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Autore: Dolores Haze    06/01/2016    2 recensioni
Si dice che i sognatori siedano sempre dal lato del finestrino. Per due volte Sherlock ha viaggiato in taxi, e per tre volte ha incrociato lo sguardo di un uomo dall’altra parte della strada. Per tre volte il suo cuore ha avuto un fremito. Quell’uomo è John Watson.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, di Steven Moffat e Mark Gatiss. Riferimenti ad altre storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e involontari. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

La giornata di un consulente investigativo inizia molto presto: bisogna lavarsi, vestirsi, bere un sorso di tè (Mrs. Hudson non sarebbe contenta se trovasse il vassoio completamente intatto), passare in rassegna le bollette – noioso, noioso, noioso – e le mail – noioso, noioso, dannatamente, maledettamente noioso – eventualmente uscire, raggiungere Scotland Yard, il Bart’s o la scena di qualche crimine di poco conto. Talvolta, quando il cielo è cupo e i pensieri sono frenetici, impossibili da arginare, per riannodare i fili, per non impazzire ci si può – ci si deve – concedere un virtuosismo, una corda pizzicata, una carezza lieve con il crine dell’archetto. Un suono ricco, pastoso, puro, la mano piacevolmente allenata di chi l’ha prodotto trema appena di soddisfazione, di piacere, talmente recondito e infinitesimo da indurre l’osservatore a pensare che il violinista stia facendo l’amore con se stesso: ma è soltanto un attimo, la mente già corre, più veloce della mano, della gamba, del piede, gli occhi implacabili saettano in ogni dove, alla ricerca del cappotto, della sciarpa, del telefonino. L’ultima nota ha appena cessato di vibrare, di fargli cedere appena le ginocchia, ed è già scomparso, volatilizzato, lasciandosi alle spalle il bagliore cinerino della cattiva giornata attraverso le imposte socchiuse.

Sherlock Holmes non ha bisogno di niente e di nessuno: nell’intima solitudine del suo appartamento al 221B di Baker Street, nel suo nido casto ed invincibile, trascorre i suoi giorni studiando, sperimentando – a volte senza comunicare con anima viva per giorni, se si escludono i monosillabi e i grugniti con i quali accoglie e congeda Mrs. Hudson, specie se la donna gli fa visita durante qualche esperimento – sorseggiando tè e mangiando pochissimo, a dispetto dell’ottima cucina della sua padrona di casa: la sua mente è vigile, scattante, sottile e acuta come ben poche cose in questo mondo, rifugge qualsiasi tipo di svago o comfort. Uno scienziato puro a tutti gli effetti, sebbene il demone della musica – che pure demone non è, e questo Sherlock, in fondo al suo cuore, lo sa – sia sempre pronto a stuzzicarlo con i suoi artigli sinuosi, ma con il tempo il violino non ha più costituito una fonte di distrazione, di evasione dalla realtà come era in principio. Il gioco complesso della composizione è a tutti gli effetti un principio ordinatore del caos variopinto che abita il consulente investigatore. È tutto lineare, rigoroso, perfetto, dunque.

C’è, tuttavia, una pecca.

Essa non è chiaramente visibile: è più un difetto comportamentale, una sorta di errore di fabbrica, si potrebbe dire. Sherlock non ha interrogativi in merito: del resto lui è l’uomo delle risposte, non delle domande. Eppure, nei suoi viaggi in treno, in autobus, in taxi – specialmente in taxi – il consulente investigativo siede sempre dal lato del finestrino. Non è necessariamente indicativa di qualcosa in particolare: potrebbe anche trattarsi di un caso. Molta gente siede accanto al finestrino e, ad esempio, fissa lo sguardo sul proprio telefonino, o su un libro, o sul volto di chi ha accanto, con cui magari interloquisce, per tutto il tempo: potrebbe non significare nulla.

Invece significa qualcosa.

