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Autore: Chiccagraph    13/01/2016    2 recensioni
Se ti dico che tu “sei la mia persona”, forse non capisci.
Non sto parlando di anime gemelle. No. Parlo di qualcuno che ti sconvolge. Non ti sceglie. E non lo scegli. Arriva. Di qualcuno che entra nella tua vita e di cui poi non puoi più fare a meno.
Parlo di un amore che cresce senza che tu te ne accorga. Un amore che quasi combatti. Che non vuoi provare. E gli metti i bastoni tra le ruote. Lo allontani, lo maltratti e alla fine lo ritrovi ancora lì. Davanti a te intatto, senza un graffio. Lì che ti guarda e aspetta che tu capisca.
Parlo di qualcuno con cui il tempo non esiste. Che ti lascia senza respiro e che te lo toglie quando si allontana da te.
Diventa un’esigenza fisica. Una dipendenza.
Per certi versi una malattia. Veleno e antidoto allo stesso tempo.
Parlo di qualcuno che è i tuoi pensieri. I tuoi gesti. I tuoi respiri.
Parlo di qualcuno che è te.
•Grey's Anatomy•
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Addison Montgomery Sheperd, Derek Sheperd
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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I belong to you





Questa mattina sembrava una giornata come tante: pioggia, nuvole, le solite scartoffie sulla scrivania…
Insomma, la solita routine!
Poi la chiamata.
Sul mio cercapersone lampeggiava incessantemente la scritta 911.
Mi ricordo di aver posato il cappotto nell’armadietto ed essermi infilata di corsa il camice.
Quella chiamata improvvisa poteva significare solo una cosa: c’era bisogno di me, subito.
Mi sono diretta verso il pronto soccorso e sono arrivata in sala senza più aria nei polmoni per via delle scale che avevo fatto di corsa.
Ricordo di essermi guardata intorno per cercare di capire cosa stesse succedendo, il mio sguardo si era fermato sulla figura di un uomo che conoscevo. Karev continuava a farmi segno con la mano di avvicinarmi e non appena sono giunta al suo fianco ha iniziato ad espormi il problema.
Diagnosi: distacco della placenta.
Sono un chirurgo neonatale, il chirurgo neonatale più ricercato del paese, non per essere modesta, ma so di essere la migliore nel mio campo.
So perfettamente quello che devo fare, in ogni situazione.
So quando posso salvare una donna e il suo bambino, so quando devo prepararmi al peggio, come so, quando non c’è più niente da fare.
Sono certa.
Nel mio lavoro non esistono dubbi, incertezze, domande. Questa è sempre stata una mia qualità, non mi sono mai trovata nella situazione di non sapere cosa fare.
Ovviamente, mai prima di oggi.
Scientificamente sapevo che il distacco della placenta non fosse altro che una grave complicanza della gravidanza. Una complicanza che richiede un trattamento immediato.
Si tratta di un grosso coagulo di sangue che si forma improvvisamente tra la placenta e l'utero. Un ematoma che causa la perdita di aderenza della placenta con l'utero e quindi un suo distacco.
Se il distacco viene determinato nei primi due mesi, ma è presente attività cardiaca dell'embrione, alla donna vengono prescritte cure ormonali, raccomandazione di riposo e astinenza sessuale, sospensione dal lavoro e prescrizione di alcuni farmaci antispasmodici.
Se invece non viene rilevata alcuna attività cardiaca a livello embrionale, siamo in presenza di un aborto spontaneo.
Il distacco della placenta, però, può avvenire anche successivamente, ovvero durante il secondo e terzo trimestre di gravidanza e può essere accompagnato da perdite ematiche.
In questo caso c’è un'unica strada da percorrere: è necessario procedere con un cesareo d’urgenza.
A mente avevo ripassato la lezioncina e razionalmente sapevo quello che avrei dovuto fare, quello che però non sapevo, era come il mio corpo avrebbe reagito al fatto che questa donna fosse una mia amica.
Non era una persona qualsiasi, non era una donna di cui non sapevo nulla prima d’ora.
Era una mia amica.
Sapevo perfettamente che con il mio lavoro non mi era concesso di affezionarmi ai miei pazienti, casi alla Denny Duquette erano all’ordine del giorno e non potevo permettermi di andare fuori di testa come Izzie Stevens.
Io ero solida, salda, temprata.
Nessuna raffica di vento avrebbe potuto spezzare il mio ramo vitale, eppure in quel momento, mi sono chiesta se sarei riuscita a piegarmi anche questa volta senza spezzarmi.
Denise era una donna di quarantadue anni, con un divorzio straziante alle spalle e un ex-marito molto ingombrante.
A grandi linee era il mio alterego biondo.
Forse è per questo che mi sono così tanto attaccata a lei.
L’ho conosciuta due mesi prima del divorzio e da allora non ci siamo mai allontanate per più di qualche giorno.
La sua è sempre stata una gravidanza a rischio, il suo corpo seppur esteriormente perfetto, non era più in grado di portare avanti una gravidanza.
Noi donne spesso passiamo dal non essere pronte, perché troppo presto, a non poterlo più essere, perché troppo tardi.
La sua gravidanza era un po’ la mia, quel bambino rappresentava una rinascita per lei, il suo sì alla vita.
Quel bambino segnava il punto a capo di un capitolo abbastanza disastroso della sua vita e dava inizio ad un nuovo foglio bianco in cui ricominciare a scrivere.
Avevo bisogno anch’io di quel punto, avevo bisogno di quel bambino come dell’ossigeno.
Il mio stato confusionale durò circa dieci secondi: che siano stati fatali?
Ripreso coscienza di me ho ruggito i miei ordini e stringendole la mano mi sono diretta insieme al mio staff medico in sala operatoria.
È stato l’intervento più estenuante che io abbia mai fatto.
Dovevo scegliere: o lei o il bambino.
La sua rinascita non sarebbe stata più la stessa senza di lui, ma al tempo stesso come potevo privare quel bambino della sua mamma prima ancora di nascere?
Sapevo perfettamente cosa avrebbe voluto lei, ma io non potevo permettermi di perderla.
Il mio egoismo ha parlato per me e come un automa mi sono mossa e ho continuato quello che stavo facendo per salvarla.
Il mio imperativo: salvarla.

