Eccomi
qui, con una piccola,
nuova one-shot uscita fuori in un momento triste. È corta,
è triste, è
deprimente, è adatta alle persone abbastanza depresse in
questo periodo, non è
felice. Non ha niente di felice. Ma
neanche
io sono felice, per cui è normale che ciò che ho
scritto non lo sia. Troppe cose
stanno andando male. Troppe cose sbagliate stanno prendendo il
sopravvento. Nella
mia mente c’è il caos più totale, la
solitudine più assoluta, anche essendo
circondata da persone che mi vogliono bene. Non so più cosa
fare, vorrei fare
qualcosa per aiutare chi mi sta intorno, per aiutare me stessa, ma non
è possibile.
Perché io non posso fare niente. Devo stare a guardare e
sperare che presto
tutto cambi. Sperare che riesca a sentirmi meglio. Sto perdendo la
passione che
mettevo nelle cose che facevo, l’unica cosa che mi
è rimasta è la scrittura con
cui mi sfogo. Ho provato a scrivere qualcosa di minimamente decente,
spero vi
piaccia e che commentiate. Un bacio. Mary.
Nulla
di diverso.
Sentiva
il russare del
compagno alla sua destra, si mosse e lui si mosse con lei.
Perché
diavolo la teneva
abbracciata in quel modo?
Lo
scostò piano, senza
svegliarlo, poi uscì dal letto in punta di piedi, come ogni
notte a quell’ora.
Si
recò in bagno, si sciacquò
il viso ed infilò un paio di jeans ed una felpa.
Senza
far rumore uscì di
casa, dopo aver lasciato un biglietto con su scritto che era
già andata al
lavoro, come al solito.
Il
problema era che il lavoro
non era proprio la sua destinazione, al momento.
Guidò
in macchina fino ad una
grande palazzina, vi entrò e salì le scale
velocemente.
Aprì
la porta con le chiavi e
si diresse in salone.
Lo
trovò lì.
La
sigaretta tra le labbra
che avevano incontrato spesso le sue e l’aria strafottente.
Arrabbiato,
come ogni altra
volta.
“Sei
arrivata.” Non
un “ciao”, non un “come stai,
oggi?”.
Freddo.
“Sì.” La ragazza sorrise e si
avvicinò a lui,
abbracciandolo piano.
Lui
non rispose
all’abbraccio.
“Cos’hai?” gli chiese lei,
guardandolo negli occhi
ambrati.
“Puzzi
di lupo.” Disse
lui, scansandola malamente.
“Lo
so, mi dispiace…”
La
squadrò, indignato.
Una
ragazza che poteva
sembrare un angelo…
È
proprio vero che le
apparenze ingannano.
“Quando
hai intenzione di
dirglielo?” chiese,
facendo finta di non
essere troppo interessato alla risposta.
Lei
si guardò la maglia,
sporca del cappuccino del giorno prima, che aveva versato per la sua
sbadataggine. “È da tanto che stiamo insieme,
io…”
“Ma
non lo ami, giusto?”
“No.” Il ragazzo
gettò la sigaretta fuori dalla
finestra, poi si sedette stancamente sul divano deformato dal tempo.
“Cos’hai
intenzione di fare?”
“Non
è così facile come
sembra.”
“Non
è facile neanche per
me!” sbottò lui, battendosi una mano sul ginocchio.
“Lo
so…”
“Sai
tante cose, Kagome. Ma
non fai niente.” La
ragazza rimase là,
ad osservarsi la punta delle scarpe, che ora avevano un non so che di
molto
interessante.
“Ti
amo.” Gli
disse.
“Già,
ma io sono il tuo
amante, non il tuo compagno fisso.”
“Questa
cosa è irrilevante.”
“No,
questa cosa è rilevante.”
“Che
cosa dovrei fare,
allora?”
“Questo
dovresti dirmelo
te.” La
ragazza si appoggiò al tavolo in
mogano situato al centro della sala, massaggiandosi le tempie.
“È
difficile, InuYasha. Tremendamente
difficile.”
“Non
siete sposati.” Constatò
lui.
