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Autore: RandomWriter    15/01/2016    11 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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55.
HAILEY


 
 
Gli umani sono creature alquanto bizzarre.
Emettono con una miriade di versi articolati ma piatti e per quanto tempo dedichino alla comunicazione, non riescono mai a capirsi fino in fondo. Un momento sono felici, quello immediatamente successivo, tristi. E’ affascinante osservali, anche se proprio non li comprendo.
Solo un umano non ha mai avuto segreti per me, ma questo perché il miglior padrone che si possa desiderare. Se fosse nato lupo, sarebbe un capobranco, mi ci gioco la coda che è così.
C’è sempre stato, sin da quando ero un cucciolo impaurito e da allora, non mi ha mai trascurato né tanto meno fatto del male. Mi capisce al volo, quasi parlasse la mia lingua ed io vorrei esprimermi nella sua per manifestargli quanto gli voglio bene. Ma lui è sveglio, lo capisce comunque. Sembra però che tra i suoi simili non sia altrettanto perspicace, perché è spesso confuso e nervoso.
Come l’anno scorso, quando quell’orrida ragazza tatuata veniva qui. E pensare che le facevo pure festa! Non avevo alternative, visto quanto riusciva a mettere di buon umore Castiel. Solo che poi sparì e lui da allora non fu più la stessa persona. Non ascoltava più la musica a tutto volume per la casa, cantando a squarciagola mentre io lo assistevo con i miei ululati.
Che concerti da paura.
Che bei tempi.
No, si era chiuso in se stesso, nemmeno Nathaniel veniva più a trovarci e lui sì che era un ragazzo in gamba, woff, mi portava sempre qualche crocchetta di nascosto. Non si era arrabbiato nemmeno quella volta che misi sottosopra il suo zaino nella speranza di trovare dove le nascondesse.
Dopo la scomparsa di Debrah, veniva da noi solo quel ragazzo strambo che puzzava di lavanda, con i capelli bianchi e che mi accarezzava a malapena. Non era cattivo, anzi, in sua compagnia Castiel tornava persino sereno, ma non aveva più quell’aria scanzonata di un tempo.
Poi inizia ad avvertire dei piccoli cambiamenti, della cui esistenza ebbi conferma in un giorno in particolare: era un pomeriggio di Ottobre; stavo sonnecchiando beatamente nella cuccia, quando riconobbi la voce del mio amico. Quest’ultima aveva un che di diverso da solito, una leggera differenza nell’intonazione, come se fosse più morbida ma, ne ero sicuro, era presente anche una punta di nervosismo:
« Ci sono quattro unità immobiliari » stava spiegando « il mio è questo »
Appena intercettai del movimento tra le fronde, scattai guardingo per poi abbaiare furiosamente nel tentativo di allontanare l’intruso: una sgradita femmina umana aveva appena allungato il collo nella mia proprietà. Lei si schiantò addosso a Castiel che, in quell’attimo, si irrigidì come il palo che marco sempre quando usciamo a fare due passi.
Percependo la tensione del mio padrone, ne ebbi la conferma: il nemico andava allontanato a tutti i costi. Quella sciocca continuava ad urlare spaventata e la sua paura non faceva altro che aizzarmi. Solo quando si separò dal mio migliore amico, notai uno strano sorriso sulle sue labbra, una smorfia che non gli vedevo da tempo… un sorriso che regalava solo a Debrah.
L’intrusa aveva un nome, anche piuttosto brutto: Erin.
La cosa peggiore era che non ci fosse verso di cacciarla o sbranarla, nonostante i miei appostamenti e tentativi. Una volta arrivò addirittura a salire in groppa a Nathaniel… furba questa donna! In effetti mi sono convinto che le femmine umane siano molto più scaltre della controparte maschile, visto che è da quando sono piccolo che assisto impotente ai comportamenti incoscienti di Castiel. Come quella volta che, insieme a Nathaniel, provò a scendere con lo slittino dal tetto innevato della vecchia casa. I due avevano sistemato un cumulo enorme di neve soffice sul punto di atterraggio, situato a cinque metri dal suolo. Tuttavia fecero male i conti e, anziché atterrare sul comodo giaciglio, il mio amico ruzzolò a terra, rompendosi un braccio… Oppure quella volta che chiamarono da scuola perché si era rotto la gamba destra arrampicandosi su un albero… ma cosa stavo dicendo?
Ah sì, Erin l’intrusa.
Me la ritrovai tra i piedi anche qualche giorno prima di Natale.
Mi pare ancora di vederla: infreddolita, con il cappello di lana calato sulla fronte e le mani davanti alla bocca, da cui espirava del caldo vapore.
Non mi sarei fatto fregare. Non potevo farla passare. L’ultima volta che una donna era entrata in casa, Castiel ne era uscito distrutto.
Tuttavia, il mio padrone ignorò di nuovo i miei avvertimenti e la difese… oddio, proprio difese difese, no… diciamo che si assicurò che non la sbranassi.
Come era già successo mesi prima con la tatuata, quella nuova presenza sconvolse la vita del mio amico e, di riflesso, la mia.
Due giorni dopo infatti, lo vidi recuperare la valigia e ammassarci dentro dei vestiti. L’ordine non era mai stato il suo forte. Io gli trotterellai attorno, fingendo di non capire, anche se i suoi gesti parlavano chiaro: mi stava abbandonando. Non per sempre, lo sapevo, non sarebbe stato da lui:
« Vorrei portarti con me » mi disse, ma io riuscii solo a capire il sorriso triste con cui cercava di consolare i miei guaiti. Mi accarezzò vigorosamente il capo, come se non si curasse di farmi male. Mi scompigliò le orecchie, ma in quel gesto sentii una profonda amarezza e un’immediata nostalgia appena la sua mano si staccò dal mio pelo. Si sistemò lo zaino sulle spalle, mentre sollevava la valigia. Io cercai di intercettare l’apertura del cancello prima che lo chiudesse, ma lui fu più rapido.
Non potevo seguirlo, era questo che mi stava dicendo.
Guardai le sue spalle e mi chiesi quando fosse diventato così alto. Eravamo cresciuti insieme, ma d’un tratto mi sembrò che le nostre strade si fossero divise di colpo, per poi ricongiungersi a distanza di tempo, e del vecchio ragazzino irruento e spericolato, non era rimasto altro che un uomo vissuto e maturo.