Il primo compito più difficile per un medico è trovare la forza di parlare.
Trovare la forza di dire quelle quattro parole. Quattro parole che ti cambiano la vita per sempre.
Guardo il tavolo davanti a me e non posso farlo, non ci riesco proprio.
Sento lo sguardo di Karev su di me, e come spesso mi capitava di notare in quest’ultimo periodo, mi sorprende e corre in mio aiuto pronunciando quelle maledette parole al mio posto.
Ora del decesso: 12:34
Il secondo compito di un medico è quello di riferire ai parenti l’esito dell’intervento.
Il dolore e la disperazione che leggi nei loro occhi ti penetra dentro, affonda nella tua anima come una lama di coltello. Sempre più giù, sempre più giù, scava in profondità, e sembra che non finisca mai.
Anche oggi è stato così.
E questa volta ho pensato davvero di non farcela.
E ancora non è finita, ma per oggi almeno sì.
Sono tornata nello spogliatoio per cambiarmi, ho strappato la cuffia dalla mia testa e mi sono diretta verso il lavandino per lavarmi nuovamente le mani lasciandole immobili sotto il getto dell’acqua fredda. Non importa quanto duramente le abbia strofinate, non posso lavare via la miseria che sento in questo momento, per quanto io voglia.
Dopo pochi minuti sono finalmente pronta per lasciare l’ospedale.
Ho bisogno di fuggire per un po’.
Ho bisogno di passare un po’ di tempo da sola, con me e la mia coscienza.


Infilo la chiave nella serratura.
Entro richiudendomi la porta alle spalle con un tonfo.
Mi ci appoggio per un momento e chiudo gli occhi, inspiro, espiro.
Gonfio la cassa toracica immagazzinando più aria possibile, il mio petto sale verso l’alto e il senso di oppressione che sento costringermi il cuore, scende verso il basso.
Assaporo il silenzio che regna sovrano e il piacevole tepore che mi circonda.
È una giornata insolitamente calda per questa città. Fuori ci sono circa 25 gradi, ma io ho comunque freddo.
A volte mi pesa la solitudine, ma è in momenti come questo che la apprezzo come non mai.
Ora ho un solo pensiero: una doccia calda.
Appoggio borsa e chiavi sul tavolo della cucina. Mi sfilo la giacca e la lascio cadere scompostamene sulla spalliera della sedia. Mi tolgo le scarpe abbandonandole in corridoio e cammino a piedi scalzi. Lascio che il vestito mi scivoli addosso, fino a raccogliersi in una pozza di colore sul pavimento.
Apro l’ acqua calda e mi infilo sotto la doccia.
L’ acqua mi scorre delicatamente sulla pelle, dividendosi in sottili rivoletti trasparenti, che scavano piccoli solchi tra lo schifo che la giornata mi ha lasciato addosso.
Mi sembra di essere immobile sotto il getto caldo della doccia da ore. Cerco di muovermi, ma il mio corpo si rifiuta di obbedire.
Stasera avrei davvero un sacco di cose da fare, ma la morte di quel bambino mi ha tolto ogni energia.
Questa sera mi prenderò cura di me e non farò nient’altro. Ogni tanto me lo merito, e poi devo ricaricare le batterie... domani mi aspetta un’altra giornata niente male.
Magari potrei darmi malata, sono certa che Richard capirebbe.
Annuso i vari flaconcini di shampoo posti nella doccia e alla fine decido di lavarmi con quello al muschio verde, balsamo alle alghe marine e bagno schiuma ai ricci di mare.
Si vede che sto attraversano un periodo marino!
Insapono con cura la testa e una volta finito la reclino all’indietro, infilandola sotto il getto dell’acqua, per lavare via la schiuma.
Non ho voglia di vestirmi.
Ancora in accappatoio vado in cucina e mi preparo due tramezzini al prosciutto e un Whittington tè ai frutti rossi.
Porto il tutto in salotto e lo appoggio sul tavolino di fianco al divano.
La spia verde del telefono lampeggia ad indicarmi che ci sono dei messaggi in segreteria, mi avvicino al comodino e premo il tasto play.
Un clic sommesso e il nastro parte diffondendo la voce nell’ambiente.

