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Autore: Jess2792    09/01/2016    2 recensioni
Guardare l'orizzonte sentendo di voler qualcosa che non c'è, soffermarsi a ricordare il cosa e il perché l'hanno spinta a quel punto. Un certo senso di serenità nato solo dopo le torture subite per voler essere semplicemente se stessa.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Guardo l’orizzonte in attesa di qualcosa, ancora. Quello stesso qualcosa che avevo aspettato per anni, senza mai averne almeno un pezzetto.
Sono stata derisa, discriminata, picchiata e violentata psicologicamente da ragazzi e ragazze, tutti miei coetanei. Ho sopportato e mandato giù mille parole piene d’odio e non ho reagito dinanzi a calci e schiaffi dati a sorpresa e alle spalle. Non ne avevo la forza. Non ne avevo la voglia. Avrei peggiorato la situazione e la fine del primo quadrimestre era alle porte. Quattro mesi passati, ne mancavano tre. Avrei resistito.
Ormai avevo già deciso, avrei lasciato tutto quanto. Me ne sarei andata lontana da lì. Non bastava il corso di turistica che avevo iniziato solo perché più “semplice” rispetto ad altri, ci si mise anche il mio amore per le donne a darmi noie.
La prima ora di scuola era dedicata alle palline di carta sputate in testa; la seconda e terza ora erano dedicate allo smarrimento dei miei effetti personali; la quarta ora potevo stare tranquilla, l’insegnante era soprannominata Hitler e non voleva alcun tipo di schiamazzo; la quinta ora era dedicata agli insulti veri e propri; la sesta e ultima ora iniziava la conta a chi avrebbe avuto il piacere di acciuffarmi fuori da scuola. Un programmino niente male, direi. Si erano organizzati bene.
Partiva una toccatina, poi l’assorbente nuovo attaccato sullo zaino, per poi terminare col buttarmi giù dal bus fino a terra alla mia fermata.
Reazioni? Da parte mia mai, nemmeno da parte degli altri, anziani e no.
A casa via di cerottini per i graffi e giù di antidolorifico per le parti colme di lividi dai cazzotti. Davanti a mamma e papà il silenzio.
«Com’è andata a scuola?»
«Bene. Tutto come il solito.»
Il discorso a cena era sempre il medesimo. Guai ad accennare qualcosa sul fatto di avere dei fastidi nella classe. Fastidi alti dai dieci ai trenta centimetri in più di me.
Arrivò l’ultimo giorno prima delle vacanze natalizie. Una di loro arriva con un regalo e un bigliettino:“Impara a lavarti con questo. Qui si sente puzza di vacca.”.
Aprii lentamente il pacchetto e al suo interno vi trovai un set da bagno compreso di doccia-schiuma ai frutti di bosco, sapone solido alla pesca e shampoo alla mela verde. Era stata aggiunta una fialetta con polvere nera e un fiammifero unito con lo scotch. Sulla bottiglietta c’era scritto “Cianuro”. Mi voltai, sentendo tutti ridere, e un altro membro del gruppo mi gridò di darmi fuoco. Misi tutto in borsa, biglietto incluso, e me ne andai dalla classe. Non era la prima volta che mi capitava di uscire dalla classe senza dire una parola. Dopo qualche minuto usciva sempre l’insegnante incazzata per costringermi a rientrare e al mio rifiuto scattava la nota. Ne presi circa otto in quel primo quadrimestre.
Tornai a casa e la nonna trovò il “regalo”. La pregai semplicemente di non fare o dire nulla alla mamma, ci avrei pensato io non appena tornata a scuola.
Come no!
Il secondo quadrimestre andò peggiorando, fino alla mia reazione: aggressione in aula, un 2 vs. 1 quasi epico. Sentii i capelli tirare e il ginocchio cedermi, poi qualcuno aprì il mio diario e mi disegnò dei baffi sulla mia fotografia al fianco del mio papà. Lo vidi con la coda dell’occhio, ma scattai. In qualche modo riuscii a mollare qualche calcio non so dove alle due. Presi ancora botte. Alla porta notai un’insegnante e due bidelle che assistevano alla scena. Inutile pensare che una delle tre facesse qualcosa.
Una volta liberata, corsi nei bagni e mi chiusi dentro, ma una delle insegnanti di sostegno mi seguì, preoccupata e spaventata per via della folla che si era creata tra la classe e il corridoio. Davanti a lei, una delle sue “amiche” entrò in bagno e ne approfittò per sputarmi.
Tutti di corsa dal preside (assente). La vice raccolse le testimonianze mia, dell’insegnante di sostegno e delle altre tre presenti. Poi sentii “Hitler” telefonare a mia madre.
«Buongiorno. Sono la professoressa dell’Istituto Paolo Frisi, sono stata da lei in negozio. Volevo avvisarla che c’è stata una rissa a scuola che ha visto coinvolta sua figlia.»
«Oddio! Mia figlia come sta?»
«Signora, non si preoccupi. Sua figlia sta benissimo, è l’altra che si è ritrovata la faccia rossa e un grosso livido sulla gamba.»
Mia madre non sapeva più se mettersi a ridere o correre a scuola, ma l’insegnante ritenne più opportuno lasciarle continuare l’orario di lavoro. Preferì parlare con me direttamente, affiancata dalla psicologa della scuola. Dovetti raccontare della mia omosessualità, delle torture subìte nel corso dei mesi e dovetti mostrare a entrambe il regalo di Natale con tanto di bigliettino. Le lacrime e la rabbia (oltre alla paura) non mi permisero di parlare bene, ma le due capirono e collegarono i miei stati d’ansia durante le lezioni.
Non raccontarono a mia madre della mia omosessualità. Decisero di non farlo. Era una questione troppo delicata per parlarne così su due piedi, decisero che sarei stata io a dirglielo, nel momento esatto in cui mi sarei sentita pronta.
Finii l’anno da bocciata. Anche una delle due ragazze che mi aggredirono fu bocciata e me la ritrovai in classe l’anno dopo. Nel corso dell’estate imparai a diventare più stronza e a reagire in caso di bisogno, ma per il quieto vivere mio, dei miei genitori e dell’intera scuola, feci in modo di essere trasferita in un’altra classe.
In quella classe conobbi Lei. Bella, simpatica e gentile. Grazie a lei la mia vita cambiò radicalmente, imparai cosa significasse vivere per davvero e amare. Ma non ebbi mai il coraggio di esporle i miei sentimenti.
E oggi sono qui, a guardare l’orizzonte in attesa di qualcosa che non c’è mai stato.
La sto ancora aspettando. 
   
 
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