Disclaimer: Questi
personaggi non mi
appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle,
di Steven Moffat e
Mark Gatiss. Riferimenti
ad altre
storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e
involontari. Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
La
giornata di un consulente
investigativo inizia molto presto: bisogna lavarsi, vestirsi, bere un
sorso di tè
(Mrs. Hudson non sarebbe contenta se trovasse il vassoio completamente
intatto), passare in rassegna le bollette – noioso,
noioso, noioso – e le mail – noioso,
noioso, dannatamente, maledettamente noioso –
eventualmente uscire,
raggiungere Scotland Yard, il Bart’s o la scena di qualche
crimine di poco
conto. Talvolta, quando il cielo è cupo e i pensieri sono
frenetici,
impossibili da arginare, per riannodare i fili, per non impazzire ci si
può –
ci si deve – concedere un
virtuosismo,
una corda pizzicata, una carezza lieve con il crine
dell’archetto. Un suono
ricco, pastoso, puro, la mano piacevolmente allenata di chi
l’ha prodotto trema
appena di soddisfazione, di piacere, talmente recondito e infinitesimo
da
indurre l’osservatore a pensare che il violinista stia
facendo l’amore con se
stesso: ma è soltanto un attimo, la mente già
corre, più veloce della mano,
della gamba, del piede, gli occhi implacabili saettano in ogni dove,
alla
ricerca del cappotto, della sciarpa, del telefonino. L’ultima
nota ha appena
cessato di vibrare, di fargli cedere appena le ginocchia, ed
è già scomparso,
volatilizzato, lasciandosi alle spalle il bagliore cinerino della
cattiva
giornata attraverso le imposte socchiuse.
Sherlock
Holmes non ha bisogno
di niente e di nessuno: nell’intima solitudine del suo
appartamento al 221B di
Baker Street, nel suo nido casto ed invincibile, trascorre i suoi
giorni studiando,
sperimentando – a volte senza comunicare con anima viva per
giorni, se si
escludono i monosillabi e i grugniti con i quali accoglie e congeda
Mrs.
Hudson, specie se la donna gli fa visita durante qualche esperimento
– sorseggiando
tè e mangiando pochissimo, a dispetto dell’ottima
cucina della sua padrona di
casa: la sua mente è vigile, scattante, sottile e acuta come
ben poche cose in
questo mondo, rifugge qualsiasi tipo di svago o comfort. Uno scienziato
puro a
tutti gli effetti, sebbene il demone della musica – che pure
demone non è, e questo
Sherlock, in fondo al
suo cuore, lo sa – sia sempre pronto a stuzzicarlo con i suoi
artigli sinuosi,
ma con il tempo il violino non ha più costituito una fonte
di distrazione, di
evasione dalla realtà come era in principio. Il gioco
complesso della composizione
è a tutti gli effetti un principio ordinatore del caos
variopinto che abita il
consulente investigatore. È tutto lineare, rigoroso,
perfetto, dunque.
C’è,
tuttavia, una pecca.
Essa
non è chiaramente
visibile: è più un difetto comportamentale, una
sorta di errore di fabbrica, si
potrebbe dire. Sherlock non ha interrogativi in merito: del resto lui
è l’uomo
delle risposte, non delle domande. Eppure, nei suoi viaggi in treno, in
autobus, in taxi – specialmente in taxi – il
consulente investigativo
siede sempre
dal lato del finestrino. Non è
necessariamente indicativa di qualcosa in particolare: potrebbe anche
trattarsi
di un caso. Molta gente siede accanto al finestrino e, ad esempio,
fissa lo
sguardo sul proprio telefonino, o su un libro, o sul volto di chi ha
accanto,
con cui magari interloquisce, per tutto il tempo: potrebbe non
significare
nulla.
Invece
significa qualcosa.
La
strada è un curioso viavai
di folla, colori, bocche, borse, capelli, dettagli impossibili da
memorizzare
anche per il cervello più efficiente. Forse, semplicemente,
Sherlock siede
accanto al finestrino per immergersi, come in un’apnea
catartica, nei
sotterranei più remoti e sconosciuti del suo palazzo
mentale, lì dove albergano
desideri, paure inconfessabili, parole non dette e dolori insondabili.
Non è un
processo consapevole. Non possiede la stessa gestualità
volontaria e sapiente
che contraddistingue le carezze – oh, il suo tocco
è così forte e delicato –
regalate al violino, il quale restituisce con gratitudine delle melodie
che per
un attimo illuminano lo sguardo di Sherlock in modo strano, diverso.