“Ciao sorellina, come stai? È da un po’ che non ci sentiamo e volevo sapere se va tutto bene. Ho saputo da Mark che hai avuto una giornataccia...”
Solo oggi, Archer?
La sua voce si è fermata ma so che in realtà è ancora in linea, sento il tuo respiro. “Ho parlato con Bizzy qualche giorno fa, dice che il Capitano è peggiorato e che in questi giorni non fa altro che chiedere di te. Ok, senti, non voglio angosciarti con questa cosa, quindi... quando vuoi chiamami. Ti voglio bene.”

Concentriamoci sul secondo messaggio.

“Sono io. Come stai?”

Mpf. Sai sempre tutto, eh? Potrei anche ribattezzarti “Il gazzettino del pettegolezzo”.
Anche se non gliene parlo, anche se faccio di tutto per non far trapelare i miei stati d’animo, lui riesce a capire.
Capisce sempre.
Ho cercato di allontanarlo in questi giorni, poiché nonostante siano passati sei mesi dal divorzio, mi sento ancora troppo legata a lui e alla sua presenza.
Ho innalzato una barriera tra me e lui che mi protegge dai suoi continui sbalzi d’umore, ma questo non è bastato.
Lui è sempre pronto a farmi da muro del pianto, ma io non voglio piangere.
Non voglio che mi veda più piangere, e purtroppo in questi giorni capita sempre più spesso.
Mi siedo sul divano raccogliendo le ginocchia al petto e osservo i tramezzini con un misto di disgusto e desiderio.
Accendo la TV, cercando qualche programma stupido e non troppo impegnativo.
Mi giro il telecomando tra le mani e inizio a fare zapping tra i canali per trovare qualcosa che catturi la mia attenzione.
Scarto il documentario sulle meduse in onda sul canale del National Geographic, l’ennesimo dibattito politico e il classico romanzo pseudo rosa dove la protagonista trova sempre l’uomo dei suoi sogni.
Faccio nuovamente il giro di tutti i canali e alla fine decido di fermarmi su uno a caso, qualunque esso sia.
A patto che non sia il canale meteo!
Il prescelto è un film in bianco e nero di cui non ricordo il nome, ma ne conosco a memoria la trama.
Finalmente il film è finito e con lui anche la mia voglia di guardare la televisione.
Spengo e mi sposto in cucina.
Avvolgo i tramezzini nella pellicola trasparente e li infilo nel frigorifero, tra lo yogurt e le birre.
Appoggio la tazza nel lavandino, spengo la luce e mi dirigo verso la mia camera.
Mi scopro a pensare che mi piace casa mia di notte, forse perché è l’unico momento in cui la vivo.
Il resto della giornata non lo passo mai dentro casa.
E’ così silenziosa e quieta, c’è odore di vaniglia nell’aria.
Questo pensiero mi rallegra.
Dlin dlon.
Il campanello della porta.
Guardo l’orologio appeso al muro della cucina, è quasi mezzanotte. Chi sarà mai a quest’ora?
Cercando di fare meno rumore possibile cammino verso la porta e una volta arrivata sollevo lo spioncino con due dita.
Il mio cuore si ferma, ma il mio viso resta imperturbabile. Stanco, risoluto, spigoloso.
Lascio scivolare il braccio lungo il fianco.
Apro.

