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Autore: Mr Tambourine    13/01/2016    3 recensioni
"Incontrai Alice per la prima volta che mi stavo per inoltrare in una dura relazione asfissiante durata poco meno di due anni. Aveva due occhi, due puri pezzi di cielo..."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Incontrai Alice per la prima volta che mi stavo per inoltrare in una dura relazione asfissiante durata poco meno di due anni.
Aveva due occhi, due puri pezzi di cielo che creavano un bellissimo contrasto con la sua pelle un po' scura, ma non troppo, e i suoi capelli neri ricci erano cascate in cui sarei tranquillamente annegato di mia spontanea volontà.
Fumava una sigaretta nel freddo di Gennaio, appoggiata al muro, leggera come un mazzo di primule.
Me ne innamorai.
Le nostre strade continuarono però parallele come binari di un tram nella confuso traffico della vita.
Nel Giugno di due anni dopo, mi piacerebbe sapere per quale congiunzione astrale, mi venne a parlare e il suo sorriso invase il mio pomeriggio, la mia mente, i miei occhi tanto che iniziai a credere che, quel tramonto sulle montagne, fosse la manifestazione della mia gioia da parte di Dio a tutti i mortali.
Passammo una settimana a frequentarci assiduamente su quelle scale antincendio, testimoni del mio amore che rifioriva dalla neve dei miei sentimenti, che si scioglieva al calore della vecchia fiamma riaccesa. Le aprii le porte della mia anima, le snocciolai i segreti più profondi mentre lei galleggiava nella tempesta dei miei tormenti. E mi parlava delle compagnie abbandonate, dell'arte che ammirava e di cui era follemente pazza, della sua fede ora salda. Fede per nulla teorica e questo discorso mi fece salire una malinconia incredibile, una tremenda invidia perché questo la rendeva - nonostante tutto - felice.
Era malata. Era anoressica. Era una bambina gracile nei suoi vestiti abbondanti ma con una mente sicuramente molto più sviluppata di una diciassettenne qualsiasi. Aveva le braccia sottili e le gambe si perdevano nei pantaloni un po' retrò. Le labbra, di un rosso spento ma passionale, si muovevano veloci mentre mi parlava delle sbornie che voleva dimenticare, in cui non si riconosceva più. Erano state la sua ricerca fallimentare di fuga da una realtà che la opprimeva. E cambiava discorso perché ora aveva incontrato quella cosa. E io la interrompevo, la interrompevo sempre perché volevo capire quella cosa che non aveva mai il tempo di dirmi. E mi raccontava che aveva visto quella cosa negli occhi della gente che aveva conosciuto. E io quella strada non la trovavo mai. È questo che mi riempiva di malinconia e mi mandava fuori di testa.
Bevevo, nel tempo spesso mi è capitato di bere, con i miei amici senza Dio - o così dicevano - e progettavamo la svolta della nostra vita al tavolo di un bar e di perdersi in terre desolate. Ma questo non accadeva mai in un pub che ci ricordava la Scozia e così bevevamo perché queste cose ci investissero quando meno ce lo saremmo aspettati.
Quelle sere bevevo per sostenere il suo sguardo, per trovare le parole che esprimessero la guerra tra ricordi e aspirazioni che avevo nella testa. Bevevo per avere il coraggio di raccontarle l'angoscioso dramma di vivere che mi impediva di dormire, svegliandomi nella solitudine di una camera buia. Poi la notte fumavo nel letto, cercando di fermare quella tachicardica paura di amare, di amare Alice e la vita stessa. Quel bellissimo fremito che nasce dai piedi di un carcerato e riempie tutto il corpo di tristezza, il desiderio di bersi l'esistenza fino all'ultimo sorso. Il desiderio di toccare le stelle.
E quando qualche settimana dopo l'ho guardata dormire in quella piccola stanza d'albergo ero così ubriaco che pensai davvero di aver visto un angelo, sfinito per il continuo vagare in un mondo troppo crudo per la sua natura divina, riposare tranquillamente raggomitolato sopra le coperte.
Avrei venduto l'anima al diavolo per sapere cosa stesse sognando. Avrei voluto svegliarla per chiederglielo, per baciarla, ma era troppo bella nel suo pigiama stretto che lasciava intravedere la pancia, le cosce ossute, i seni. Senza essere volgare. La baciai in fronte e me ne tornai nella mia camera dove con un amico continuai tutta la notte a parlare di regine di picche, chiederci se i netturbini avrebbero pulito le nostre coscienze alle quattro del mattino. Ascoltammo Bob Dylan fino alle prime luci dell'alba.
Il giorno seguente prima di partire mi salutò, ignara della mia barcollante intrusione mistica, con il più bel sorriso che ci si possa aspettare da quel viso scavato. Le occhiaie, scure come i ricci che le scendevano sulle spalle, facevano da sfondo al bianco candido dei denti che mi brillavano in faccia. Era l'incarnazione della guerra interiore fra demoni e santi che lasciava la mia testa come un campo di battaglia.