« Ah, Demon » mi chiamò un’ultima volta « promettimi di non sbranare Erin »
E dopo quelle parole, non vidi più Castiel per un tempo che la mia misera vita di cane mi fece pesare come mille stagioni.
 
« Oh, andiamo Cas! Quella era carina! » protestò Erin.
« Ti ho detto che non voglio ascoltare quella lagna di Adele » sbottò il rosso, cambiando stazione radio. L’amica sbuffò e incrociò le braccia al petto, guardando fuori dal finestrino:
« Qui dove siamo? »
« Stroudsburg »
« Pennsylvania? »
« Ya »
« Ecco perché mi sento a casa » commentò la mora, sprofondando beatamente nel sedile della Chrysler.
« Infatti guarda che stato sfigato, ci sono solo campi »
« Solo perché voi del Jersey avete New York, non pensare di potertela tirare! »
Erano nella macchina di Castiel da un’ora e, per tutto quel lasso di tempo, i due non avevano cessato un minuto di punzecchiarsi a vicenda. Era finalmente arrivato il tanto atteso momento di conoscere Tyra Black, la madre dell’amico e quell’evento era vissuto secondo emozioni in netto contrasto tra i due amici: se Erin era eccitata e di ottimo umore, Castiel appariva particolarmente nervoso e irritato. Ciò tuttavia non era sufficiente ad intimorirla, proprio perché ormai aveva imparato a gestire la sua indole impulsiva e burbera.
« Si può sapere che hai? E’ da quando siamo tornati dalle Bahamas che sei tutta su di giri » farfugliò lui, fingendo che l’allegria dell’amica lo infastidisse. Erano tornati due giorni prima dal viaggio ma lei faticava a scrollarsi di dosso la spensieratezza e la gioia che aveva provato in quei giorni. Troppe cose di apparentemente nessuna rilevanza erano accadute tra lei e il rosso, ma le ricordava tutte: la sua mano stretta in quella dell’amico al momento del decollo, lui che ammetteva di essersi preoccupato per lei dopo l’immersione, la loro attesa alla fermata del bus di notte a canticchiare Don’t wake me.
« Niente » minimizzò, osservando il profilo di una fattoria in lontananza.
E ora il viaggio verso Berwick.
Non stava più nella pelle all’idea di conoscere Tyra. Il fatto che lui avesse acconsentito alla sua presenza, la faceva sentire semplicemente onorata. Importante.
Sapeva però che l’amico preferiva non parlare della donna, della quale quindi Erin non conosceva quasi nulla, tranne il fatto che lavorasse o avesse lavorato come hostess. Se quello fosse ancora il suo lavoro, la mora non poteva esserne sicura.
« Quindi andremo a Pittsburgh sabato prossimo? » sviò.
« Se vogliamo sbrigarci a risolvere questo enigma, prima andiamo meglio è » replicò il guidatore, poco propenso a continuare la conversazione. Erin si decise allora di lasciargli il suo spazio, rispettando la sua laconicità. Non era ancora il momento di smussare la sua scontrosità, ma era sicura che quest’ultima sarebbe emersa prepotentemente non appena avessero avuto davanti Tyra.
Uscirono da Stroudsburg, una piccola cittadina nella contea di Monroe e proseguirono per la Valley View Drive. Non parlarono molto, limitandosi ad argomenti principalmente legati alla scuola e ai loro amici. Avevano entrambi quell’aria un po’ distratta di chi cerca di ingannare la mente da altri pensieri, come se non ascoltassero realmente il suono della propria ed altrui voce.
Ancora un’ora ed Erin avrebbe conosciuto la donna che aveva dato alla luce il ragazzo di cui era innamorata.
 
Seppure il calendario gli ricordava che erano trascorsi appena due giorni da quando aveva salutato Rosalya ed era tornato in California, Nathaniel ne sentiva già la mancanza. Aveva trascorso una settimana splendida con lei e i suoi amici, che rappresentavano assieme ad Ambra, l’unico motivo per cui valesse la pena tornare a Morristown. Quanto al resto, la sua permanenza a San Francisco implicava la liberatoria lontananza da villa Daniels e dai suoi opprimenti proprietari. Sua sorella sosteneva che loro padre fosse cambiato, ma dopo diciannove anni di prigionia, il biondo stentava a credere che l’aguzzino della sua felicità si fosse rabbonito. Gustave era l’uomo che l’anno prima non aveva esitato a fargli terra bruciata attorno, appena il ragazzo aveva tentato di deragliare dal percorso tracciato e aveva cercato di sfondare nel mondo della musica. L’aveva annichilito, come aveva sempre fatto in passato. Per persone come lui non esisteva possibilità di redenzione.
Attraversò l’incrocio tra la settima e la diciottesima strada, passeggiando in uno dei suoi quartieri preferiti della città. Quel giorno doveva assolutamente incontrare Sophia e parlarle di una questione che continuava a rimandare da due giorni. La preoccupazione del dottor Wright, circa i mancati controlli medici della pazienza, era diventata anche la sua.
Si trovò sotto casa della rossa e cercò il nome sull’elenco del citofono.
“Watson”
Era il nome del fidanzato dell’amica di Sophia, vero inquilino dell’appartamento. La coppia era ancora in giro per il paese e Nathaniel non aveva idea di quando sarebbero tornati e per quanto ancora la rossa avrebbe prolungato la sua permanenza in California. Ciò di cui era certo, era l’inquietudine che provava all’idea che fosse sola in quell’appartamento, che non ci fosse nessuno ad assisterla in caso di necessità. Era quello il tarlo che aveva iniziato ad assillarlo, dopo la raccomandazione di Castiel: Sophia aveva qualcosa da nascondere circa la sua salute. L’ansia crescente guidò nuovamente il dito sul campanello ma, come la prima volta, non ottenne risposta. Eppure era sicuro di ricordare il nome giusto dell’interno. Determinato a raggiungere la ragazza, o per lo meno sapere dove trovarla, optò per il pulsante sottostante.
« Sì? »
Dal citofono era emersa la voce squillante ed inconfondibile di Felicity che fece subito sorridere il biondo:
« Ehi Fel, sono io….Nathaniel. Sai se Sophia è in casa? » domandò appoggiando la mano contro la parete in muratura.
