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Autore: KeyLimner    09/01/2016    1 recensioni
"Diomede apre gli occhi, per la seconda volta. Ma stavolta il suo sguardo abbraccia la grigia oscurità dell’Ade.
E di nuovo, il Vuoto.
Alza lo sguardo al cielo, e quasi implora… implora Zeus di farlo tornare fra le fiamme. Perché il nulla della morte è una tortura intollerabile, quando il dolore per un attimo l’ha fatto sentire così vivo.
Dal cielo non arriva alcuna risposta.
Sono secoli che gli dèi hanno abbandonato la Terra: da quando gli uomini hanno cessato di credere in loro e di offrire loro sacrifici. Adesso si vocifera che esista un nuovo dio, ma un Dio con la “D” maiuscola. Diomede non ci crede, non vuole crederci: l’idea di un unico Dio lo sconvolge. [...]
Ma Diomede ha anche sentito che nel regno di Dio brilla una luce infinita ed eterna. Sa che probabilmente si stancherebbe presto anche di quella, perché l’eternità è spaventosa e inconcepibile in ogni sua forma. Dopo tanti anni, è giunto alla conclusione che nessuno di noi desidera davvero la pace eterna: nessuno di noi è disposto ad abbandonare il travaglio. E se esiste un dio che ci ha dato il travaglio per spingerci alla brama della pace, ha fallito"
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Padre nostro che sei nei cieli
Restaci pure
Quanto a noi resteremo sulla terra
Che a volte è così bella
Con tutti i suoi misteri di New York
Seguiti dai misteri di Parigi
Che valgon bene quello della Santa Trinità
Con il suo piccolo canale dell’Ourcq
E la sua grande Muraglia della Cina
Il suo fiume di Morlaix
E le sue caramelle di Cambrai
Con il suo Oceano Pacifico
E le sue vasche della Tuilerie
Con i suoi buoni bambini e i suoi cattivi soggetti
Con tutte le meravigliose meraviglie del mondo
Che se ne stanno
Molto semplicemente sulla terra
Offerte a tutti quanti
Sparpagliate
Meravigliate anch’esse d’essere delle tali meraviglie
Tanto che non ardiscono confessarlo a se stesse
Come una bella ragazza nuda che di mostrarsi non ha ardire
E con tutte le orribili sofferenze del mondo
Che son legione
Con i loro legionari
Con i loro reziari
Con i signori e padroni del mondo
Ciascun padrone con i suoi predicatori i suoi traditori i suoi predatori
Con le stagioni
Con gli anni
Con le belle ragazze e i poveri coglioni
Con la paglia della miseria che marcisce nell’acciaio dei cannoni.
 
Fuoco.
Diomede spalanca gli occhi nelle tenebre… salvo che intorno a lui non ci sono più tenebre, ma un’accecante luce vermiglia.
All’improvviso, una terribile arsura. Era talmente tanto che non provava nulla di simile che gli ci vuole un po’ per capire di cosa si tratti. Ma ha a stento il tempo di rallegrarsi di quella sensazione così umana - dopo decenni passati a vagare come ombra insensibile - che quella sete bruciante inizia a divorargli il petto dall’interno, ricordandogli ciò che un tempo sapeva e che ormai aveva quasi dimenticato: un corpo può gioire e soffrire.
Subito, sente la pelle ardere in modo insopportabile. Eppure guarda la propria mano e vede che le fiamme lambiscono la carne senza consumarla.
Brucerà per sempre?
Diomede…
L’eroe si volta di scatto. Ma non vede nulla: nulla a parte il fuoco.
Là dentro si martira Ulisse e Diomede…
Ulisse… sono passati secoli dall’ultima volta che si è trovato in sua presenza. Ma ora si gira e lo vede: le labbra - un tempo sempre aperte, pronte alla persuasione e all’inganno - ora appaiono mute. Nello sguardo, la rassegnazione… e il suo stesso dolore.
… Dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta…
Il Palladio! Ricorda ancora quando lui e Ulisse lo rubarono. Ricorda quando pose le proprie mani sul marmo freddo e i suoi occhi incrociarono le iridi vitree della statua, e gli parve che la dea lo guardasse di rimando, con aria severa, come a lanciargli un ammonimento. Ma lui era un paladino della Grecia. E così, non si era lasciato intimidire neanche da quello.
Quando crede di essere sul punto di impazzire, la scena si oscura di colpo. Il tormento svanisce, insieme ad ogni altra sensazione.
Diomede apre gli occhi, per la seconda volta. Ma stavolta il suo sguardo abbraccia la grigia oscurità dell’Ade.
E di nuovo, il Vuoto.
Alza lo sguardo al cielo, e quasi implora… implora Zeus di farlo tornare fra le fiamme. Perché il nulla della morte è una tortura intollerabile, quando il dolore per un attimo l’ha fatto sentire così vivo.
Dal cielo non arriva alcuna risposta.
Sono secoli che gli dèi hanno abbandonato la Terra: da quando gli uomini hanno cessato di credere in loro e di offrire loro sacrifici. Adesso si vocifera che esista un nuovo dio, ma un Dio con la “D” maiuscola. Diomede non ci crede, non vuole crederci: l’idea di un unico Dio lo sconvolge. Cosa potrebbe succedergli se non riuscisse a conquistarsi l’amore di quell’unico Dio? E chi provvederebbe a difenderlo dalla sua tirannide qualora si comporti in modo ingiusto verso di lui? Sotto le mura di Troia, gli dèi combattevano al fianco degli eroi e si lanciavano gli uni contro gli altri per difendere i loro protetti, ma solo il Fato poteva decidere chi avrebbe avuto la meglio. Sotto il cielo dell’unico Dio, gli uomini sono soltanto una brulicante massa inerme, piegata ad un unico volere senza via di scampo.
Ma Diomede ha anche sentito che nel regno di Dio brilla una luce infinita ed eterna. Sa che probabilmente si stancherebbe presto anche di quella, perché l’eternità è spaventosa e inconcepibile in ogni sua forma. Dopo tanti anni, è giunto alla conclusione che nessuno di noi desidera davvero la pace eterna: nessuno di noi è disposto ad abbandonare il travaglio. E se esiste un dio che ci ha dato il travaglio per spingerci alla brama della pace, ha fallito, perché fra quelli che lo meriterebbero - e anche fra quelli che non lo meriterebbero - sono in pochi a voler davvero andare in Paradiso.
Eppure… darebbe qualsiasi cosa, adesso, per rivedere la luce.
Come può un eroe del suo calibro essersi ridotto in un simile stato? Proprio lui, che era riuscito in imprese per cui tanti avevano perso la vita… che aveva conquistato la funesta Tebe, preso l’imprendibile Troia. Il grande Diomede, la cui mano aveva impugnato la lancia che con l’aiuto di Atena aveva offeso persino l’invincibile Ares, che aveva ferito Afrodite strappando alle sue braccia il figlio Enea. Ricorda ancora l’icore che fuoriesce dal polso attraverso il peplo divino.
Ma un mortale che ha visto il sangue immortale di una dea non può restare impunito.
Gli impavidi guerrieri di Troia erano stati tanto superbi da pensare che la fedeltà delle loro mogli fosse abbastanza forte da sopravvivere ad oltre dieci anni di separazione senza venirne intaccata. Diomede era caduto nell’errore di molti, aspettandosi di trovare la sua Egialea ancora ad attenderlo ad Argo. Ma se anche non si aspettava di ritrovare la dedizione dell’amata del tutto immutata, certo non poteva aspettarsi ciò che in effetti successe: sua moglie, come i suoi sudditi, l’aveva completamente dimenticato.
Inutile la rabbia, la frustrazione, il dolore. Inutile inveire come inginocchiarsi, implorando ai piedi della folla ostile, e di colei che un tempo gli era stata più cara: le preghiere si scontravano con il muro impenetrabile del suo sguardo, gelido, impassibile. Spietato.