La strada è un curioso viavai di folla, colori, bocche, borse, capelli, dettagli impossibili da memorizzare anche per il cervello più efficiente. Forse, semplicemente, Sherlock siede accanto al finestrino per immergersi, come in un’apnea catartica, nei sotterranei più remoti e sconosciuti del suo palazzo mentale, lì dove albergano desideri, paure inconfessabili, parole non dette e dolori insondabili. Non è un processo consapevole. Non possiede la stessa gestualità volontaria e sapiente che contraddistingue le carezze – oh, il suo tocco è così forte e delicato – regalate al violino, il quale restituisce con gratitudine delle melodie che per un attimo illuminano lo sguardo di Sherlock in modo strano, diverso. Qual è lo sguardo di un consulente investigativo, quando guarda fuori dal finestrino? A cosa pensa? Cosa sogna?

I consulenti investigativi non sognano, risponderebbe Sherlock, se interpellato, – ma forse anche se non interpellato – storcendo la bocca con disgusto.

Ma tu sì, Sherlock.

Una voce di corridoio, o una leggenda metropolitana, definiscila come più ti piace, riferisce che i sognatori – proprio loro, Sherlock, la categoria che tanto aborrisci – siedano sempre dal lato del finestrino, quando prendono un qualsivoglia mezzo di trasporto. Perché tanto risentimento nei loro riguardi? Non sei forse uno di loro? Cosa differenzia, sotto certi aspetti, uno scienziato da un sognatore?

Il primo giorno, al ritorno da una scena del crimine particolarmente interessante – il principale indiziato è un uomo scomparso senza lasciare traccia più di vent’anni fa – Sherlock osserva la strada, le case, il cielo grigio con sguardo remoto, lontano. Poco prima di giungere a destinazione, il suo sguardo si posa su un uomo, fermo dall’altra parte della strada, intento a parlare al telefono con un’espressione che a Sherlock piace molto – serafica, limpida, attenta a quanto gli viene riferito. Indossa un semplice cappotto, sciarpa, cappello, guanti, scarpe pesanti. Per un solo istante l’azzurro dei loro sguardi si intercetta in modo che Sherlock non saprebbe descrivere, ma che è sufficiente a fargli sudare le mani – brutto segno, vecchio mio.

Il pomeriggio trascorre a grosse gocce lente, inesorabili. Per più volte il consulente investigativo si ritrova a scostare le tende con la punta delle dita – come se, non impegnando tutta la mano nel gesto, quest’ultimo possa anche non essere mai avvenuto – e a sbirciare la strada innevata. Non vede nulla.

Il giorno successivo, Lestrade gli invia un messaggio molto presto, esortandolo a presentarsi il prima possibile a Scotland Yard. Si lava e veste rapidamente ed esce di casa in fretta, dimentico persino del tè di Mrs. Hudson, la quale si arrabbierà – ma non ha tempo per pensarci. Mentre attende il taxi, lancia un’occhiata esitante e nervosa al marciapiede opposto, quasi sperando di veder confermata la propria ipotesi secondo la quale l’uomo biondo del giorno prima sia il suo dirimpettaio, o qualcosa del genere. Sherlock non sa perché quello sguardo l’abbia tanto ipnotizzato. Lui non capisce queste cose, non è esattamente il suo ambito. Conosce la chimica, la fisica, la fisiologia, ma non sa spiegarsi in nessun modo, come un bambino sperduto, cosa lo spinga a osservare con così tanta ardente tenacia gli edifici di fronte a lui. È un mistero, e i misteri possono irritarlo o intrigarlo. Questo mistero è molto intrigante.

Il marciapiede è vuoto. Per tutto il tempo in cui attende il taxi ha la stessa espressione granitica e impassibile, sebbene sbatta la portiera della vettura con maggiore vigore del solito. Siede, cercando di trovare una spiegazione – che non arriva – a quella strana amarezza nascente in fondo al suo stomaco, e mentre posa la tempia sul vetro del finestrino, in quel preciso istante, il suo cuore sussulta: eccolo! Arriva dalla direzione opposta, inequivocabilmente lui. Statura media, capelli chiari tagliati corti, portamento militare, non riesco ad intravedere la carnagione con precisione, è troppo coperto. Sguardo attento, quasi… affettuoso. Si sta fermando nello stesso punto di ieri. Vive nelle vicinanze, aspetta anche lui il taxi, probabilmente per lavoro. Mi sta guardando. Devo girare la testa per ricambiare, mentre il taxi parte? Mi sta… sorridendo?

Sorride anche lui, con una certa tenerezza, per tutto il resto del viaggio.