«Che ci fai qui?»

Il mio tono è distaccato, ma non duro.
Non voglio che pensi che sia arrabbiata con lui, perché non è vero.

«Non hai risposto al mio messaggio. Sono venuto a vedere come stavi».

«Sto bene, ma sono stanca. Vorrei andare a letto».

«Ho delle novità per te».

Sai che nonostante tutto, il lavoro è il mio punto debole. «Non potevi venire domani?»

«Come preferisci».

Si gira su se stesso e fa per andarsene.
Cedo, come sempre di fronte a lui.

«Ok... entra».

Mi sposto di lato, lasciandogli lo spazio per entrare in casa. «Vuoi una birra?»

Mi comporto come un ospite educato. Mi sento finta.

«Sì, grazie».

Chiudo la porta e mi dirigo in cucina a prendere le birre mentre lui si dirige in salone.
Questa situazione mi stranisce.
Anche se continuo a ripetermi che andrà tutto bene, sembra che la cosa non funzioni.
Non va tutto bene. Proprio per niente.
Privo le birre del loro tappo e gliene porgo una. Nel farlo le nostre dita si toccano, non so se volutamente o casualmente, ma quel contatto innesca un bruciante calore che mi percorre infuocandomi le braccia, il petto, le gambe, arriva fino al cuore che si crepa.
Lo sento sciogliersi come se fosse fatto di lava condensata.
Dopo il suo tocco è magma liquido.
Non deve più succedere una cosa simile, potrei davvero perdere il controllo.
Cerco di simulare indifferenza, anche se so che non posso nascondermi ai suoi occhi.
Resto impietrita per qualche secondo e infine abbasso lo sguardo, non voglio che veda il potere che ha ancora su di me.
Mi siedo affianco a lui sul divano, pur mantenendo una certa distanza, e mi attacco alla bottiglia cercando di trovare sollievo nella birra.

«Da quanto tempo sei tornata a casa?»

«Da poche ore».

Silenzio.
Sta cercando di intavolare una conversazione, ma io non ci riesco. Non ci riesco proprio.
Continuo ad attaccarmi alla bottiglia di birra ormai quasi finita per prendere tempo, mentre lui continua a guardarmi, anzi no, fissarmi, con quello sguardo patetico che mi fa diventare matta.

«Avanti, dimmi tutto!»

Ci metto troppo entusiasmo nella voce. Il mio tentativo di simulare tranquillità fallisce miseramente.

«Denise si è risvegliata, il tuo intervento è riuscito alla perfezione e sei riuscita a salvarla».

«Ho ucciso suo figlio».

Mi rendo conto di aver parlato troppo, forse anche a sproposito.
Ho i pugni stretti e le nocche bianche.
Vorrei mordermi la lingua e allontanare i miei denti avvelenati dal suo collo profumato.
Vorrei attaccargli del nastro adesivo sulle labbra per fermare quella voce che non mi da tregua.
Le mie mani tremano dal nervoso.

«Addie...»

«No, non dire niente, Derek».

«Addie, non fare così... sai che non è colpa tua. Sapeva benissimo a cosa andava incontro, era consapevole dal primo giorno delle complicazioni che una gravidanza alla sua età poteva comportare».

Apro la bocca per rispondergli, ma le sue parole mi sovrastano ancora una volta.

«Non puoi addossarti la colpa di niente. Tu devi solo...»

«Sta zitto».

Mi prendo la testa tra le mani e otturo le orecchie spingendo con le dita sui timpani, come se bastasse per non sentire le parole che sgorgano dalla mia mente.

«Sta zitto. Sta zitto… Sta. Zitto».

Forse non dovrei essere così dura con lui, dopotutto è qui per me.
Mi alzo dal divano. Mi guardo intorno. Ho bisogno di qualcosa di più forte della birra.
In cucina ho una bottiglia di whisky per i casi di emergenza.
Ne verso due dita abbondanti in un bicchiere e tracanno tutto d’un fiato.
Un calore piacevole si irradia dalla bocca dello stomaco, ma non mi calma.
Continuo a tremare.
Ne verso un altro.
Sento che si avvicina.
Sono al terzo bicchiere, lo stomaco ormai è in fiamme, ma non riesco a fermarmi.
Fisso il vetro mentre mi riempio un altro bicchiere e lascio che il liquido scendi giù per la gola, sperando che possa seppellire i singhiozzi sotto uno strato di foschia.
Mi sfila il bicchiere dalle dita e io mi giro a guardalo infuriata.

«Che vuoi?»