Era stato stolto a illudersi che il tempo si fermasse, e l’amata patria restasse congelata nello stato in cui l’aveva lasciata fino al suo ritorno. Ma un’accoglienza così crudele… no, non la meritava. Nessun uomo la merita.
Doveva essere stata tutta colpa di Afrodite. Era questa, dunque, la sua punizione - così si era detto.
“Ho capito!”, aveva gridato al cielo. “Mi pento di quello che ho fatto, dea! Mi consegno a te. Fa’ di me ciò che vuoi… puniscimi come meglio credi… ma, ti prego, rendimi la mia donna e la mia terra!”.
E però, anche allora, dal cielo non era giunta alcuna risposta.
Abbandonata ogni speranza, aveva vagato per mare come un’anima in pena, assieme ai suoi compagni Akmon, Lycus, Idas, Rexenor, Nycteus e Abas. Infine, era approdato in Italia.
Si era innamorato subito di quella terra. Entrato in contatto con le popolazioni locali, aveva insegnato loro i segreti della navigazione e dell’allevamento dei cavalli… chissà, forse un modo per trasferire in quel luogo sconosciuto una piccola parte della sua madreterra, per farne la sua nuova casa. Ovunque, era stato accolto con entusiasmo. E d’improvviso, non era più “Diomede il guerriero”, ma “Diomede l’eroe del mare”.
Aveva riposto la lancia nella stiva della sua nave, e dopo qualche tempo se ne era dimenticato. Tebe, Troia, il Palladio… appartenevano alla vita di un’altra persona, non certo alla sua.
Un giorno, si presentò alla sua tenda un giovane.
Dopo essersi inchinato al suo cospetto, questo, rialzatosi, disse: «Vengo in nome di Turno, re dei Rutuli. Un troiano di nome Enea, venuto dal mare come te, ma non con intenti altrettanto pacifici, attacca le nostre genti. Il mio re invoca il tuo aiuto, sapendo che già un tempo combattesti contro di lui sotto le mura di Ilio, e che il figlio della dea scatenò contro di te l’ira di Afrodite».
«Non lui», rispose Diomede, «ma io stesso scatenai contro di me l’ira della dea, profanandola ingiustamente. La guerra… la guerra cui mi sono votato per anni… ha causato solo sofferenze da ogni parte. Tebe… Troia… luoghi gloriosi per alcuni, che hanno immortalato i nomi di eroi illustri che rimarranno finché il sole risplenderà sulle loro tombe… per i più, solo luoghi di morte. Che ne è della gloria di Troia? Anch’essa ormai è solo cibo per gli avvoltoi».
Il messaggero sembrava interdetto. «Dunque non intendi aiutarci?».
«Dicesti bene, uomo, quando dicesti che sono venuto in questa terra in segno di pace. La guerra è stata la causa di tutte le mie sventure; la pace, invece, mi ha portato onore e ricchezze. Pertanto… no. La mia lancia non alimenterà il pianto delle madri e delle vedove. Non stavolta».
«Questa è la tua risposta definitiva, glorioso eroe? Il mio sovrano non ne sarà di certo felice».
«Il tuo sovrano», ribatté Diomede, «dovrebbe essere felice di porre fine al conflitto, anziché inasprirlo. Non ci sono vincitori in guerra: solo vinti».
A quel punto, il messo chinò il capo e se ne andò. Naturalmente, la guerra ci fu comunque, e vinse il pio Enea, fondatore della sanguinosa stirpe che avrebbe dato i natali a Roma. Ma questa è un’altra storia…
E mentre i Rutuli e gli uomini di Enea si scannavano nel Lazio, Diomede seguitava a girovagare per l’Italia fondando città e spingendosi sempre più a sud. Infine, giunse nella regione che sarebbe poi stata chiamata Basilicata - secoli or sono. Passeggiava per le pianure e le colline assaporando l’aria fresca, quando lo sorprese un vento improvviso. Non era stagione, e non si trovava neanche nei pressi del mare: doveva trattarsi di un segno. Seguendo il suo soffio, arrivò ad un roveto spinoso. Qui le raffiche cessarono.