Il terzo giorno Sherlock rimane in casa, ma è inquieto. Il flusso dei suoi pensieri è divenuto talmente ingestibile da non riuscire a placarlo neanche con l’aiuto del violino, il quale è stato suonato al limite del maltrattamento e ora giace offeso sulla scrivania. Il suo padrone si aggira come un animale in gabbia per il salotto. Il tè giace intatto sul vassoio. Mrs. Hudson ha un broncio più evidente di quello del violino, ma del resto c’era da aspettarselo.

L’uomo biondo non si è presentato né al mattino, né ad ora di pranzo, né nel primo pomeriggio. Fa buio presto, e con queste luci impersonali dei lampioni, da questa altezza, potrebbe essere difficile riconoscerlo. Forse lavora sino a tardi. Forse è sposato. Forse è morto. Sherlock non si rassegna. Spalanca le tende, ad un certo punto, e guarda fuori. Automobili, taxi, passanti. Cosa ti aspetti di vedere, Sherlock? Cosa c’è nella tua testa?

Non deve attendere molto, fortunatamente. L’arrivo dell’uomo è preceduto dal cuore di Sherlock, una sentinella davvero vigile e diligente: non c’è dubbio, è tachicardia. Non c’è dubbio, è lui. Indossa la stessa giacca del primo giorno in cui Sherlock lo ha visto per la prima volta, porta con sé una valigetta che a Sherlock fa subito pensare al Bart’s, ai suoi labirintici, infiniti corridoi, ai camici bianchi e ai tavoli sterili dell’obitorio. Il suo battito, se possibile, accelera ancora di più.

L’uomo è sceso dal taxi, ha ringraziato il tassista – il taxi è ripartito – e sembra indugiare sul marciapiede con fare incerto. Sembra guardare davanti a sé, come se cercasse qualcuno. Perché non se ne va? Si chiede Sherlock, intanto, innervosito. È tardi, sarà stanco, avrà fame, non ha qualcuno che gli prepari da mangiare?

Forse è soltanto solo, come me.

Sherlock si rende improvvisamente conto di essere esposto – esposto come non lo è mai stato, con il cuore in procinto di saltargli fuori dal petto, con le mani sudate, con gli occhi ardenti di intelligenza e di curiosità, e anche di qualcos'altro, qualcosa che non sa spiegare, qualcosa che non sa classificare, che non sa catalogare in nessun modo, e forse non vuole farlo, intrappolato com’è tra il suo raziocinio – apparentemente assopito, in questi attimi – e il suo animo sognante, vulnerabile, l’animo di un filosofo, di un artista, di un poeta. L’uomo biondo ha sollevato gli occhi, lo ha visto affacciato alla finestra, con la sua vestaglia azzurra, con il viso rivolto verso di lui, lo ha riconosciuto, gli ha sorriso con la bocca, con i denti, con le mani, con tutto il suo corpo, poi si è voltato e ha ripreso a camminare, come se avesse indugiato nell’attesa di Sherlock, di poter incrociare i suoi occhi, di potergli sorridere, di poter andar via con quella sorta di dolcezza condivisa sospesa in profondità. Un tepore difficile da dissipare.

William Sherlock Scott Holmes ancora non lo sa, ma l’uomo biondo si chiama John Hamish Watson, è un medico militare rientrato dall’Afghanistan da qualche mese, ed è pronto a sconvolgere la sua vita in un modo che il consulente investigativo non può neanche immaginare.

John Hamish Watson ancora non lo sa, ma l’uomo bruno dallo sguardo affilato e dai capelli corvini affacciato alla finestra, sebbene gli abbia rivolto solo qualche sorriso stentato, lo ha riconosciuto prima ancora che il medico potesse rendersene conto.

L’istante prima di incrociare gli sguardi per la prima volta, Sherlock Holmes, inconsapevole burattino, ha tirato con più forza il filo della sua solitudine, per noia, per gioco, per sogno, e si è ritrovato, non senza sorpresa, accanto ad un altro burattino, un altro uomo, e ha scoperto prima di lui che quell’uomo teneva tra le mani l’estremità opposta del lungo, aggrovigliato filo che terminava nella mano di Sherlock. La stessa solitudine. La stessa disperata speranza.

Chissà, forse domani attraverserà la strada per andare a parlargli.

   
 
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