« Credo sia al lavoro… » riflettè « dai, vieni su studentello, ti offro qualcosa » e prima che il ragazzo potesse rispondere, la serratura automatica venne sbloccata. Sorrise, scuotendo leggermente il capo: con Felicity, non c’erano opzioni diverse da quelle che comodassero a lei.
Non era ancora arrivato alla fine della rampa di scale quando udì nuovamente il suo tono allegro:
« Non dovresti essere all’università tu? » le chiese.
La trovò ad attenderlo all’uscio, con le mani affondate nella tasca centrale di una larghissima felpa viola, che in realtà apparteneva alla sua coinquilina Hilary. In contraddizione con l’abbigliamento pesante e confortevole della parte superiore del corpo, la ragazza calzava un paio di short cortissimi che mettevano in risalto le gambe lunghe ed affusolate:
« Potrei dirti la stessa cosa, signorino » lo rimbeccò rientrando nell’appartamento e sedendosi scomposta sul divano. Nathaniel preferì restare in piedi, finchè non fu lei a fargli cenno di accomodarsi, tamburellando la mano sul comodo giaciglio:
« Così stavi cercando Sophia… » indagò. Un leggero vapore caldo serpeggiava da una tazza di cioccolata calda, che le aveva imbrunito il labbro superiore. Sembrò accorgersi che l’attenzione dell’ospite era focalizzato  proprio su quella striscia golosa, così la leccò via furtiva.
Alla domanda, il biondo si era limitato ad un cenno d’assenso con il capo, senza però precisare il motivo di quella visita.
« Allora? Questo viaggio alle Bahamas? » squittì lei, appoggiando la tazza sul tavolino basso.
« Bello »
Gli occhi della ragazza diventarono immediatamente due fessure, indispettita dal tono apatico con cui aveva ottenuto quella replica:
« Tutto qui? Che mi nascondi, biondino? »
« Niente, è che non saprei cosa raccontarti » scrollò le spalle il ragazzo.
« Sei proprio strano » borbottò Felicity, scompigliandosi i capelli verdi « te ne vai in un’isola paradisiaca per una settimana e non hai nulla da raccontare alla vecchia zia Fel? »
« Che stavi studiando? » cambiò argomento lui, allungando l’occhio sul tavolo della cucina alle loro spalle.
« Diritto processuale penale »
Sembrava non curarsi dell’atteggiamento evasivo del ragazzo, quasi avesse prontamente dimenticato la superficialità con cui aveva liquidato la sua curiosità. Lo vide annuire, con aria solenne, strappandole una risatina:
« Non hai idea di cosa sia, vero? » e senza lasciargli il tempo di rispondere, tagliò corto « beh non ho nessun voglia di spiegartelo, caro il mio “vado alle Bahamas e non ti racconto un tubo” »
No, evidentemente la reticenza dell’ospite l’aveva leggermente indispettita. Nathaniel allora sorrise e si alzò dal divano. Si avvicinò alla libreria, sostando nel punto esatto in cui una settimana prima si era fermata Sophia e prese a sfogliare distrattamente esattamente lo stesso libro impugnato dalla rossa.
« Perché hai scelto di diventare avvocato? »
Se ne uscì con quella domanda di punto in bianco, incuriosito dalla nutrita raccolta di volumi e libri di testo che occupavano il ripiano più alto del mobile.
« Avvocato societario, ad essere precisi » puntualizzò lei e, cogliendo lo smarrimento del ragazzo, illustrò con voce piatta « è una figura che lavora in una società »
« Non ne sembri molto entusiasta »
« A contrario » lo smentì, assumendo una postura più composta ed impettita « è che a volte ho la tendenza a spiegare le cose alla cazzo, perché sono convinta che alla gente non interessi »
Quella spiegazione lo fece ridacchiare, mentre lei soggiungeva:
« Non potrei mai fare qualcosa di cui non sono convinta. Studiare per imposizione non è nella mia natura »
A quel punto nel biondo sorse il dubbio che ci fosse qualcosa di referenziale in quelle parole. Forse Sophia le aveva raccontato di lui, del suo rapporto conflittuale con il padre e della sua incapacità di opporsi alle sue decisioni. Tuttavia nello sguardo limpido di Felicity, non leggeva alcuna frecciatina né recriminazione. Era una persona trasparente, diretta, quasi ingenua e costantemente allegra, degna rappresentante del suo nome.
« A volte non si hanno alternative » osservò amaramente il ragazzo, riponendo il libro sullo scaffale.
« E’ quello che dicono i codardi che non sanno rischiare » replicò asciutta « perché piangersi addosso è più facile »
Il ragazzo distolse lo sguardo, sentendosi direttamente coinvolto in quella critica involontaria. Era stanco di sentirsi rinfacciare la sua mancanza di fegato.
« Prendi Hilary ad esempio » continuava Felicity, ignorando quanto la schiettezza delle sue parole lo stessero ferendo « la famiglia del suo ragazzo è contraria al fatto che vada all’università. Voleva che si sposassero subito dopo il liceo e mettessero su famiglia. Avevano addirittura minacciato di tagliare Joe fuori dall’eredità. Eppure lei, sia perché di natura è insofferente verso i ricatti, sia perché diventare magistrato è il suo sogno, se n’è sbattuta alla grande e ora guarda dov’è arrivata. A Giugno si laurea con il massimo dei voti… ok, questo lo dico io, ma ha una media alta » convenne infine.  
Raccontò quella realtà con naturalezza, ma non si aspettava il turbamento che interpretò sul viso di Nathaniel. Lo vide sgranare gli occhi, incredulo e confuso:
« Anche se volevano tagliare il suo ragazzo fuori dall’eredità, lei e Joe hanno deciso di fare di testa propria? » puntualizzò lui, come se la ragazza non avesse piena coscienza delle sue parole.
« Beh sì. A dirla tutta pure Joe ci ha messo del proprio per fare arrabbiare i suoi che lo volevano medico. Lui invece è diventato fotografo » rise Felicity, lasciando trasparire in quel sorriso solare quanto fosse affezionata alla coppia. Stimava molto la sua coinquilina e sapeva che quel rispetto era reciproco. Si allungò sul tavolo e iniziò a sfogliare un fumetto lasciato aperto a metà. Il biondo continuava a restare in silenzio, meditabondo.
