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Autore: Alphabet Loser    14/01/2016    3 recensioni
Se ne sono andati.
Tadzio li ha sentiti rassettare le loro poche cose e allontanarsi dalla spiaggia. Li ha sentiti sbattere i piedi sulla passerella di assi di legno per scuotere via la polvere, e adesso sono andati.
(Ambientata alla fine del racconto)
[1527 parole]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se ne sono andati.
Tadzio li ha sentiti rassettare le loro poche cose e allontanarsi dalla spiaggia. Li ha sentiti sbattere i piedi sulla passerella di assi di legno per scuotere via la polvere, e adesso sono andati.

Se ne sono andati, e ora c'è silenzio.
Le loro voci, le loro grida, i loro rumori, le loro cacofonie forse solo apparentemente disorganizzate sono scemati, e Tadzio riesce a sentire le onde. Chiude gli occhi e inspira. Il mare entra nel suo piccolo petto. Trova spazio entro le sue spalle strette.
È solo un attimo, ma sa che non ne avrà più, e di quell'attimo permea il suo spirito.
Si accontenta, perché di più non può pretendere.
L'acqua lo bagna fino alle caviglie. Guarda giù. I suoi piedi scompaiono quando la spuma bianca delle onde lambisce il bagnasciuga. Alza prima uno, poi l'altro, e sulla sabbia bagnata e scura rimangono i solchi delle sue impronte. Poco profondi. Un'altra onda arriva e li cancella. È troppo leggero per lasciare dei segni indelebili. Troppo piccolo.
Una parte di lui vorrebbe entrare in mare e nuotare, o camminare, o lascuarsi trasportare dalla corrente, fino alla linea dell'orizzonte, fino al confine tra terra e cielo. Pensa quasi che un punto del genere esista davvero, un punto in cui il mare viene interrotto improvvisamente da una liscia tenda azzurra nella quale si possono affondare le dita ma che non si può attraversare, le cui nuvole si chinano a increspare l'acqua, baciandone la superficie. Un'altra parte di lui, invece, è consapevole dei due pesi nei suoi talloni che lo fermano nella posizione esatta in cui si trova. Un soffio di vento, ospite indesiderato, gli accarezza prepotentemente la pelle nuda, e le braccia si ricoprono di una sottile pelle d'oca. Un brivido lo scuote. Poi tutto finisce.
Rivolgendo i palmi aperti verso il sole, riesce a sentirne il calore. L'aria salmastra gli pizzica appena il naso. Quando si gira, la spiaggia, le cabine, l'albergo gli sembrano una realtà sconosciuta a cui non può appartenere. Ripensa alle mattine in cui si è svegliato avvolto da coperte che non avevano il suo odore, e quel rozzo nodo si scioglie dal suo petto. Le sue gambe sono malferme e vacillanti, insicure, come se fossero passati anni dall'ultima volta in cui ha camminato, ma riesce comunque a muovere qualche passo in avanti. Non capisce se il suo corpo gli sta dicendo di correre o di fermarsi.