“No,
non siamo sposati. Ma
viviamo insieme.”
“Questo
non c’entra niente.”
“C’entra
eccome.”
“Ah,
davvero?”
“Sì.” La giovane alzò
lo sguardo color cioccolato,
fino a trovare gli occhi di lui e sprofondarci. “Poi i miei
genitori già lo
conoscono.”
“Chissà
quanti ragazzi gli
avrai fatto conoscere.”
“È
diverso.”
“E
perché mai?”
“Perché mi ha chiesto di sposarlo!”
gridò.
“Ah…” gli occhi
dell’hanyou persero improvvisamente
quella lucentezza che da sempre li caratterizzava.
“E… tu?”
“Io,
cosa?” sbraitò
lei, disperata dalla situazione.
“Cos’hai
risposto?” chiese
il mezzo demone.
“Cosa
potevo rispondere? Gli ho
detto di sì!”
Il
ragazzo si alzò. Si muoveva
quasi fosse comandato da qualcuno. Le faceva paura; non
l’aveva mai visto in
quello stato. Aprì lentamente la porta
dell’ingresso, lei non riusciva a
capire. “Dobbiamo finirla qui, non possiamo più
continuare così.” La
guardò negli occhi, poi portò il suo
sguardo al pavimento. Faceva troppo male, vederla andar via. “Ormai hai deciso.
Rimarrai con lui. È inutile
continuare.” Continuò.
“Forse
hai ragione.” Si
avviò verso l’uscio, gli sguardi non si
incontravano, troppa la paura di non riuscire a far nulla.
Mentre
la ragazza stava per
varcare la soglia, lui la bloccò per un polso, girandola
verso di sé e
stringendola in un dolce abbraccio. Non la voleva lasciare, sarebbe
stata
troppo dura. “Rimani con me, almeno questa notte.
Sarà l’ultima.”
La supplicò.
“No…
sarebbe troppo
difficile, dopo.” Si
staccò dal corpo
muscoloso del ragazzo con gli occhi nocciola annebbiati dalle lacrime
che
premevano di uscire. Le ritirò, provando a sorridere.
“Ti amo, InuYasha.”
Sussurrò, prima di scappare via. Lui non la
rincorse: quel “ti amo” voleva dire
“addio”. E questo lo sapevano entrambi
molto bene.
Kagome
si ritrovò fuori dall’edificio.
Il volto puntato al cielo che andava schiarendosi, delle piccole
goccioline di
pioggia le cadevano sul viso, mischiate alle lacrime che finalmente
erano
potute uscire ed iniziare la loro corsa sulle gote rosate.
Non
sopportava come le cose
erano cambiate, ma non poteva succedere altrimenti. Così
doveva andare. Anche se faceva male.
Si
impose di essere forte, si
desse che sarebbe riuscita a dimenticare. Tutte bugie, che
però le servivano
per provare ad andare avanti.
Non
lo avrebbe mai scordato,
non avrebbe mai dimenticato i dolci momenti passati insieme. Ma doveva
sposarsi
e doveva continuare la sua vita. InuYasha, era sicura, avrebbe trovato
una vera
donna con cui stare. L’avrebbe dimenticata, si sarebbe
lasciato alle spalle il
passato, mentre lei avrebbe continuato a pensarlo e a pensare agli
ultimi
momenti di infinita dolcezza e passione passati insieme. I loro sguardi
in uno,
la loro anima unita.
Sorrise
a quel pensiero. Lo avrebbe
amato, non le importava altro e altro non le sarebbe mai importato.
Un
ultimo sguardo alla
finestra della sua casa dove aveva passato istanti meravigliosi, poi
salì in
macchina e partì velocemente.
Continuò
la sua vita come
prima, nulla era apparentemente cambiato, nulla.
Solamente
un cosa era
diversa: ogni notte, alla solita ora, Kagome si alzava e lasciava un
biglietto,
dicendo di essere andata a lavoro. Ogni notte, alla solita ora, Kagome
andava
in quell’edificio e fissava da fuori la finestra di
quell’appartamento che non
avrebbe più rivisto i suoi occhi.