« Quindi come vedi, caro studentello, ognuno ha i propri demoni da affrontare, solo che c’è chi si arrende e si lagna del loro predominio, e c’è chi li combatte in silenzio, senza piangersi addosso » commentò con solennità, senza staccare lo sguardo dalle pagine a colori.
Felicity aveva ragione… e quella consapevolezza era solo il punto di arrivo, prima del viaggio che avrebbe dovuto intraprendere ma che aveva rinviato per tutta la vita.
Rivide la storia dei suoi diciannove anni, i soprusi psicologici di suo padre, le sue pressioni affinché diventasse uno studente brillante, degno di ereditare l’azienda di famiglia. Ricordò tutti i sogni che erano germinati in lui e di come Gustave li avesse brutalmente calpestati, convincendolo che in quel terreno ormai arido non sarebbe cresciuto mai più nulla.
Poi, con il suo arrivo a San Francisco, era iniziata la ribellione. Quella frustrante realizzazione di non poter perdonare più la propria debolezza.
Di non poter tollerare quell’opprimente giogo.
L’aveva vomitata tutta addosso ad una sola persona:
 
« DA DOVE DERIVA ALLORA TUTTA QUESTA TUA PRESUNZIONE E SACCENTERIA? CON QUALE TITOLO TI ARROGHI IL DIRITTO DI CREDERTI MIGLIORE DI ME?! »
 
Era quella la frase che aveva urlato a Sophia con una tale rabbia che l’aveva fatta vacillare. Da quello scontro, l’animo di Nathaniel ne era uscito trionfante, quello di lei a pezzi. Eppure alla fine, la ragazza era riuscita a farlo sentire sereno, era stato grazie a lei che si era finalmente levato quel peso dal cuore.
Nemmeno con Castiel aveva mai scavato così a fondo nel suo animo, dissotterrando paure e angoscie putrescenti.
 
« … c’è chi li combatte in silenzio, senza piangersi addosso »
 
Era così che avrebbe fatto.
Basta rimpianti e amarezze.
Era arrivato il momento di agire.
Si alzò, puntando i palmi contro il tessuto in velluto del divano:
« Grazie per la chiacchierata » mormorò, senza guardare la sua interlocutrice. L’aspirante avvocato annuì e lo accompagnò alla porta, che richiuse non appena il ragazzo sparì oltre la rampa di scala.
Una sorriso astuto allargava le labbra di Felicity che, una volta tornata nel soggiorno, afferrò nuovamente il fumetto abbandonato: 
« Sei sempre fonte di massime eccezionali, Spiderman »
 
Erin deglutì nervosamente.
L’eccitazione di conoscere Tyra Black era stata rimpiazzata dal timore di non impressionare positivamente la donna. Da ormai mezz’ora, aveva iniziato a torturare la sua coscienza, chiedendosi se la sua presenza sarebbe stata percepita come un’inopportuna intromissione.
Il suono del campanello la destò dal suo monologo interiore, vincolandola a sollevare lo sguardo verso il suo amico.  
Erano arrivati a casa della madre di Castiel.
Sopra di loro, si ergeva un complesso condominiale degli anni Settanta, ben conservato al trascorrere del tempo. L’intonaco presentava solo qualche crepa, mentre il colore della muratura esterna sembrava di recente applicazione.
« Sì? »
Quella semplice sillaba, scaturita dal citofono, fece rabbrividire la mora.
« Sono io » disse apatico Castiel.
Seguì un silenzio pesante, ma la comunicazione restava aperta.
« C-Castiel? » sussurrò la voce e, in quel semplice nome, Erin percepì l’ansia e la commozione di una madre che cerca di dominare l’emozione. Non le aveva annunciato la loro visita, tanto gradita quanto inaspettata.
Quell’idiota del suo amico però esitava a rispondere, prolungando sadicamente l’agonia di Tyra. Se quella snervante attesa fosse dettata da un infantile capriccio o da un reale disagio, Erin non avrebbe saputo definirlo, tuttavia si risolse a porvi fine:
« Sì è lui. Buongiorno signora Black, io invece mi chiamo Erin » spiegò agitando la mano.
Non sapeva chi ci fosse all’altro capo dell’apparecchio ma di una cosa si era convinta: avrebbe fatto il possibile per dare una buona impressione di sé.
« Non c’è la videocamera, scema » la rimproverò Castiel, trattenendo a stento un sorriso. Fu una fortuna per lui che Tyra non potesse vederlo in quel momento. La perspicacia che solo una madre accorta può avere, avrebbe impiegato pochi secondi a interpretare nella dolcezza di quel sorriso, dei sentimenti be più profondi di una cara amicizia.
« Ah no? E questo cos’è? » insistette Erin, indicando un cerchietto all’altezza dei loro visi.
« Sicuramente non un obiettivo… saliamo o intendi star qui a smontare il campanello? »
Lei sbuffò per i modi spicci con cui veniva trattata e, dal momento che l’amico non aggiungeva altro, gli fece cenno di tornare a rivolgersi alla madre; Tyra però lo anticipò e disse semplicemente:
« Vi apro subito »
Quell’ultimo invito, pronunciato con garbo e dolcezza, arrivò alle orecchie di Erin come il miglior benvenuto che potesse ricevere.
 
« Jordan, chiedono di te »
La ragazza mollò i piatti nell’acquaio, asciugando frettolosamente le mani contro il grembiule. Sollevò gli occhi al cielo, sperando che non fosse l’ennesimo cliente morboso che si era invaghito di lei. Era paradossale come più risultasse acida, e più successo riscuotesse tra i frequentatori abituali del locale. Lei era lì per lavorare, riempire bicchieri e pulire quelli vuoti. Le sue mansioni le svolgeva al meglio e con efficienza, ma l’interazione con la clientela era il suo tallone d’Achille. Tuttavia aveva bisogno disperato di quell’impiego e se per tenerselo era costretta a dimostrarsi cordiale e accondiscendente, avrebbe sacrificato anche quell’asprezza che era così tipica della sua personalità. Come tutte le regole esistenti, pure la sua presentava un’eccezione, che corrispondeva al nome di Trevor Mc Connell, anche se a quel tempo non ne conosceva ancora il cognome. Era l’unico cliente al quale non poteva perdonare le battutine provocatorie, i commenti inopportuni o l’irritante tendenza a distrarla dai suoi doveri.
