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Autore: Mari Lace    10/01/2016    5 recensioni
«Se tra due persone c’è un problema, aprire il discorso non significa essere in torto, significa che si tiene abbastanza a quel rapporto da cercare di risolvere.»
Stella si è resa conto un po' tardi di aver praticamente perso la sua migliore amica. Lei sembra così distante ora...
Può ancora considerarla amica? e come deciderà di comportarsi?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Riflessioni su un'amicizia spezzata'
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Amiche?



«Se tra due persone c’è un problema, aprire il discorso non significa essere in torto, significa che si tiene abbastanza a quel rapporto da cercare di risolvere.»

“…immagino che non le importi, allora” si disse Stella dopo aver letto quella frase. Posò il quaderno sul tavolo, sospirò e si abbandonò all’indietro sulla sedia girevole, che si spostò leggermente sotto la spinta del suo corpo.

Quel che aveva posato era un quadernino, più che un quaderno; piccolo, nero, era evidente che fosse usato e anche molto, ma era tenuto in condizioni perfette. Stella lo aveva da tre anni. Ogni volta che una frase la colpiva, ve la scriveva, poco importava che fosse una citazione, una perla di saggezza popolare o semplicemente un suo pensiero. Lo portava sempre con sé e a volte lo rileggeva in cerca d’ispirazione.

Era inizio settembre, lei si trovava nella stanza da pranzo; i suoi genitori erano andati a teatro quella sera e lei era rimasta sola con i suoi pensieri. Sfogliare il quadernino le era venuto naturale, in genere l’aiutava a distrarsi dai suoi problemi, ma quella particolare frase l’aveva fatta pensare esattamente a chi voleva togliersi dalla testa per un po’: Valeria.

Aveva conosciuto Valeria in quarto ginnasio, ed era subito scattato qualcosa tra loro. Erano migliori amiche da quattro anni, quello sarebbe stato il quinto. Avrebbe potuto esserlo, se non fosse stato che non aveva una conversazione decente con Valeria da mesi.

Non se n’era resa bene conto, all’inizio. O meglio, sì, qualcosa aveva notato, ma aveva sottovalutato il problema. Solo da poco si era resa conto di quanto fosse effettivamente grande la frattura che si era creata tra lei e la sua migliore amica.

L’aspetto peggiore di quella situazione era che la colpa era tutta sua.

Si era comportata come una perfetta idiota e l’aveva gradualmente allontanata da sé, senza però volerlo fare. Non si era comportata affatto bene con Valeria, e ora lo vedeva chiaramente. Perché? Non lo sapeva neanche lei.

Ripensava al passato e non capiva perché avesse agito così; si dava della stupida, ma non poteva cambiare quel che aveva fatto, non importa quanto profondamente ne fosse pentita.

Quindi, come se perdere la sua migliore amica non bastasse già di suo a farla star male, si trovava a dover fare i conti anche con il senso di colpa.

Aveva fatto tutto da sola. L’unica cosa che avrebbe potuto “imputare” a Valeria era non aver fatto nulla per impedirglielo.

L’aveva lasciata fare. Aveva osservato in silenzio senza cercare in alcun modo di fermarla.

Perché? Questo lo sapeva solo Valeria, ma non era una colpa. Semmai, un segno di disinteresse.

Se le importava, perché era stata zitta?

Ma Stella non accettava l’idea che non le importasse affatto. Non aveva senso. Forse, semplicemente, non gliene importava abbastanza.

“Resta il fatto che a sbagliare sono stata io. Valeria mi manca… e fa male…” scosse la testa, come a voler scacciare con quel gesto l’improvvisa voglia di piangere che l’aveva assalita a tradimento.

Che poteva fare? Doveva parlarle. Ma come?

Valeria, per sua stessa affermazione, odiava le cose serie.

E quella situazione, almeno dal suo punto di vista, era fin troppo seria.

Stella non odiava le situazioni serie, ma non sapeva gestirle. Non c’era abituata; quella situazione era completamente nuova per lei. Non aveva mai tenuto a qualcuno come a Valeria, prima.

Lei non era la prima amica che perdeva, ma era la prima che davvero non voleva perdere, realizzò in quel momento.

Sì, decisamente doveva parlarci. Non poteva aspettare che fosse l’altra a fare la prima mossa – anche perché era chiaro che non sarebbe successo. “Io ci tengo, io devo agire”, si disse.

Se lo diceva da giorni, ma non riusciva mai a decidersi. “Perché sono così… incapace?” si chiese retoricamente, arrabbiata con se stessa. Non che fosse una novità. Lentamente, si alzò, recuperò il quaderno e tornò in camera, rimandando di nuovo la questione.

Il rientro a scuola non l’aiutò a decidersi, anzi. Valeria si comportava come se niente fosse, come se fosse tutto perfettamente normale.