Qual è lo
sguardo di un consulente investigativo, quando guarda fuori dal
finestrino? A cosa
pensa? Cosa sogna?
I
consulenti investigativi non sognano,
risponderebbe Sherlock, se
interpellato, – ma forse anche se non
interpellato
– storcendo la bocca con disgusto.
Ma
tu sì, Sherlock.
Una
voce di corridoio, o una
leggenda metropolitana, definiscila come più ti piace,
riferisce che i sognatori –
proprio loro, Sherlock, la
categoria che tanto aborrisci – siedano sempre dal lato del
finestrino, quando
prendono un qualsivoglia mezzo di trasporto. Perché tanto
risentimento nei loro
riguardi? Non sei forse uno di loro? Cosa differenzia, sotto certi
aspetti, uno
scienziato da un sognatore?
Il
primo giorno, al ritorno da
una scena del crimine particolarmente interessante – il
principale indiziato è
un uomo scomparso senza lasciare traccia più di
vent’anni fa – Sherlock osserva
la strada, le case, il cielo grigio con sguardo remoto, lontano. Poco
prima di
giungere a destinazione, il suo sguardo si posa su un uomo, fermo
dall’altra
parte della strada, intento a parlare al telefono con
un’espressione che a
Sherlock piace molto – serafica, limpida, attenta a quanto
gli viene riferito. Indossa
un semplice cappotto, sciarpa, cappello, guanti, scarpe pesanti. Per un
solo
istante l’azzurro dei loro sguardi si intercetta in modo che
Sherlock non
saprebbe descrivere, ma che è sufficiente a fargli sudare le
mani – brutto segno,
vecchio mio.
Il
pomeriggio trascorre a
grosse gocce lente, inesorabili. Per più volte il consulente
investigativo si
ritrova a scostare le tende con la punta delle dita – come
se, non impegnando
tutta la mano nel gesto, quest’ultimo possa anche non essere
mai avvenuto – e a
sbirciare la strada innevata. Non vede nulla.
Il
giorno successivo, Lestrade
gli invia un messaggio molto presto, esortandolo a presentarsi il prima
possibile a Scotland Yard. Si lava e veste rapidamente ed esce di casa
in fretta,
dimentico persino del tè di Mrs. Hudson, la quale si
arrabbierà – ma non ha
tempo per pensarci. Mentre attende il taxi, lancia
un’occhiata esitante e
nervosa al marciapiede opposto, quasi sperando di veder confermata la
propria
ipotesi secondo la quale l’uomo biondo del giorno prima
sia il suo dirimpettaio,
o qualcosa del genere. Sherlock non sa perché quello sguardo
l’abbia tanto
ipnotizzato. Lui non capisce queste cose, non è esattamente
il suo ambito. Conosce
la chimica, la fisica, la fisiologia, ma non sa spiegarsi in nessun
modo, come
un bambino sperduto, cosa lo spinga a osservare con così
tanta ardente tenacia
gli edifici di fronte a lui. È un mistero, e i misteri
possono irritarlo o
intrigarlo. Questo mistero è molto intrigante.
Il
marciapiede è vuoto. Per
tutto il tempo in cui attende il taxi ha la stessa espressione
granitica e
impassibile, sebbene sbatta la portiera della vettura con maggiore
vigore del solito.
Siede, cercando di trovare una spiegazione – che non arriva
– a quella strana
amarezza nascente in fondo al suo stomaco, e mentre posa la tempia sul
vetro
del finestrino, in quel preciso istante, il suo cuore sussulta: eccolo!
Arriva
dalla direzione opposta, inequivocabilmente lui. Statura media, capelli
chiari
tagliati corti, portamento militare, non riesco ad intravedere la
carnagione
con precisione, è troppo coperto. Sguardo attento,
quasi… affettuoso. Si
sta fermando nello stesso punto di ieri. Vive nelle
vicinanze, aspetta anche lui il taxi, probabilmente per lavoro. Mi sta
guardando. Devo girare la testa per ricambiare, mentre il taxi parte?
Mi sta…
sorridendo?
Sorride
anche lui, con una
certa tenerezza, per tutto il resto del viaggio.
