Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: SunVenice    14/01/2016    3 recensioni
I Sassonia sono una famiglia. Forse poco ortodossa, forse un po' disastrata, incasinata, poco equilibrata, ma nella buona o nella cattiva sorte è sempre unita.
Nella buona e nella cattiva sorte.
Nota: storia partecipante al Alley's awards for your one-shot di Down Hanna's Alley
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

1.

 

Laddove gli amici non arrivano, la famiglia c’è.

 

Prima del Grande Cataclisma io, mamma e Allegra vivevamo tutti insieme sotto lo stesso tetto.  Ogni giorno nel nostro giardino, quasi facessero a turno, c’era sempre qualcuno fuori casa. Zia Noemi e zia Diana chiacchieravano, o ci provavano, davanti ad un cespuglio di ginestre in modo quasi continuo, per lo meno zia Noemi. Alle volte mamma chiamava in casa zia Diana, ma lei si rifiutava quasi sempre, tirando un angolo della bocca in un sorriso e bofonchiando un declino cortese e sofferente. 

Mia madre era una dei migliori psicologi del nostro piccolo paesino e lei un fascio di nervi che mi dava sempre l’impressione di essere sul punto di esplodere e scappare via in lacrime. Non ci fu mai un solo giorno in cui non vidi zia Noemi trascinarla a forza dal giardino fin dentro casa. 

Mi spaventai a morte la prima volta che la vidi.

Avevo 7 anni, Allegra invece ne aveva 9, ma tra i due mi ero sempre ritenuto il più coraggioso e una tirata unica di tutti i film horror della nostra videoteca senza che battessi ciglio era bastata a convincermi della cosa, salvo il fatto che da grande mi sarei dovuto ricredere a causa della mediocrità risaputa dei film in questione.

Zia Diana però non aveva nulla a che fare con qualche pellicola dell’orrore fatto con pochi spicci ed altrettanta fantasia.

Era pallida. Non quel pallore che solitamente si accomuna al preferire più l’ombra rinfrescante del parasole in spiaggia, ma quello esangue e malato di una persona in preda ad un’ansia perenne, come se, dietro ogni angolo, si aspettasse di veder spuntare un mostro pronto a divorarla.

Il primo giorno che la vidi in casa ero appena sceso dalle scale, entrando in salotto con ancora in mano il quaderno dei compiti che mi avevano rubato l’intero pomeriggio con una valanga di espressioni matematiche.

Mi sembrò un fantasma ricurvo sulla poltrona scura della stanza che gemeva sofferente, con il volto nascosto dai lunghi capelli neri e dritti tirati sotto il mento dalle sue stesse mani.

Non so se nello stupore del momento avessi lasciato scivolare via il quaderno, ma all’improvviso si girò verso di me ad occhi sbarrati, gonfi e tanto rossi da sembrarmi iniettati di sangue.

Corsi a chiudermi in camera mia più veloce di una lepre e solo all’ora di cena Allegra mi convinse ad uscire, dicendomi che il fantasma in questione era solo nostra zia e che si era messa a piangere a tavola tanto le era dispiaciuto avermi spaventato.

Tra un boccone e l’altro del delizioso stufato di carne di mamma la mia attenzione non si distolse mai dalla mia “nuova” zia-fantasma, nemmeno quando sentii Allegra e le altre ridacchiare per il fatto di vedermi tutto concentrato nello studiare la donna che avevo davanti.

Zia Diana comunque non sembrava avere i 30 anni che diceva di avere, anzi, pareva molto più giovane, forse a causa dell’aspetto debole, gracilino e del viso che, nonostante tutto, rimaneva bello pieno sulle guance.

Quella sera imparai molte cose su di lei: primo, i suoi occhi non erano nè rossi nè spettrali, ma di un verde tanto triste e scuro quanto lei; secondo, soffriva di una strana cosa chiamata nevrosi o qualcosa del genere; e terzo, anche se all’inizio mi era sembrata uno spettro, a cena non smise mai di guardarmi, sorridendo come un angelo.

Un angelo appena tornato dall’inferno e con le spalle tremanti.

Zia Noemi invece l’avevo conosciuta già prima di zia Diana: la prima volta che mi vide mi alzò da terra e mi riempì le guance di baci, provocando in me una reazione di cui non l’ho tutt’oggi perdonata, ovvero, bagnarmi i pantaloni.

Avevo solo 5 anni, ma la vergogna per l’accaduto mi perseguitò per parecchio, specie per via delle risatine isteriche di Giada e Tina, mie cugine e sue figlie maggiori, la prima di 2 anni più di me, la seconda di 4.

Furono la mia dannazione dal primo giorno e nulla impedì loro di soprannominarmi “piscione” finché non iniziammo insieme la scuola media.