Ma non lo era.

Quell’ignorare la situazione disorientava Stella. Non capiva niente, aveva sempre più dubbi su cosa fosse giusto fare.

Ma doveva fare qualcosa? Non andava bene così, in fondo? Certo, non era la stessa cosa ma la situazione non era neanche drastica… magari con il tempo le cose sarebbero tornate a posto da sole.

No, sussurrava una voce dentro la sua testa, dovete chiarire. Parlale.

Stella ignorò quella vocina. Si sentiva in colpa, ma sembrava tutto così facile, quasi normale… perché rischiare di rovinarlo?

La risposta le giunse abbastanza presto, chiara ed inequivocabile.

Era un giovedì, in classe c’erano molti assenti. Epidemia? Forse, ma più probabilmente c’entravano le interrogazioni del giorno dopo. Stella si ritrovò Valeria come compagna di banco.

E l’illusione svanì.

Si era detta che andava tutto bene, che poteva tornare tutto come prima, che forse anche Valeria lo voleva… aveva mentito a se stessa.

Era confusa, non sapeva che fare e aveva sperato di non dover fare niente. Si era detta che, trattandosi di Valeria, i gesti valevano più di mille parole, e forse davvero non era il caso di parlarne direttamente. Si era sbagliata.

Standole vicina, l’avvertì chiaramente. Poteva parlarle, certo. Ma era come se tra loro due ci fosse un muro.

“È solo una mia impressione?” si chiese. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per conoscere i pensieri dell’amica – andava bene definirla così? –, ma non era possibile.

Così, eccola di nuovo al punto di partenza. “Devo parlarle.”

Intanto però, la sua indecisione le era costata un altro mese.

Uscendo da scuola, non andò alla fermata dell’autobus come faceva sempre. Non fece un tratto di strada con i suoi amici. Girò dalla parte opposta, troppo agitata per pensare logicamente e decisa a farsela a piedi. Da lì a casa sua le ci volevano venti minuti, circa, e in quel momento una bella camminata era esattamente ciò di cui aveva bisogno per calmarsi.

Camminare l’aiutava a lasciar correre i pensieri. Le permetteva di farseli scorrere tutti addosso senza focalizzarsi su nessuno. Almeno, normalmente funzionava così. Quella volta, non andò esattamente in quel modo. I pensieri scorrevano, certo, ma li avvertiva tutti distintamente, e quasi tutti le facevano male. Non aveva mai provato una sensazione così intensa. Che cos’era? Rabbia? Frustrazione? Odio per se stessa? Forse un misto di tutt’e tre, con sullo sfondo una profonda tristezza. L’unica cosa che sapeva per certa era che si sentiva così per la prima volta. Era come accecata, in balia delle emozioni, e aveva un’incredibile voglia di piangere… cosa che non poteva fare, perché a casa avrebbe potuto esserci qualcuno, e lei ci sarebbe arrivata tra poco, e non aveva intenzione di farsi vedere da nessuno in quelle condizioni.

“Posso pure parlarle, ma a questo punto che spero di ottenere? Nulla. Ho perso troppo tempo, fatto troppi sbagli… non sarà mai come prima.”

Si strofinò bruscamente l’occhio con una manica della felpa. Tutta quella negatività non l’aiutava minimamente, se ne rendeva conto, semplicemente non riusciva a scrollarsela di dosso. Respirò a fondo una, due, tre volte. “Devo calmarmi, devo calmarmi, devo calmarmi” iniziò a ripetersi. Accelerò il passo e lo sforzo fisico fece il miracolo; quando arrivò a casa, si era calmata un po’.

Era riuscita a scacciare la rabbia, ma insieme ad essa erano andate via tutte le sue energie. Si sentiva completamente svuotata, ora, ed improvvisamente stanca. Era ora di pranzo, ma non aveva fame. Per fortuna, constatò entrando in casa, sua madre non era ancora tornata. Lentamente, con la mente annebbiata, entrò in camera sua e raggiunse il letto. Tempo di poggiare la testa sul cuscino e scivolò nell’incoscienza. Più che dal sonno, fu vinta da un torpore confuso.

Non sognò niente, o almeno quando si svegliò non se ne ricordava. Si mise seduta, ma forse fu troppo brusca, perché ebbe un giramento di testa e dovette tenere gli occhi chiusi per qualche secondo prima di poter guardare la stanza senza vedere i mobili muoversi intorno a lei.

Ancora non pienamente lucida, si guardò intorno. Il suo sguardo fu subito attirato dalla parete accanto al letto. Vi aveva attaccato varie cose; vecchi biglietti del cinema, alcuni poster, disegni, biglietti d’auguri… la maggior parte di questi ultimi era opera di Valeria.

Ne rilesse un paio, e un sorriso malinconico le incurvò le labbra. Era stato bello, essere amiche.