Mi prese la mano e mi guardava dolcemente negli occhi come una madre guarda il suo bambino dopo un incubo. La sua mano piccola nella mia, grande, era un uccellino fragile appena nato nel suo nido naturale. Non sarebbe mai morta. Avrei voluto farla girare come una principessa ballerina, ma la mia mente era un funambolo sulla corda sottile della fantasia. E sognavo di volare a Zanzibar a fondere i nostri corpi in un eterno ballo lento sulla spiaggia arancione alla luce di un fuoco vivo. Di vederla spogliarsi nel mare al chiaro di luna. Di svegliarmi con lei accucciata sul petto e perdere le dita, la testa nelle onde nere dei suoi capelli. Imprimermi quell'immagine come una polaroid nelle sinapsi a lungo termine. Ma ogni movimento mi avrebbe fatto ricadere dalle nuvole. Poi salì sul pullman e con lei e le sue valige se ne andò anche la mia voglia di ridere. Rimasi a guardarla allontanarsi, fermo come una statua di bronzo. Mi accesi una sigaretta e addio. Era già lontana nell'orizzonte.
Passai la notte seguente insonne a leggere poesie di Baudelaire, rappresentazione più elevata e ottocentesca dei miei stati d'animo. Aspettai l'alba e le scrissi un messaggio tanto sincero quanto banale in cui le esprimevo il desiderio di averla al mio fianco a parlarmi di come Van Gogh sarebbe riuscito a immortalare l'immensità di quello spettacolo.
Trascorsi l'estate tra alti e bassi, estasi e noia. Ero sempre a casa di un mio amico e - tra discorsi assurdi sulla nostra ricerca della fede, della verità e della felicità - gli chiedevo di insegnarmi a scrivere, con la stessa umiltà che aveva Neal Cassady quando nel 1947 bussava ossequioso alla porta di casa Kerouac appena uscito dal penitenziario. Lui scriveva fresche canzoni malinconiche alle ragazze più belle con cui aveva avuto affari amorosi, alle sue madonne personali. Io poesie scadenti ma sincere. Bevevamo vino economico e whisky pesante, come perfetti intellettuali quali non siamo, per rendere fluide le lingue e la mente. Ci diedi davvero dentro come un anfetaminico. Parole piene di amore e rabbia. Le mie mani erano ancora intrise di Alice e cercavo di bloccare ogni pensiero sulla carta mentre ancora non capivo quella cosa di cui mi parlava sulle scale antincendio. E mi dissanguavo su quei fogli che ancora conservo da qualche parte in modo disordinato.
Durante un pranzo molto alcolico conobbi  quella che poi diventò la mia psicologa personale. Eravamo cinque maschi e tre femmine. Silvia era bellissima quel giorno, come tutti gli altri giorni. Ubriaca come me ci sedemmo sul balcone a fumare e mi raccontò la storia della sua vita e io le raccontai la mia, con una fiducia spontanea e inaspettata che non avevo mai visto prima. Mi raccontò dei suoi drammi familiari, il padre lontano con una nuova donna e le solite droghe. Quando parlava le usciva il peso che aveva nel petto e l'indifferenza per quella religione tenuta sempre a distanza.
Posso dire che me ne innamorai platonicamente in un modo folle. Era fidanzata con un ragazzo, un tossico dipendente da lei e dalle droghe. Piangeva quando lo scaricava e faceva scenate da film romantico scadente in cui minacciava il suicidio per tenerla con sé.
La sua presenza nella mia vita non rimpiazzò Alice. Mi donò però un nuovo porto in cui avrei potuto rintanarmi quando l'angoscia di vivere diventava insostenibile.
Quando tutti se ne andarono e rimasi solo con il mio amico e la sua ragazza, scrissi un messaggio lunghissimo ad Alice in cui le chiedevo di uscire perché dovevo raccontarle di una cosa. La invitai in città alta a Bergamo e iniziai a risparmiare soldi per offrirle qualcosa. Ma lei era sempre occupata con i suoi libri di scuola e la sua noia.
Finalmente riuscimmo a vederci dopo circa una settimana.