Varcò la soglia del locale e quando spostò lo sguardo sul bancone, catturò la sua attenzione un braccio che si sollevava. Non dovette neanche attendere di mettere a fuoco il viso del cliente che il suo sopracciglio destro iniziò a tremarle incontrollato.
«Yo, Jordan! » la salutò bonariamente Trevor.
Lei non rispose a quell’allegra accoglienza. Anziché regalargli la soddisfazione di farla irritare, gli avrebbe risposto con l’arma più potente: l’indifferenza. Rimase così impassibile come una statua ed esclamò:
« Buongiorno. In cosa posso servirla? »
« Con tutta questa disponibilità azzarderei quasi quasi a chiederti un certo servizietto… » la provocò il cestista con malizia, alludendo alle sue parti basse.
Quella volgarità la fece inorridire, al punto da abbandonare subito il suo iniziale proposito e montare su tutte le furie:
« Brutto pervertito! Come ti permetti? »
« Eddai! Stavo scherzando » rise lui, beffandosi della tonalità porpora del suo viso « e poi sei ancora più bella quando ti arrabbi »
Notando che con quell’ultima frase l’aveva messa ancora più in difficoltà, il cestista aveva reclinato il capo all’indietro dal troppo ridere, facendo voltare alcuni clienti.
« Sto lavorando, idiota. O bevi qualcosa, o te ne vai » borbottò lei, iniziando a sistemare i bicchieri come pretesto per non guardarlo in faccia.
« Sono qui per festeggiare, Jojo »
Gli occhi della ragazza diventarono due fessure:
« Chiamami Jordan… anzi no, non chiamarmi proprio »
« Non vuoi neanche sapere cosa c’è da festeggiare? »
« Che vuoi che me ne freghi? »
«Brigitte non è incinta »
« Evvai » replicò prontamente l’altra con sarcastico entusiasmo. Per resistere alla tentazione di menare il cliente, afferrò uno straccio e lo passò con foga sul bancone già pulito. Trevor sorrise beffardo e mentre cercava di schivare la violenza del gesto della ragazza, precisò:
« Quindi, per ringraziarti per aver ascoltato le mie lagne quella sera, ti offro da bere »
« No grazie » rispose asciutta.
« Insisto »
« Pure io »
« Eddai… » miagolò, scivolando sul bancone.
« Non posso bere quando lavoro » tagliò corto la cameriera, spostando la sua attenzione sulla sistemazione dei boccali puliti.
« Ottimo, allora esci con me! A che ora stacchi? »
« Lavoro qui a vita »
Il cestista sbuffò divertito:
« Sei un osso duro, Jojo »
A causa della sua irritazione, ormai la muscolatura facciale di Jordan era un tremito costante. Lei doveva lavorare e quella realtà, per quanto sgradita, era ineluttabile. A rendere ancora più stancante la sua posizione, si aggiungeva un ragazzino viziato che l’aveva catalogata come suo personale passatempo.
« Non hai proprio niente da fare tu? I compiti ad esempio? »
Lui la scrutò indeciso. Quell’ultima frase lo aveva un po’ spiazzato, portandolo a chiedersi quale fosse l’effettiva età della ragazza davanti a lui. Forse si era già diplomata a quella considerazione lo faceva cadere in una sorta di posizione di inferiorità.
« Quanti anni hai? »
« Troppi per un babbeo immaturo come te »
Il ragazzo increspò le labbra che si distesero subito dopo assecondando un buon umore ingiustificato.
« Lo sai che non riesco a prenderti seriamente quando mi insulti? » la provocò. Quell’aspetto era uno dei tanti del ragazzo che mandavano in bestia la cameriera. Per quanta durezza e serietà mettesse nelle sue parole, lui non veniva minimamente scalfito da esse. L’ingrediente mancante, poteva essere solo uno e costituiva l’ultima speranza di Jordan per cercare di spegnere quell’irritante sorrisetto:
« Secondo te come dovrei considerare uno che, dopo aver saputo che la sua ragazza non è incinta, si rifugia in uno squallido pub a festeggiare con una cameriera? Devi averla amata proprio tanto questa Brigitte »
Pronunciò quelle parole dapprima senza curarsi di lui e concentrando solo infine i suoi occhi nocciola sul viso del cliente. Quell’ultima frecciata sembrava aver sortito effetto, ma in misura troppo considerevole persino per la sua artefice. Nelle sue parole era trasparita una nota di disprezzo palpabile, al punto da demolire l’ego del giovane.
Teneva lo sguardo fisso sul boccale davanti a lui, prima di ruotare sullo sgabello e volgerle le spalle:
« Quindi non ci sono speranze, eh? » le sussurrò con un sorriso triste « a me bastava solo condividere un bicchiere in allegria… ma evidentemente qui non sono gradito »
Quell’ultimo attacco era andato a segno, contro ogni aspettativa della sua autrice. Eppure, anziché gioire del successo della sua strategia, si insinuò in lei un insopprimibile senso di colpa; persino per i suoi standard di scontrosità, era stata fin troppo diretta e acida. Non che gli avesse mentito, nutriva un sincero disprezzo per la superficialità con cui aveva accolto la notizia della mancata gravidanza. Questo però non la autorizzava a rinfacciarglielo con tanta cura, dal momento che lui, in fondo, desiderava solo un po’ di attenzione.
« Un bicchiere solo, d’accordo? »
Patteggiare significava consegnare la vittoria al nemico, o se non altro, sventolare una bandiera bianca. Non era sicura che il suo orgoglio le avrebbe perdonato quello sgarro, ma di certo lo avrebbe apprezzato la sua coscienza. Lo vide arrestarsi, per poi girarsi verso di lei.
Si preparò a sorridergli leggermente, quasi a dimostrazione della sincerità delle sue parole, quando notò il ghigno scanzonato che gli aveva disteso gli angoli della bocca. Trevor scoppiò a ridere, reclinando il capo all’indietro:
« Che sempliciotta che sei, Jojo! Non ci sarai cascata sul serio? »
Avrebbe aggiunto anche un commento circa l’affettata dolcezza con cui aveva avanzato l’ultima proposta, ma il canovaccio umido che gli arrivò in pieno viso, lo zittì. Mentre ancora ridacchiava, glielo restituì, tornando a sedersi al bancone di ottimo umore, così come era arrivato.