“Cosa vuoi dirmi?”, gridò al firmamento. Poi abbassò lo sguardo verso la terra, trovandovi la risposta che il cielo - ancora una volta - sembrava non volergli offrire: una rosa. Una splendida rosa rossa solitaria, proprio in mezzo al roveto.
Stette immobile per qualche minuto, poi gli salirono le lacrime agli occhi. Si inoltrò fra le spine per recuperare quel fiore miracoloso, e quando finalmente lo strinse nel pugno, le sue mani erano ricoperte di piaghe… ma non gli importava.
Alzò di nuovo il volto alla volta celeste, ma stavolta non in cerca di qualcosa.
“Grazie, sacra Afrodite”, mormorò, “per avermi perdonato”.
Proprio dove sorgeva il roveto, fondò una città chiamata Venusìa, da “Venus”, il nome che la gente del posto dava alla sua dea. E più avanti, questa trovò il modo di esprimere la propria riconoscenza.
All’epoca Diomede si trovava in Daunia, dopo l’approdo nelle isole che a partire da lui sarebbero state chiamate “Diomedee”. Cercando terre fertili, si era spostato più a sud, imbattendosi nel popolo dei Dauni. Con costoro intrattenne fin da subito rapporti di amicizia, e in particolare con il re da cui prendevano il nome, Dauno. Un giorno stava sdraiato in riva al mare a contemplare le nubi, quando la sua meditazione venne interrotta da un riso improvviso di fanciulle. Alzò lo sguardo e le vide: un gruppo di giovani spensierate, che correvano su e giù per il rivo rincorrendo una palla di stoffa. E poi vide Lei.
I loro sguardi si incrociarono per un solo istante, ma fu sufficiente. Quando lo vide, la giovane si arrestò di colpo e lo fissò intensamente, in un modo che per una donna si sarebbe potuto definire persino sfacciato. Poi arrossì di colpo e chinò il capo, per scappare via terrorizzata. Diomede rimase folgorato dalla sua bellezza.
«Chi era quella ragazza?», chiese a un uomo del vicino villaggio, che proprio in quel momento passava di lì.
Questi sorrise. «Non farti sorprendere da re Dauno a guardarla in quel modo, o saranno guai per te. Quella è sua figlia, e le altre giovani le sue ancelle».
Diomede restò senza parole.
Fu così che quando Dauno venne da lui a chiedergli aiuto nella guerra contro il popolo dei Messapi, la sua risposta fu diversa da quella che aveva riservato al messo del re dei Rutuli. Vincendo il nuovo orrore che provava nei confronti della guerra, scese ancora una volta nella stiva della sua nave e impugnò le armi che non toccava più da anni per combattere al fianco di Dauno. E quando la vittoria sui Messapi fu sancita, e il sovrano gli chiese cosa desiderasse come compenso per il suo prezioso aiuto, non esitò a rispondere: “La mano di tua figlia”.
E la ottenne, con somma gioia di entrambi.
Ma anche tutto questo, caro Diomede, ora è polvere.
Gli uomini ti hanno dimenticato, e ormai neanche più le diomedee - i giganteschi uccelli in cui Afrodite aveva mutato i tuoi compagni alla tua morte - bagnano più la tua tomba con le proprie lacrime. Questo solo ora è rimasto di te: un’ombra senza più neanche la percezione della propria esistenza.
Diomede guarda il cielo… ma non c’è più un cielo, adesso, solo una cappa grigia e uniforme… guarda smarrito questa cappa in cui non riconosce più nulla e grida al vento la sua sofferenza. Una sofferenza a cui non ha più nemmeno la dignità di dare forma fisica.
Di fronte a questa straziante realtà, l’eroe china il capo al suolo, e i suoi occhi si gonfiano di lacrime.
Che fai, grande eroe? Tu che non temesti neanche la morte, ora che sei ombra e nulla hai più da temere, piangi?