Era il nostro primo appuntamento ufficiale. Ero agitato e eccitato alla massima potenza. Saltavo da una parte all'altra della casa, parlavo vomitando la mia felicità. Mi vestii impeccabilmente come poche altre volte nella mia vita e presi il pullman, intascandomi i soldi del biglietto. Ero riuscito a racimolare quindici euro e pochi centesimi per la serata. L'appuntamento era nel bar più antico di città alta per le nove e mezza. Arrivai con cinque minuti d'anticipo. La aspettai appoggiato ad un palo della luce e la mia ombra proiettata per terra mi teneva compagnia. Mi accesi una sigaretta per calmarmi. Dopo venti minuti non era ancora arrivata, ogni maledetta utilitaria sembrava quella Polo grigia che non sbucava mai dalla salita. Qualche coppia seduta sulle panchine si baciava, si abbracciava, si teneva per mano, sorrideva a quella serata senza nuvole. Inizia ai spazientirmi e l'agitazione continuò a crescere. Fumai cinque sigarette entro le dieci. Finalmente arrivò e la mia calma andò definitivamente a farsi fottere. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Elegante come una damigella d'onore ad un matrimonio, ma non appariscente. Aveva un vestitino color pastello. Sembrava un ciliegio in fiore nella mediocrità della gente che camminava indifferente a quello spettacolo mozzafiato. La guardai per tutto il tempo mentre mi veniva incontro sorridendo. Ero così immerso in quella visione floreale che mi dimenticai di dirle quanto dannatamente fosse bella. Era davvero bella cazzo! Attraversammo tutta la cittadella medioevale e la ascoltavo ammirato mentre mi parlava dei disegni che aveva fatto per scuola e delle tecniche che aveva scelto. Era davvero brava, sapeva bene quali erano i piccoli accorgimenti che rendevano fantastici i disegni. Bastava guardarle le cose, fino allo sfinimento.
Ci infilammo in un bar vuoto. Eravamo solo noi, una cameriera che non aveva perso ancora il suo fascino nonostante l'età e una musica anni settanta che riempiva l'aria dando una atmosfera nobile al pub. Alice continuava il suo modo astemio di concepire le serate e non prese neanche una Coca-Cola o cosa ne so. Spesi da solo tutti i quindici euro in birre e whisky. Le parlai che avevo visto un esibizione di Marina Abramovic, che mi era venuto un attacco di panico ed ero corso via dalla mostra. Che mentre piangevo agitando le gambe pensavo a quanto sarebbe stato bello essere guardato come faceva lei. E che una volta era successo. Era un pomeriggio d'estate e il sole tramontava sulle montagne, sotto la supervisione di un dio regista che realizzava il suo capolavoro quotidiano. E che avevo bisogno di essere guardato ancora da Alice ogni giorno con quel suo amore materno e fragile che solo lei sarebbe riuscita a darmi. Se solo avesse voluto. Uscimmo e avevo le gambe imbranate. Allora mi prese sotto braccio e camminammo lungo le mura guardando quelle miliardi di luci accese nella pianura che si estendeva vasta come un tappeto persiano sotto di noi. Ci sedemmo su una panchina e le chiesi cosa fosse per lei l'amore. Non mi rispose. Iniziò a raccontarmi che ultimamente continuava a immaginarsi chi sarebbe andato al suo funerale. Se qualcuno avrebbe pianto o se solo era una presenza obbligata. Le dissi che speravo di morire prima io, che non ci sarei andato al suo funerale. L'avrei ricordata in un religioso silenzio in cima al mondo per essere più vicino a lei che cantava fra le schiere angeliche. Stupidamente non la baciai.
Era l'apice della sua tristezza e io non sarei mai riuscito a salvarla. Avevo da offrirle solo un abbraccio. Avrei potuto prenderla per mano.
Allora mi feci coraggio. Avevo preso due biglietti per portarla alla Scala. La invitai come un gentiluomo avrebbe invitato la sua dama. Seguì un momento in cui non ci dicemmo nulla e io la guardavo speranzoso intuendo però la sua risposta. Mi prese per mano e mi disse con l'innocenza di un bambino, tutto d'un fiato, con un sorriso che lasciava trasparire una profonda tristezza: "Gio, non voglio né usarti né illuderti quindi non mi sentirei a mio agio a venire. Mi spiace. Giuro che mi piacerebbe molto e ti ringrazio tantissimo del pensiero". Poi mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò senza aggiungere nulla, senza voltarsi.
Rimasi seduto su quella panchina. Mi sembrava di esserci stato per ore. Continuai a domandarmi, ci sarebbe mai stato un campolungo cinematografico? Eravamo bellissimi.
Andò a finire che ci portai Silvia alla Scala e fu una serata magnifica, indimenticabile. Lei era una streghetta attraente nel suo vestito nero, io uno scappato di casa con un papillon rosso e un cappello di paglia. Ci sbronzammo con birre del supermercato e fra le mitragliatrici dei poliziotti davanti al teatro ci rinnovammo il nostro amore sempre platonico, ma bello e dolce che non avrei mai cambiato.
Ma ora nelle notti solitarie quando sono seduto nel letto a scrivere poesie malinconiche o speranzose, penso ancora ad Alice e alla noia che la travolge dal nulla. Penso a come sarebbe andata a finire se tutti e due non avessimo avuto questi problemi esistenziali, adolescenziali. A come sarebbe stato se ci fossimo incontrati più grandi. E penso a Dio, lo bestemmio dolorosamente. Penso a quelle maledette stelle sempre lì sopra le nostre teste, in ogni qualsiasi schifoso posto del mondo ci troviamo. Penso alla faccia che aveva quando la vidi l'ultima volta. E penso che eravamo bellissimi.

   
 
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