Oltre a loro due, fortunatamente, c’era Dina, la minore tra le figlie di zia Noemi: una zazzera color mogano morbida e disordinata, due occhi tondi e azzurri, una voce sottile quanto un filo di polvere ed una benedetta propensione ad ascoltare.

Il giorno dell’incidente dei pantaloni lei non ridacchiò insieme alle sorelle, anzi, si mise accanto a me e, a testa china, mi tirò la maglietta con una mano, sussurrandomi:

“Scusale.”

Chissà perché, con solo quella parola mi fece dimenticare i miei propositi di raccogliere qualche ranocchia nel bosco adiacente e buttarle sulle loro teste.

A parte quel piccolo inconveniente dei pantaloni bagnati ebbi altre occasioni per conoscere meglio Giada, arrivando pure a farmela diventare simpatica, ma Tina preferiva starsene in disparte e rifarsi continuamente lo smalto, quindi non ci furono grandi sviluppi nel nostro rapporto.

La morale del nostro primo incontro fu che: Dina mi elesse, di comune accordo, suo compagno di giochi e lo stesso accadde per Allegra e Giada, mentre Tina, più grande, aveva già il suo giro di amicizie al di fuori della cerchia famigliare. 

Oltre a loro ebbi, però, croci ben più grandi da gestire: scoprii, la mattina del mio sesto compleanno, che zia Noemi non era la mia unica zia e che Giada, Tina e Dina non erano le mie uniche cugine.

Quando da chissà dove vennero a trasferirsi da noi zia Lara e le sue due figlie, Viola, la maggiore, e Aghata, la minore, la consapevolezza di essere l’unico maschietto della famiglia mi lasciò addosso un’angoscia indescrivibile.

Solo contro otto donne.

Nove, contando poi il successivo arrivo di zia Diana.

All’epoca non sapevo molto del fantomatico dio buono e misericordioso di cui mi parlavano e tessevano le lodi alcuni dei nostri vicini di paese, ma, se davvero esisteva, decisi che il suo odio per me doveva essere profondo.

Questa convinzione non fece che accrescere man mano che conobbi Viola - o meglio - man mano che mi difendevo da Viola.  

Ovviamente il nostro primo incontro non fu uno dei più felici, semmai ne abbiamo avuto uno.

Bastò uno sguardo e fu subito guerra dichiarata, almeno per lei.

L’urlo terrorizzato di Allegra mi avvertì giusto in tempo perché scansassi per un pelo il soprammobile a forma di gatto arruffato in origine posto sopra il tavolino centrale del salotto.

“Mi guardava in modo strano!” fu la sua giustificazione che comunque non le evitò di essere messa in castigo in un angolino fino all’ora di cena.

Non nego di averla scrutata un po’ più a lungo del normale, ma non era stata mia intenzione offenderla o farla sentire a disagio. Erano stati i suoi capelli biondi ad incuriosirmi: una chioma folta, lunga e disordinata tanto chiara da sembrare quasi bianca.

Con Aghata non andò granché meglio: feci con lei lo stesso errore che avevo fatto con Viola, cercando stavolta di capire come fosse possibile che esistessero dei capelli tanto rossi da far sembrare quelli di Giada di un comunissimo arancione. Lei però preferì scoppiare a piangere, spintonarmi all’indietro e rifugiarsi con la testa sulle gambe di zia Lara.

 “Clara…” disse verso mia madre con sguardo severo “… Archibald dovrebbe migliorare un po’ i propri modi.”

Zia Lara non fu mai la mia preferita ed io, Viola e Aghata ci facemmo battaglia per il resto della nostra vita.

Questa era la nostra famiglia: nessun maschio a parte me, quattro sorelle single, impegnate 24 ore al giorno con noi, sei femmine ed un maschio, immersi a nostra volta in quella tipica ed inspiegabile competizione reciproca propria della nostra età e che, a guardarci giocare insieme ai campi sportivi, non sembravamo neanche cugini. Tina era riccia e castano chiaro, Dina castano rossiccio, Giada rosso ramato, Allegra biondo rossiccio, Aghata rosso intenso e Viola biondo platino. Gli unici che si somigliavano come due gocce d’acqua eravamo io  e mia madre: biondi chiari e con gli occhi quasi di color blu cobalto. Zia Noemi, zia Dina e zia Lara erano invece more come le ali di un corvo.

All’epoca il fatto di non somigliarci non mi aveva dato tanto da pensare. 

Avrei imparato più avanti che certe cose contano, ma nel frattempo il dover scansare in continuazione oggetti volanti da parte di Viola mi tenne impegnato.

“Smettila di guardarmi in quel modo!”

Non ho mai capito a che modo di riferisse.

 

Laddove gli amici non arrivano a complicarti la vita, la famiglia c’è.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: SunVenice