 
L’ascensore era permeato da un odore acre di tabacco, della cui fonte Erin non poteva dirsi certa. Guardava sospettosa l’amico, a cui aveva strappato una promessa, non troppo convinta, di togliersi il vizio del fumo.  
« Non sono io, puzzava già quando siamo entrati » si difese il rosso « e smettila di rompere le palle con ‘sta storia delle sigarette! »
Erin gonfiò le guance, come era solita fare, proprio quando le porte si aprivano e una voce interrompeva il loro battibecco:
« Ben arrivati »
Un timbro dolce e amabile, quasi zuccheroso, aveva deliziato i loro timpani. Fu allora che la ragazza si premurò di cercarne l’autrice, trovando a pochi metri da loro una donna bellissima.
Tyra Black aveva un viso ovale e perfettamente simmetrico, adornato da una chioma fluente di capelli neri come il cielo d’inverno. Quella cornice scura metteva ancora più in risalto un paio d’occhi chiari, di uno dei blu più belli che avesse mai visto. Il naso dritto e regolare era un chiaro tratto che aveva trasmesso al figlio, la cui somiglianza con la madre, a quel punto divenne scontata. Dopo aver conosciuto il dottor Wright, Erin aveva sospettato che Castiel avesse ereditato i tratti più belli del suo aspetto da Tyra, seppur modellati secondo i canoni maschili. Quello che in Tyra era un volto proporzionato ma ovale, in Castiel assumeva una forma più mascolina, ma non per questo meno affascinante. Solo gli occhi, che peraltro rappresentavano uno degli aspetti che più la attiravano del ragazzo, erano merito della linea paterna.
A quelli, Erin dovette sommare un altro elemento che accumunava il celebre chirurgo al figlio: il loro ghigno. Nell’espressione di Tyra, non c’era traccia di quell’aria beffarda e sprezzante di Castiel, né del cipiglio curioso e sicuro di sé dell’ex marito. Aveva un sorriso modesto e timido, di chi soffoca un certo timore nel palesare emozioni troppo forti.
« Ciao Castiel »
Quella voce, unita a quel sorriso incantatore, ammaliarono Erin, che avvertì la commozione della donna. Tuttavia, il rosso non sembrò altrettanto empatico, poiché non articolò alcun fonema. Se ne restava lì, in silenzio ad osservare una donna che non vedeva da mesi ma a cui sarebbe stato legato per sempre. Creare quella tensione era più forte di lui, il suo io più immaturo e vendicativo gli imponeva di essere duro ma non aveva considerato la sua lei. Erin infatti, accecata dall’irritazione per il perdurare di quella logorante tensione, si inalberò, assestandogli una gomitata ai lati dello sterno.
« Saluta tua mamma, scemo! »
« Ma vuoi stare zitta un secondo?! » sbottò lui, in imbarazzo.
Fu solo uno scambio di battute, fugace e concitato, ma a Tyra bastò per realizzare quanto aveva sperato dopo aver udito la voce di quella ragazza sconosciuta. Suo figlio era venuto da lei con la sua fidanzata.
Quel gesto era una sorta di dichiarazione di non belligeranza, una dimostrazione che lei era ancora la sua famiglia e che, pertanto, meritava di essere coinvolta nella sua vita privata.
Avrebbe adorato quella ragazza a prescindere, per il solo fatto che la sua compagnia si associava al figlio. Lei le strappava espressioni che il viso apatico di Castiel sembrava aver dimenticato irrimediabilmente, riusciva a scuotere la corazza di apatia e riserbo in cui era precipitato.
Quale fosse il suo segreto, Tyra non lo sapeva ancora, ma osò sperare che si trattasse di una forma d’amore che lei, in quanto madre, non avrebbe mai potuto provare per suo figlio.
Sicuramente la mora sarebbe avvampata di colpo se avesse potuto interpretare il disilluso equivoco che si leggeva sul viso della padrona di casa, ma era impegnata a scrutare una figura che aveva appena calamitato la sua attenzione.
Dietro la gonna in tweed di Tyra, infatti, faceva capolino una creaturina che le arrivava poco sopra la cintola. Lei provò a sorriderle amichevole ma il furetto scappò via, mentre la sua chioma di riccioli biondo cenere ondeggiavano leggiadri.
« Scusatela… è un po’ timida » sospirò Tyra con un sorriso clemente.
« E’ Hailey? » chiese retoricamente Erin.
Sapeva perfettamente che non poteva essere altrimenti, ma non poteva permettere alla laconicità del suo amico e al disagio di sua madre di far piombare nuovamente un pesante silenzio.
Tyra tuttavia non aggiunse altro, limitandosi ad annuire e li invitò ad accomodarsi all’intero.
« Scusate il caos » borbottò « non mi aspettavo questa visita »
« Si figuri » si premurò Erin, mentre Castiel sbottava:
« Possiamo anche andarcene se vuoi »
Si guadagnò un pizzicotto infastidito della mora, che l’intento di Tyra di ritrattare la sua recente considerazione:
« Non dia retta a Castiel » la rassicurò Erin « oggi ha la luna storta » asserì, sperando di risultare credibile. Nonostante la generosità del suo intento, la donna conosceva troppo bene il figlio per illudersi di una simile scusante, ma apprezzò la premura della ragazza nel rassicurarla.
« E’ un bel posto » continuò Erin, guardandosi attorno incuriosita.
« Grazie »
Ripiombò il silenzio ma questa volta fu Tyra ad interromperlo:
« Posso offrirvi qualcosa da bere? »
Sperò in una risposta affermativa, come pretesto per allontanarsi momentaneamente dalla stanza. Aveva bisogno di calmarsi, in quanto la gioia di rivedere suo figlio, che si era recato lì spontaneamente, l’aveva fin troppo esaltata. Se avesse saputo che dietro quella visita c’era l’intervento dell’ex marito, probabilmente la sua eccitazione si sarebbe ridimensionata, ma ciò che più contava, era che Castiel fosse lì. Il resto era assolutamente secondario.
