava, forse non era riuscito a leggerlo nei miei pensieri,
ma poi circondò il mio esile corpo con le sue braccia, facendo attenzione a non
schiacciarmi, e posò un lieve bacio sulla mia tempia.
«Ti voglio bene, Nessie»
Respirai a lungo per non avere la voce tremante, prima di dire quelle parole.
«Anche io te ne voglio, papà».
Angolo Autrice
Era un secolo che non scrivevo qualcosa. Probabilmente non
avrete sentito la mia mancanza, ma eccomi qui, sono tornata! E con una storia
rivoltante, per di più. Lo so, non è il massimo, però l’idea mi ispirava.
Spero che non sia così rivoltante :)