«Non è così che si risolvono le cose».

«Non sarai di certo tu a dirmi come si risolvono o non si risolvono le cose. Sei l’ultima persona che può parlare, visto che sei il primo che scappa di fronte ai problemi. E ora vedi di andartene! Lasciami sola… non ho bisogno né di te né del tuo aiuto».

«No».

Il suo tono così pacato mi fa vergognare ancora di più.

«Ti prego, vai».

Lo sto quasi supplicando, voglio rimanere sola a leccarmi le mie ferite.
Sento le lacrime bruciarmi dietro le palpebre, ma non voglio farmi veder piangere da lui.
Non voglio che lui mi veda così.

«Non ti lascio qui così».

Il suo tono è dolce ma risoluto, devo raccogliere tutte le mie forze per fargli credere che sto bene o non se ne andrà mai. Anche se so che non uscirebbe di qui nemmeno se gli puntassi contro una pistola.

«Sto bene. Non preoccuparti per me. Ora mi metto a letto e domani sarà passata. Ora vai... vai, ti prego».

Lo scanso e mi dirigo verso la porta d’ingresso, sperando che lui mi segua.
In un modo o nell’altro riuscirò a farlo uscire.
Mi sento afferrare per il braccio; mi giro di scatto con lo sguardo atterrito.
Vorrei dire tante cose ma non riesco ad articolare le parole.
Le sue labbra precedono la mia lingua lunga, mettendomi a tacere.
Le lacrime non voglio più saperne di languire dietro le palpebre e cominciano a scorrere senza freni.
Mi circonda la vita con le sue braccia forti e protettive, attirandomi verso di lui.
Cerco di staccarmi, di allontanarlo, ma non ce la faccio.
Comportandomi da perfetta egoista lo lascio continuare, anzi, concedo alle mie mani di accarezzargli i capelli e intreccio saldamente le dita dietro la sua nuca.
Ho paura. Paura che tutto ciò possa finire. Che troppo presto lui si renda conto che stia facendo un errore, che mi pianti qui, così, in bilico tra la sofferenza e il dolore.
Vorrei che questi attimi non finissero mai.
La sua lingua cerca la mia. Le sue mani si fanno esigenti e curiose. Le sento muoversi lungo la mia schiena, su e giù.
Mi accarezza le spalle, i fianchi, le reni. Poi prosegue oltre, attirandomi ancora di più verso di sé.
Il mio corpo aderisce perfettamente al suo, come se insieme formassero lo stesso tutto, separato da un’invisibile mano crudele.
La sua stretta si fa sempre più solida, possessiva. Avverto una delicata pressione contro la coscia.
Ti voglio, anche tu.
Mi sto comportando da egoista vigliacca, so già che me ne pentirò, che domani starò peggio di prima, ma non voglio pensarci ora. Voglio solo godermi ogni singolo istante di questa sua visita, che potrebbe benissimo essere l’ultima.
Le sue mani si fanno sempre più audaci.
Una voce dentro di me mi dice di fermarle, ma non voglio darle retta.
Tutti i miei sensi sono all’erta e colgono ogni movimento, ogni variazione di respiro, ogni carezza... sento la cintura dell’accappatoio allentarsi, i lembi si scostano.
La mia pelle accaldata contro il tessuto ruvido della sua camicia mi dà una strana sensazione.
Mi sento sollevare da terra come se fossi senza peso, gli circondo la vita con le gambe nude e appoggio le mani sulle sue spalle.
Mi fermo un attimo e lo guardo negli occhi.
Ho il respiro corto, lo stesso vale per lui.
Vedo i miei occhi lucidi riflessi nei suoi, altrettanto lucidi.
Molto probabilmente dovrei chiedergli se sia sicuro di quello che sta facendo, se sia davvero certo di voler andare fino in fondo, ma non me la sento di farlo. Potrei rovinare tutto, e io ne ho bisogno, non ce la faccio a staccarmi da lui.
Ogni sua carezza è una goccia di rugiada per un fiore assetato.
Ogni suo bacio è linfa per anime morenti.
Mi sorride.

«Ti amo».

Il suo viso è a pochi centimetri dal mio.
Come non rispondergli anche se è un errore?

«Anch’io ti amo».