La presenza di Erin si stava rivelando fondamentale, in quanto alleviava la difficoltà di comunicazione tra di loro, oltre che esercitare un influsso positivo sul rosso.
Mentre era in cucina, impegnata a disporre dei bicchieri su un vassoio in acciaio, Erin aveva approfittato di quell’allontanamento per mettere in riga l’amico:
« Se non inizi a parlare con tua madre, sappi che non ti farò più copiare durante le verifiche »
« C’è Affleck per questo e, senza offesa, ma prendo pure voti più alti quando guardo da lui » farfugliò lui di rimando, con aria scocciata.
« Allora la settimana prossima studiate insieme Biologia, visto che vi piace tanto » lo rimbeccò l’altra, con sarcasmo.
Il rosso sospirò, sollevando le mani in segno di arrendevolezza:
« Quanto rompi le palle quando ti ci metti… »
« E tu continua a fare finta che ti dia fastidio » concluse lei, con una smorfia ironica.
Lui si morse il labbro, ridacchiando a sua volta.
E vaffanculo Erin, tu e la tua capacità di fregarmi sempre con quel sorriso” pensò, tra sé e sé. Adorava quando lei s’intrometteva nella sua vita perché sapeva che ogni azione della ragazza era dettata dal suo altruistico desiderio di vederlo felice. Poteva insultarla in ogni modo, criticare ogni suo tentativo maldestro di suscitare una reazione in lui, ma di fatto avrebbe solo voluto ringraziarla per la sua costante e ingiustificabile capacità di sopportarlo, restandogli sempre accanto. La sua ottusità nell’essere così cieca di fronte ai sentimenti che nutriva per lei era una garanzia per Castiel, che gli concedeva la possibilità ogni tanto di perdersi a guardarla con dolcezza, riflettendo su quanto fossero profondi i sentimenti che lo legavano a lei. Suo malgrado, sua madre non era altrettanto distratta quanto la mora e, rientrando in salotto in quel momento, ricevette quella conferma che aspettava da parecchi minuti.
Sorrise tra sé e sé, mentre appoggiava il vassoio, Appoggiò il vassoio, facendo leggermente tintinnare i bicchieri.
« Signora Black, lei che lavoro fa? » esordì Erin prontamente, per inserire la donna nella conversazione.
« Chiamami Tyra » le concesse con un sorriso conciliante « comunque sono una commessa »
« Perché ero convinta che fosse un hostess? » domandò la mora, guardando Castiel che, però, non si degnò di risponderle.
« Perché in passato lo sono stata. Poi quando ho conosciuto il mio secondo marito, il padre di Hailey, ho abbandonato quel lavoro. Era difficile tenere in piedi una famiglia »
« Si impara dai propri errori » commentò Castiel.
A quelle parole, Tyra sospirò mortificata, abbassando poi il capo, mentre l’amica storse le labbra. Solo un opprimente senso di colpa poteva giustificare la sua arrendevolezza di fronte ai modi sgarbati del figlio. Tyra aveva sicuramente commesso degli errori, ma Erin non poteva accettare che Castiel glieli rinfacciasse continuamente. Non era un atteggiamento maturo, e soprattutto, sua madre non se lo meritava. Come se ciò non bastasse, la sofferenza di quella donna era irrimediabilmente legata a quella del rosso che, per quanto potesse negarlo, avrebbe cambiato quella situazione se solo il suo orgoglio glielo avesse concesso:
« Hailey quanti anni ha? »
Anche quella domanda fu abbastanza inutile, dal momento che Erin ne conosceva già la risposta, ma avrebbe parlato anche di fisica quantistica, se ciò le avesse permesso di far riprendere il dialogo.
« Nove » le confermò per l’appunto la donna.
« Pensa che potrei provare a parlarle? »
Quel pensiero era sfuggito alle sue labbra, prima ancora che Erin realizzasse di averlo formulato.
Il desiderio di continuare a parlare con la donna improvvisamente le era apparso secondario rispetto alla curiosità di conoscere quella solitaria bambina. Si era seduta su quel divano foderato in velluto da pochi minuti, e già voleva abbandonarlo.
Quella proposta aveva lasciato perplessa Tyra, che la ponderò attentamente. Permettere ad Erin di abbandonare la stanza, significava dover rinunciare al suo effetto calmante sul malumore del ragazzo. Era ridicolo che lei, seppur fosse sua madre, provasse quello spiacevole disagio in presenza del figlio, ma la paura di dire qualcosa di sbagliato era troppa.
« Certo, la sua stanza è la seconda a destra » le indicò infine.
Mentre Erin spariva dal soggiorno, Tyra cercò lo sguardo del figlio, optando per una considerazione che sperava, li facesse andare nella giusta direzione:
« La tua ragazza è molto carina »
« Non è la mia ragazza » la gelò lui « è solo un’amica »
Si alzò dal divano e si diresse verso la finestra, mentre una piega amara esprimeva la delusione della madre. Erin doveva essere quindi una sua amica, semplicemente un’amica, ma era sicura di non essersi sbagliata circa le emozioni che suscitava nel ragazzo. Conosceva ogni sfumatura dello sguardo di Castiel, meglio di chiunque altro. Erano gli stessi occhi di cui si era innamorata venticinque anni prima, quando uno studente squattrinato era salito sulla sua stessa metro.
« Perché hai cambiato lavoro? Non lavoravi in banca fino a tre mesi fa? »
Quella domanda la colse di sorpresa, tanto era assorta a rinvangare il giorno in cui aveva conosciuto Frank Wright, il padre di Castiel.
« Sono rimasta sola, Castiel, e non ho nessuno a cui lasciare Hailey » riepilogò « sono la sua tutrice legale. Ho fallito già una volta come genitore, non posso farlo una seconda »
Tanto lei quanto il rosso sapevano che a quell’estrema considerazione non sarebbe seguita alcuna parola di conforto. Eppure, ne bastava mezza da parte del ragazzo per sciogliere un’amarezza frutto di anni di rimpianti, rancori e sensi di colpa. Il rosso sentì una forte rabbia montargli in petto, scaturita da una responsabilità condivisa da entrambi se la situazione era così delicata. Si odiava per non riuscire a perdonare sua madre per aver mandato in frantumi ciò che per lui era così importante: la famiglia. Odiava sé stesso per essere rimasto a guardare, fingendo impassibilità solo per assecondare un orgoglio che troppe volte si era rivelato controproducente. Non aveva versato una lacrima quando i suoi avevano annunciato il divorzio, né sbattuto porte, né urlato. Aveva annuito, come se la cosa non lo riguardasse e si era ficcato un paio di cuffiette che lo avevano isolato in quel mondo in cui si era sempre sentito a casa.