Più che triste, ora si sentiva nostalgica. Allungò una mano verso il comodino, dove solitamente posava il cellulare, poi si ricordò di averlo in tasca e corresse il movimento.

“Perché mi voglio così male?” si chiese scorrendo i vecchi messaggi con Valeria. Voleva ricordare. Passò più di un’ora a rileggere vecchie conversazioni, e quando finì si era fatta più bene che male. Aveva di nuovo le lacrime agli occhi, ma non per la tristezza. “Mi sono commossa per dei vecchi messaggi. Sono un caso perso” sentenziò tra sé, ma sorridendo.

Il rimpianto c’era. Ricordare quanto speciale fosse stato il loro legame le aveva inevitabilmente provocato un moto di rimpianto per il passato; tuttavia, non era quello il sentimento dominante.

Dominante, in realtà, non era la parola giusta.

La sua mente si era trasformata in un groviglio confuso di emozioni. Se le avessero chiesto “Come ti senti?” in quel momento, la risposta più sincera sarebbe stata “Non lo so”.

Ma che significava non lo so? Era stufa di non capire nemmeno se stessa. Cercò di concentrarsi.

Come già detto, c’era un po’ di rimpianto. Poi… era felicità quella? Era davvero possibile? Non essere felice, esserlo per dei vecchi messaggi, vecchi biglietti… l’avevano fatta sorridere a suo tempo, certo, ma come riuscivano a farla sorridere anche ora? La persona che li aveva scritti non pensava più niente di tutto ciò…

…almeno così doveva supporre. Non aveva nessuna prova del contrario.

“In realtà, non ho nessuna prova e basta. Sono tutte mie assunzioni. È successo tutto perché ho fatto delle assunzioni errate, e sto andando avanti sempre sulla base di ciò che credo di capire basandomi sulle sue azioni. È sbagliato.”

Si riscoprì stranamente determinata e, in qualche modo, piena di speranza. A Stella piaceva definirsi sognatrice realista, definizione che si dimostrò efficace anche in quell’occasione.

Da una parte vedeva che le cose non sarebbero mai tornate come prima. Lo sapeva.

Eppure, sperava che non fosse così, non poteva impedirselo.

Per una volta, la sua mancanza d’autostima le tornava utile; lei non era infallibile, quindi chissà, poteva anche sbagliarsi. Magari mezza possibilità di risolvere c’era.

L’arrivo di sua madre interruppe i suoi ragionamenti. Andò a salutarla, sforzandosi di apparire il più normale possibile. Ci riuscì.

Più tardi cenarono in silenzio, e quando tornò nuovamente a letto, Stella si stupì di trovarsi calma. Tutte le emozioni provate quel giorno erano gradualmente scivolate via, lasciandole una convinzione nuova. Recuperò il cellulare e aprì i messaggi.

– Ti va di fare un discorso serio? – digitò rapida. Il numero lo sapeva a memoria; inviò.

La risposta, una volta tanto, non si fece attendere. Un semplice “va bene”, ma andava benissimo. Mise via il cellulare.

Non sapeva cosa le avrebbe detto. C’erano troppe cose da dire; molte probabilmente erano superflue, ma sarebbe riuscita a capire quali?

L’unica cosa di cui era certa è che il giorno dopo sarebbe stata colta dall’ansia – cosa che avvenne puntualmente –, ma sapeva anche che andava bene così.

Le due ragazze non ebbero bisogno di accordarsi ulteriormente. La mattina seguente uscirono entrambe venti minuti prima del solito e raggiunsero, ognuna per proprio conto, una pasticceria a pochi metri dal loro liceo. Si erano date appuntamento lì per fare colazione talmente tante volte che vedercisi in quel frangente era sembrato ovvio a tutt’e due, nonostante la diversità della situazione.

Non entrarono; Stella appoggiò la schiena al muro accanto all’entrata e Valeria le si posizionò davanti. Come lei stessa aveva previsto, Stella non era tranquilla come la sera prima, però almeno era lucida.

Quel «discorso» molto probabilmente non avrebbe cambiato nulla; ne era conscia.

Non le importava – cioè sì, le importava; ma non al punto da farla rinunciare.

Sentiva che era giusto parlarle, provare a chiarire. Almeno non avrebbe rimpianto di non aver tentato quando poteva. In più, sentiva di doverglielo, nonostante tutto.

– Allora? – l’esortò Valeria. Stella si chiese cosa stesse pensando.

Prese un bel respiro e finalmente alzò lo sguardo, fissandolo in quello dell’amica.

Sì, forse non sarebbe cambiato niente. Ma forse no.

In ogni caso, le avrebbe aperto il suo cuore perché, che fossero amiche o no, Valeria era sempre Valeria.

Sorrise e cominciò.

– Tu… eri fantastica. –

  
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