Lo sussurro, come se fosse un segreto.
Se lo dico più forte può diventare una realtà che va oltre questa notte.
Sigilliamo la nostra silenziosa promessa con un bacio, prima che altre parole vane possano infrangere il momento.
Chiudo gli occhi.
I pensieri razionali e le voci della coscienza spariscono per incanto, come le ombre negli angoli bui quando apri le tende.
Funziona solo l’istinto.
Continuando a baciarmi mi conduce nella mia camera, trascinandomi con lui in un mondo dove non esiste nessun altro all’infuori di noi.
I miei piedi toccano terra al lato del letto, giusto un attimo prima di raggiungere il materasso.
Sento le sue labbra premere contro il mio collo.
Le mie dita fanno scorrere agilmente i bottoni della sua camicia attraverso le loro asole e in pochi attimi raggiunge ciò che è già a terra.
Mi spinge delicatamente sulla cima del letto, mai rifatto.
L’ultimo ostacolo che resta fra noi viene rapidamente eliminato, e anche i suoi pantaloni finiscono sul pavimento.
Sento il suo corpo teso ed eccitato librarsi sul mio.
Le sue mani si avventurano sul mio corpo inarcato, tracciando scie di fuoco rese ancor più piacevolmente dolorose dalle sue abili labbra.
Sento la sua lingua accarezzare la parte più segreta di me.
Si può impazzire di piacere?
Mi aggrappo con entrambe le mani alla spalliera del letto, inarcando ancor di più la schiena.
Sto per morire.
Lentamente lo sento risalire.
Sono senza fiato.
Posso sentire il mio stesso sapore sulla sua bocca.
Stringe tra le mani i miei capelli ancora umidi e lentamente entra. I nostri corpi si fondono. Penso che forse non accadrà mai più, ma è il pensiero di un attimo... poi solo piacere.
Si muove dolcemente, mentre continua a baciarmi ogni centimetro della pelle del viso.
Con gli occhi chiusi rispondo colpo su colpo a ogni spinta del suo bacino, assecondandolo.
Ho perso i confini, il senso del tempo, i nostri corpi sono uniti a tal punto che non so più chi è chi e cosa è cosa.
Lo abbraccio e sollevo la schiena dal letto. Le sue mani si allacciano dietro di me all’altezza delle scapole, mi inarco su di lui legando le mie gambe al suo bacino.
Mi avvolge e mi riempie.
I nostri corpi sono così stretti l’uno nell’altro, siamo due gemelli siamesi divisi alla nascita.
Finalmente ci siamo ritrovati, e i nostri corpi incastrati come i pezzi di un puzzle, si muovono all’unisono.
Sento il suo membro scorrere dentro di me, e in un attimo la passione raggiunge quell’intensità che mi sembra di morire.
Vengo tra gli spasmi e le lacrime, abbandono la mia testa sulla sua spalla e mi stringo, se possibile, ancora di più al suo corpo accaldato.
Consumata e sporca dei nostri umori, mi sento finalmente serena.
A volte la notte è davvero breve. Specie per due anime che si amano.


Un raggio di sole, che filtra dalle tende mal chiuse, stuzzica le mie palpebre.
La luce mi riscalda il viso e mi ridesta dai miei sogni.
Mi giro verso il comodino alla ricerca della sveglia per guardare che ore sono.
Non è più al suo posto, probabilmente sarà rotolata sotto al letto insieme a chissà quante altre cose.
Mi giro alla mia sinistra e trovo Derek con la testa completamente affondata nei cuscini, il volto stanco e rilassato.
Mi muovo lentamente per non rischiare di svegliarlo, allungo una mano per terra e afferro la sua camicia. Me la infilo per coprire la mia nudità, e affondo le testa nel colletto per respirare il suo odore.
Carico la macchinetta del caffè e prelevo dal frigo il latte.
Tracanno un bicchiere tutto d’un fiato, così velocemente che dei rigoletti di latte colano dalla mia bocca per fermarsi sul mento.
Sento una presenza alla mie spalle.

«Ti ho cercata nel letto e non ti trovavo, perché ti sei alzata?»

«Mi sono svegliata presto questa mattina e rimanendo a letto avevo paura di svegliarti».

«Da quando ti preoccupi di svegliarmi?»

Vorrei rispondere da adesso, ma non me la sento proprio di affrontare un’altra discussione di prima mattina.
Bevo le ultime due dita di latte che sono rimaste nel bicchiere e lo poso nel lavello.

«Ho preparato il caffè e in frigo c’è il latte fresco. Fai con comodo, io vado a farmi una doccia».