Il
terzo giorno Sherlock rimane
in casa, ma è inquieto. Il flusso dei suoi pensieri
è divenuto talmente
ingestibile da non riuscire a placarlo neanche con l’aiuto
del violino, il
quale è stato suonato al limite del maltrattamento e ora
giace offeso sulla
scrivania. Il suo padrone si aggira come un animale in gabbia per il
salotto. Il
tè giace intatto sul vassoio. Mrs. Hudson ha un broncio
più evidente di quello del
violino, ma del resto c’era da aspettarselo.
L’uomo
biondo non si è
presentato né al mattino, né ad ora di pranzo,
né nel primo pomeriggio. Fa buio
presto, e con queste luci impersonali dei lampioni, da questa altezza,
potrebbe
essere difficile riconoscerlo. Forse lavora sino a tardi. Forse
è sposato. Forse
è morto. Sherlock non si rassegna. Spalanca le tende, ad un
certo punto, e
guarda fuori. Automobili, taxi, passanti. Cosa ti aspetti di vedere,
Sherlock? Cosa
c’è nella tua testa?
Non
deve attendere molto,
fortunatamente. L’arrivo dell’uomo è
preceduto dal cuore di Sherlock, una
sentinella davvero vigile e diligente: non c’è
dubbio, è tachicardia. Non c’è
dubbio, è lui. Indossa la stessa giacca del primo giorno in
cui Sherlock lo ha
visto per la prima volta, porta con sé una valigetta che a
Sherlock fa subito
pensare al Bart’s, ai suoi labirintici, infiniti corridoi, ai
camici bianchi e
ai tavoli sterili dell’obitorio. Il suo battito, se
possibile, accelera ancora
di più.
L’uomo
è sceso dal taxi, ha
ringraziato il tassista – il taxi è ripartito
– e sembra indugiare sul
marciapiede con fare incerto. Sembra guardare davanti a sé,
come se cercasse
qualcuno. Perché non se ne va? Si chiede Sherlock, intanto,
innervosito. È tardi,
sarà stanco, avrà fame, non ha qualcuno che gli
prepari da mangiare?
Forse
è soltanto solo, come
me.
Sherlock
si rende
improvvisamente conto di essere esposto – esposto come non lo
è mai stato, con
il cuore in procinto di saltargli fuori dal petto, con le mani sudate,
con gli
occhi ardenti di intelligenza e di curiosità, e anche di
qualcos'altro,
qualcosa che non sa spiegare, qualcosa che non sa classificare, che non
sa
catalogare in nessun modo, e forse non vuole farlo, intrappolato
com’è tra il
suo raziocinio – apparentemente assopito, in questi attimi
– e il suo animo
sognante, vulnerabile, l’animo di un filosofo, di un artista, di un poeta.
L’uomo biondo ha
sollevato gli occhi, lo ha visto affacciato alla finestra, con la sua
vestaglia
azzurra, con il viso rivolto verso di lui, lo ha riconosciuto, gli ha
sorriso
con la bocca, con i denti, con le mani, con tutto il suo corpo, poi si
è
voltato e ha ripreso a camminare, come se avesse indugiato
nell’attesa di
Sherlock, di poter incrociare i suoi occhi, di potergli sorridere, di
poter
andar via con quella sorta di dolcezza condivisa sospesa in
profondità. Un tepore
difficile da dissipare.
William
Sherlock Scott Holmes ancora
non lo sa, ma l’uomo biondo si chiama John Hamish Watson,
è un medico militare
rientrato dall’Afghanistan da qualche mese, ed è
pronto a sconvolgere la sua
vita in un modo che il consulente investigativo non può
neanche immaginare.
John
Hamish Watson ancora non
lo sa, ma l’uomo bruno dallo sguardo affilato e dai capelli
corvini affacciato
alla finestra, sebbene gli abbia rivolto solo qualche sorriso stentato,
lo ha riconosciuto prima ancora
che il medico
potesse rendersene conto.
L’istante
prima di incrociare gli
sguardi per la prima volta, Sherlock Holmes, inconsapevole burattino,
ha tirato
con più forza il filo della sua solitudine, per noia, per
gioco, per sogno, e
si è ritrovato, non senza sorpresa, accanto ad un altro
burattino, un altro
uomo, e ha scoperto prima di lui che quell’uomo teneva tra le
mani l’estremità
opposta del lungo, aggrovigliato filo che terminava nella mano di
Sherlock. La stessa solitudine. La stessa disperata speranza.
Chissà,
forse domani
attraverserà la strada per andare a parlargli.