Ma anche il divo Achille, ribatte rabbiosamente Diomede in cuor suo a quella vocina maliziosa, ma anche il grande Achille, che non tremò sapendo di imboccare un sentiero di morte certa, che lo imboccò pur sapendolo per ottenere un destino di fama immortale, non ebbe ritegno a piangere, quando una nera nube di strazio gli offuscava l’animo. Io ora piango il glorioso passato, perché è futile piangere le cose perdute dimentichi delle gioie presenti, ma non c’è nulla nel mio presente che io possa in futuro rimpiangere.
E mentre lacrime copiose gli rigano il volto, sente il verso di uccelli in avvicinamento. Alza il volto di scatto e li vede, gli spettacolari albatri, bianchi per l’età veneranda, che piansero a lungo la sua tomba sulla terra… richiamati ora dal suo pianto.
E finalmente, Diomede sente di nuovo la voce di Afrodite, e gli sembra che la sua mano, la mano che un tempo aveva offeso, si protenda verso di lui. Così, quando uno di quegli albatri si posa davanti a lui e lo fissa in silenzio, quasi in attesa, non esita a levarsi e montare sul suo dorso.
«Portami via. Portami via di qui», ordina al suo Akmon, che ha riconosciuto subito, nonostante il tempo trascorso.
E così il grande Diomede cavalca il vento unito al magnifico stormo delle diomedee, vincendo la gravità dell’Ade, e vola verso la sua libertà. Ma mentre sorvola i Campi Elisi, scorge una figura familiare, ed ordina ad Akmon di abbassarsi. Giunto a un palmo da terra, saluta Achille, che siede su un masso con aria grave, i capelli dorati sparsi lungo le forti braccia che reggono una cetra. Ai suoi piedi, sdraiato al suolo, Patroclo, che fissa il cielo senza espressione. E così sono finalmente riuniti, pensa Diomede, ricordando poi con dolore che le ombre non possono abbracciarsi.
«Achille!», grida, ed egli si gira verso di lui. «Achille, vieni via con me. Voliamo verso la terra, che i vivi calpestano ancora con gioia mentre noi da millenni piangiamo le nostre amare sorti».
Ma il biondo acheo, scuotendo il capo, così risponde: «Questa» - ed indica la cetra che ha finalmente smesso di suonare - «Questa è la cetra che cantò il mio e il tuo ardore, e che ancora risuona nel petto di molti. A lei mi sono votato, e le farei torto se voltassi le spalle alla mia promessa. Tu, uscito dalla rocca in fiamme dei Teucri, abbandonate le stragi, trovasti la pace. Io rinunciai ad essa il giorno stesso in cui posai il piede sul suolo di Ilio. Cosa vai a cercare, sulla terra, mio nobile amico? Sono passati i tempi dorati del nostro trionfo, e ora di noi resta che il ricordo. Dove vai, straniero, in una terra che non ricorda più l’onore di cui vivemmo, l’onore di cui visse la Grecia?».
Ma Diomede si alza in piedi e scuote il capo. «Non per vivere di ricordi, Achille, vado a calcare la terra, ma per crearne di nuovi. Il passato è passato, è vero. Ma finché il sole brillerà sul nostro capo, ci sarà sempre qualcuno pronto a lasciare al suolo le proprie impronte… anche se le impronte se le divora la terra, e la terra è polvere che vola via col vento».
«Allora ti auguro la più grande felicità sulla terra, Diomede».
L’eroe china il capo in segno di rispetto, e monta di nuovo sull’albatro. Un istante dopo, è già in alto nel cielo. Sotto di lui Achille ha ripreso a suonare la sua cetra.
Come stirpi di foglie; così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.
E salendo sempre più in alto, d’un tratto Diomede intravede i raggi di Aurora dalle rosee dita, e per la seconda volta in quel giorno, i suoi occhi si riempiono di lacrime.

citazioni:
Iliade, Omero
Inferno, Dante
Pater noster, Prévert
  
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