Il lido è deserto. Nessuno è lì, tranne, qualche metro alla sua sinistra, un uomo.
No, non è un uomo, è l'uomo. È quell'uomo preciso. Quell'uomo in particolare. Quello che, per quasi tutta la sua vacanza a Venezia, ha cercato e scorto intorno a sé, come per gioco, come per vedere se riusciva ad arrivare in ogni luogo fosse lui. E quell'uomo c'era. A volte lo vedeva ricomparire con un'espressione preoccupata, quasi trafelata. Ogni tanto si divertiva a pensare di essere il figlio segreto di un grande re straniero, e quell'uomo diventava un agente dei servizi segreti incaricato di seguirlo e di assicurarsi che fosse sempre al sicuro. Per questo sembrava sempre così spaventato quando lo perdeva di vista.
Una sera, rimasto brevemente solo, ha chiesto a un cameriere il suo nome, ma non se lo ricorda bene. Si chiama Gustav. E c'è un von. È nobile, oppure ha ricevuto qualche riconoscimento. Gustav von. Gli ha detto che era uno scrittore, questo se lo ricorda. Alla sua sinistra, a pochi metri da lui, siede lo scrittore Gustav von.
Gli si avvicina. La sabbia sotto i suoi piedi bianchi è calda, asciutta. Morbida. Si alza in ruvide nuvolette dietro di lui ogni volta che muove un passo. Spera che sia addormentato e che non lo sembri solo. Se si accorgesse di lui, non saprebbe come comportarsi. Non vuole parlare con lui, vuole solo avvicinarglisi. È abbandonato sulla sdraio, le ginocchia allargate. Sul tavolino treppiede accanto a lui giacciono dei documenti più o meno sparpagliati, la mano destra pende giù dal bracciolo della sedia. Tadzio gli passa davanti. Poi torna indietro. E di nuovo davanti. Muove la mano aperta davanti a lui. Nessuna reazione. L'uomo dorme. Può permettersi di studiarlo, se ne ha voglia. Avvicinandosi, nota i capelli di un color bruno più scuro di quando per la prima volta l'ha visto, vede le labbra innaturalmente rosse, soprattutto in contrasto cin il colorito terreo del volto.
C'è, da qualche parte nel mondo, appena davanti a lui, un uomo nobile per famiglia o per meriti che ritiene degno dello spreco di tempo quel suo seguire un ragazzino (e non uno qualsiasi, bensì quello che Tadzio chiama io) per ogni viale di Venezia. C'è, da qualche parte nel mondo, un uomo che lo ritiene tanto importante. Circumnaviga la sdraio a passi lenti per tornare, pochi secondi dopo, nella posizione di prima. Gustav von non è il primissimo per Tadzio, in realtà.
C'è stato, quando suo padre era ancora in vita, un giovane ufficiale, con i baffi sottili e i biondi capelli lisci con la riga di lato, che diceva "Tadziu, Tadziu", e gli posava la mano sulla spalla.
"Tadziu, Tadziu" ripeteva. "Scommetto che diventerai un bellissimo giovane", e guardava sorridendo i suoi genitori, come in un segno di muta complicità adulta, che lui, con i suoi miseri undici anni di vita, non riusciva a comprendere. Adesso che di anni ne ha quattordici, si chiede quanto tempo debba ancora aspettare perché lui comprenda davvero. La certezza lo sfiora e poi se ne va. Rincorrerla lo spaventa. Se non la conosce, pensa, e di un così maturo pensiero va fiero, è perché non è pronto. Ma il tocco del giovane ufficiale e i suoi sguardi a tavola durante la cena gli sembrano troppo distanti dagli occhi imploranti e disperati di Gustav von perché siano la stessa cosa.
Con la punta delle dita si sfiora dalle radici dei capelli fino a dove riesce ad arrivare, un po' sopra le ginocchia. Percorrendo i ricci biondi, le guance dagli zigomi pronunciati, il collo morbido, il petto magro, la vita sottile, i fianchi stretti. Poi guarda Gustav von tentando di chiedergli telepaticamente se è quello il motivo di tanta devozione. Si tira il fiocco rosso sul costume. Il sale inizia a fargli bruciare la pelle. Ma Gustav von rimane fermo, impassibile, sulla sua sdraio. Tadzio se ne accorge, finalmente. Il suo petto è fermo. Non vede le spalle alzarsi e abbassarsi. Si avvicina. Nota che gli occhi non sono del tutto chiusi. Uno spicchio bianco e marrone di iride si intravede ancora. Inclina la testa. Alza una mano e la pone aperta davanti alla bocca dell'uomo. Nessun alito, nessun fremito.
"È morto"
Lo pensa con una tale freddezza che se ne stupisce. Come se la morte fosse naturale, all'ordine del giorno, e in effetti lo è. Tadzio ha quattordici anni, e in un mattino di fine estate a Venezia, pensa che è morto l'uomo che lo guardava. Forse gli sembrerà persino strano, una volta tornato a casa, girarsi e non vederlo più dietro di lui. Si sente il detentore di un intero universo che a tutti gli altri rimarrà per sempre, o per un secondo, completamente sconosciuto. Stringe tra le dita tutte quelle galassie, i polpastrelli gli si ricoprono di polvere di stelle di cui riesce a percepire la consistenza quasi intangibile, tutti quei soli lo fanno brillare come un giovane principe che sopporta il peso della sua prima corona. Si sente il custode di un segreto che può ribaltare le sorti del mondo. Fissa insistentemente le palpebre chiuse di Gustav von, sfidandolo ad alzarsi. L'Hotel des Bains, di fronte a lui, lo riporta alla realtà. Chiude gli occhi e inizia a contare. Arriva fino a settandue. Poco più di un minuto. Si chiede che ora sia. Se lo stiano aspettando. Se sia già in ritardo. Se Gustav von l'avrebbe guardato con lo stesso doloroso desiderio se lui avesse avuto le labbra a cuore e i fili di perle iridescenti di sua madre. Probabilmente è ora per lui il tempo di andare. Guardando un'ultima volta lo scrittore, gira il capo verso la sua meta con una grazia così eterea da far fermare per un istante le nuvole nel cielo e le onde nel mare. Gli passa accanto, si allunga verso il suo capo e le sue piccole labbra dischiuse restano sospese per un tempo indefinito, mentre lui si domanda se quella guancia si meriti un bacio, come ultimo saluto, come segno di aver capito tutto, come gesto di perdono. Tadzio non ne uscirebbe nemmeno contaminato, forse. Ma non lo fa. Invece, se ne va. E con la sua solita andatura appena vacillante torna in camera.
Sa che non lo dirà a nessuno.

Ha solo dovuto lavarsi, cambiarsi e mangiare pranzo. Ha solo dovuto accogliere con indifferente stupore e dispiacere la morte del grande scrittore tedesco Gustav von Aschenbach.

La madre gli dice che è più taciturno del solito durante il viaggio di ritorno, mentre lui guarda fuori e cerca con gli occhi quella spiaggia che non trova più.

Il clima si fa sempre più autunnale.
Il cielo via via più plumbeo.
L'alba di domani avrà forse il colore dei suoi occhi di oggi.

  
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