Non gli do neanche il tempo di rispondere che scappo dalla cucina e mi infilo in bagno.
Di nuovo l’acqua mi scorre sulla pelle accaldata.
Come ghiaccio secco il mio corpo fuma a contatto con l’acqua.
Ogni poro assorbe le gocce come linfa preziosa.
Sento il rumore della porta che si apre e neanche il tempo di girarmi che trovo Derek alle mie spalle.
Dovrei scansarlo, allontanarlo, ma appena le sue mani si poggiano sulla mia pelle crollano tutte le mie difese.
Sei un diavolo tentatore.
Io non sono così forte come voglio far credere, e lui, questo, lo sa benissimo. Purtroppo.
Sa che corde sfiorare per farmi sciogliere, mi conosce troppo bene.
Non c’è resistenza che io possa opporgli in queste condizioni.
Qualunque cosa io faccia servirebbe solo ad acuire ulteriormente questa sua dolce tortura.
Vorrei resistergli, lo vorrei davvero.. Con ogni singola particella del mio essere.
Ma come posso essere forte e respingerlo se appena mi tocca la mia mente se ne va per conto suo, protesa verso di lui alla ricerca del piacere assoluto?
Le sue labbra sono nuovamente sulla mia pelle, le sue carezze si fanno più audaci e lo sento nuovamente muoversi dentro di me, a colmare il vuoto.
Il vuoto che mi sento dentro, quel senso di solitudine che accompagna ogni mio giorno.
La solitudine, anche quando hai qualcuno al tuo fianco è tossica. Io lo so bene.
Esco dalla doccia ancora più spossata di prima.
E’ tardi, finirò di correre come una pazza anche questa mattina per arrivare in orario a lavoro.
Vestita e truccata sono sulla porta d’ingresso, raccolgo la mia borsa e il cappotto ancora a terra.
E’ ora di andare, chiudo la porta e siamo finalmente fuori.
Lo sento dietro di me.
Sento il tuo respiro delicato sul mio collo.

«Ci vediamo questa sera?»

La sua voce calda e roca mi giunge da dietro le spalle.

«Forse» gli rispondo senza neanche voltarmi.

Cammino per la strada a qualche passo da lui, passeggiamo uno a fianco all’altro come due sconosciuti per le vie della città.
Lontana dalle mura di casa, con la mia maschera di ferro addosso, mi sento più forte.


Un’altra giornata scorre lentamente sulla mia pelle, frastagliata da tagli invisibili alla vista. Un cerotto non basterebbe per coprirli tutti.
Ho bisogno di punti di sutura per ricucire la mia anima spezzata.
Medici e infermieri continuano a guardami come se fossi un’inferma, come se potessi rompermi da un momento all’altro, come se fossi un cristallo ricoperto di crepe perché scalfito troppo in profondità.
Mi fermo in caffetteria per prendere qualcosa per pranzo e poi mi ritiro nel mio ufficio, cercando di tenermi il più lontano possibile da quella stanza.
So che Denise vorrebbe vedermi, so perfettamente che non mi incolpa per quello che è successo, ma non sono ancora pronta.
Razionalmente so di aver fatto tutto il possibile per salvarlo, fisicamente mi sento uno straccio.
Con ancora il vassoi del pranzo in mano cambio idea e mi chiudo nella prima stanza di guardia disponibile.
Sono sicura che nascosta qui sarà più difficile trovarmi.
Neanche il tempo di formulare il pensiero che la porta si apre e vedo sbucare la sua testa.
Mi sorride dolcemente.
Quel sorriso. Una donna potrebbe perdersi in quel sorriso.
Muove qualche passo entrando anche lui nella stanza, lasciando la porta chiudersi da sola alla sue spalle.
Si siede al mio fianco, spostando di lato il cibo ancora intatto.
Allunga un braccio e mi tira al suo petto cullandomi dolcemente.

«Sapevo che ti avrei trovata qui».

Sono davvero così trasparente? È solo una sua dote quella di sapermi leggere come carta velina o la mia mente è accessibile a tutti?
Mi fissa negli occhi ancora arrossati e lucidi per via delle lacrime della sera precedente.

«Puoi piangere se vuoi, io sarò qui con te» mi sposta una ciocca di capelli dal viso e la incastra dietro l’orecchio. «Per te».

Come se le sue parole avessero premuto sull’interruttore del pianto i miei occhi iniziano a riempirsi nuovamente di lacrime.
I miei dotti lacrimali sembrano essere dotati di una quantità infinita di lacrime in questi giorni.
Tiro su con il naso e mi sento un vero pasticcio.
Sento il mascara colarmi per le guance lasciando una striscia nera al suo passaggio, il respiro si fa più pesante, gli occhi si appannano e in un momento mi ritrovo senza fiato a singhiozzare contro di lui.
Mi stringe la mano e continua a sussurrarmi frasi all’orecchio.
Non so cosa mi stia dicendo ma come sempre la sua sola presenza riesce a calmarmi.
Tiro su il volto e per un momento mi perdo nei suoi occhi ancora una volta.
Porto le mani sulla sua pelle e gli accarezzo la guancia prima di far scivolare in avanti i polsi e afferrargli il collo. Attanagliata a lui lo spingo su di me, fondendo ancora una volta le sue labbra con le mie.
Mi lascia fare e asseconda le mie mosse percorrendo il perimetro delle mie labbra con la lingua prima di approfondire il bacio.
Il bacio ci lascia estasiati e senza fiato, con le fronti appoggiate una sull’altra.
Questo è tutto quello che ci serve, questo contatto ci basta per sapere cosa significhiamo l’uno per l’altro.
Non servono parole, tra noi non sono mai servite.
Sposto la schiena e mi appoggio sul suo petto stretta nella gabbia delle sue braccia. Appoggio la testa e tiro su lo sguardo per incrociare i suoi occhi e nel momento in cui mi perdo in quell’oceano splendente, capisco.
Capisco di non aver sbagliato, di non aver mai fatto nessun errore con lui, perché lui è “la mia persona”.
Se lo guardo in silenzio ci vedo me stessa. E a volte questo mi fa paura perché è come guadarsi allo specchio, perché mi fa riflettere, perché capisco che devo cambiare, devo essere migliore di come sono.
Perché è la tua persona. E se salvi lei salvi te stessa.

Per quanto io possa provare a nasconderlo e per quanto io possa provare a combatterlo, la mia vita sarà sempre fortemente legata a quella di quest’uomo.
Siamo legati e stretti da un doppio laccio, un filo indissolubile; un conduttore ci tiene uniti nonostante le nostre vite non siano più quelle di una volta.
Ci saranno altri uomini, ci saranno altre donne, ma sono sicura che non potranno esserci altri Addison e Derek.
Non potremmo essere più quelli di un tempo, ci siamo feriti e calpestati troppe volte per poter tornare indietro... ma qui, nascosti in questa stanza, mi sento nuovamente sua.
Mi sento di appartenergli di nuovo come un tempo.
E non c’è niente di più bello al mondo di questa sensazione.


You’re the piece that makes me whole
I can feel you in my soul
I belong to you, you belong to me
Forever.










Nota dell’autrice:
Accipicchia che faticaccia è stata scrivere questa storia!
È ufficialmente uscita fuori la mia vena torbida e drammatica. Avevo voglia di scrivere qualcosa di diverso, qualcosa che fuoriuscisse dai soliti schemi delle mie storie e mi sono imbarcata in questa nuova avventura.
Inizialmente volevo essere più tecnica e parlare più specificatamente dell’intervento... ma nel mentre che scrivevo mi sono resa conto che le mie conoscenze mediche si fermano alla varicella e non mi sembrava il caso di scrivere baggianate o rintanarmi giorni e giorni su internet per capirci qualcosa di più.
Mi piace scrivere di Grey’s, ma non essendo minimamente il mio campo, e mai lo sarà visto che svengo alla vista di due gocce di sangue, mi trovo in difficoltà quando devo entrare troppo nel dettaglio di una procedura medica.
Mi sono fatta uno studio sul distacco della placenta e a grandi linee ho inquadrato il problema e l’eventuale risoluzione.
Spero di non avervi annoiato a causa della lunghezza della storia, che devo ammettere supera di gran lunga ogni altra cosa scritta prima.
Inizialmente avevo intenzione di dividerla in due parti ma lo spezzarla non mi convinceva, per questo ho deciso di lasciarla per intera in un unico capitolo, e farvi passare probabilmente una buona mezz’ora sulla pagina per leggerla tutta!
Questi per me sono Addison e Derek, un unico grande insieme.
Sono separati. Sono divorziati. E nonostante tutto si appartengono, per sempre.
Sono indecisa sul rating, perché non mi sembra così forte da essere rosso, ma al tempo stesso ho paura che mettendo l’arancione dia troppo poco peso a scene leggermente esplicite che potrebbero infastidire chi non apprezza questo tipo di scrittura.
Per il momento imposto l’arancione, se poi credete che non va bene lo cambio.

* Preciso che la frase sulla mia persona è ripresa da Grey’s Anatomy, come la descrizione della storia d’altronde.

Ancora una volta ringrazio tutte le persone che passeranno per di qua e spenderanno il loro tempo per leggere quello che la mia mente bacata crea, e soprattutto ringrazio tutte quelle che si fermeranno per scrivermi cosa ne pensano.
Un bacione a tutti, alla prossima!

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