Da quel giorno, avrebbe sempre associato la musica dei Radiohead come una delle colonne sonore più malinconiche della sua adolescenza.
« Non ho mai pretesto che tu e papà restaste insieme » dichiarò, osservando con disinteresse il panorama all’esterno « non avrebbe avuto senso arrivati a quel punto… mi bastava che non ve ne andaste »
« M-ma sei stato tu a proporre l’emancipazione legale » obiettò Tyra, che non riusciva a capire il senso di quanto le stava dicendo il ragazzo. Non le stava rinfacciando la separazione tra lei e suo marito, ma quella di loro due, in quanto genitori da lui. I sensi di colpa aveva finito per offuscare il buon senso di entrambi, che avevano stabilito che assecondare qualsiasi richiesta del figlio fosse l’unica soluzione per redimersi ai suoi occhi. 
« Solo perché speravo di sentirmi dire di no » sorrise amaramente il ragazzo, mentre la stabilità emotiva di Tyra iniziava a vacillare « ma voi, schiacciati dai sensi di colpa, avete pensato ad esaudire quella mia egoistica richiesta. Così facendo, mi avevate dato una conferma che temevo da anni… »
Lei scuoteva leggermente il capo, ma quel debole gesto di diniego non era sufficiente ad arginare Castiel, che concluse:
« … la conferma che non siamo mai stati una vera famiglia »
La sua rabbia era troppa.
Doveva andarsene, altrimenti le avrebbe fatto male, ancora una volta. Irrimediabilmente.
 
Erin si era avvicinata alla porta della stanza in punta di piedi.
Provò a bussare, senza ottenere risposta.
« Hailey? » la chiamò titubante.
Anche quel tentativo di catturare l’attenzione si concluse con un fallimento, dato che l’unica replica che ottenne fu un silenzio tombale. La ragazza provò allora a socchiudere lentamente la porta:
« Posso? »
Entrò in una stanza con le pareti color crema e un’ampia finestra aggettante su un cortiletto interno. Si guardò attorno ma non riuscì a trovare la proprietaria della cameretta. Convinta che la stanza fosse deserta, fece per uscire, quando sentì una vocina chiederle:
« Chi sei? »
« Mi chiamo Erin » rispose prontamente, cercando di captare la provenienza di quella voce.
« Sei un’amica di Castiel? »
Attese qualche secondo, fissando il materasso, poi esclamò:
« Esatto. Tu dove sei? »
Non ottenne alcuna replica così ridacchiò:
« D’accordo signorina! Caccia al tesoro! »
Era piuttosto scontato quale potesse essere il nascondiglio della bimba ma, nel discutibile tentativo di strapparle un sorriso e metterla a proprio agio, la mora iniziò a cercarla nei posti più assurdi:
Aprì l’armadio, controllò dietro ad una pila di peluche e perfino dietro un quadro appeso alla parete.
« Forse sei un folletto e ti sei nascosta dentro il cassetto della scrivania… » ragionò con solennità, aprendolo. Sentì una leggera risatina che le confermò di aver fatto una piccola breccia nell’animo di Hailey.
« Niente da fare, proviamo allora sotto il tappeto! »
« Mica sono una formica! » ridacchiò la piccola fuggitiva.
« Hai ragione » borbottò Erin divertita, accucciandosi all’altezza del tappeto ma, anziché sollevarlo, ruotò il capo sotto il letto « però sei abbastanza piccina da stare sotto un letto » convenne con un sorriso gentile.
Fu quella la prima volta in cui gli occhi della ragazza si posarono su Hailey Banks.
Il loro primo incontro era destinato a diventare un ricordo speciale e nostalgico nel cuore di quella bambina, che nemmeno crescendo, avrebbe perso quella timidezza che la rendeva così adorabile. Hailey corrucciò le labbra, in imbarazzo, e strisciò fuori dal letto, portando con sé un po’ di sporcizia. Si mise in piedi, spolverando via dei residui, mentre Erin la studiava con tenerezza. Aveva dei boccoli biondo cenere, un po’ crespi ma luminosi. Le labbra erano sottili e gli occhi leggermente a mandorla, con un paio d’iridi scure. Si accucciò alla sua altezza e, con fare materno, le liberò i capelli biondicci da una nuvoletta di polvere:
« Sei proprio una bella bambina, Hailey… e assomigli pure ad un folletto »
« Cos’è un folletto? » bisbigliò quella voce cristallina, mentre Erin ridacchiava divertita.
« E’ una creaturina che vive nei boschi » spiegò rimettendosi eretta.
La bimba la scrutava con il timore di un cucciolo impaurito che è combattuto tra l’istinto di nutrirsi e la diffidenza verso chi gli sta offrendo del cibo. Dal canto suo, la mora non poteva che intenerirsi di fronte a tanta insicurezza, anche perché in parte le ricordò la sua di quando era bambina.
« Erin, andiamo »
Le due si voltarono verso la porta, in cui aveva appena fatto la sua comparsa Castiel. Aveva un’aria imbronciata, mentre controllava l’ora sullo schermo del cellulare.
Hailey sgranò gli occhi con attenzione, guardando da vicino quel ragazzo di cui tanto le aveva parlato Tyra. Le aveva detto che suo figlio era alto come suo papà Cody, aveva delle spalle larghe e gli occhi grigi. Per un attimo, vide la figura di suo padre sostituire quella del ragazzo e reprimere l’impulso di correre ad abbracciarlo fu particolarmente difficile. Anche se aveva faticato a crederci, Castiel aveva davvero i capelli rossi, un rosso acceso, scarlatto, il suo colore preferito.
« Di già? » stava protestando la mora « ma se siamo appena arrivati! »
« Siamo rimasti anche troppo » la liquidò lui, facendole il gesto di sbrigarsi.
Gettò un’occhiata fugace verso la bambina accanto all’amica ma non si soffermò troppo a fissarla. I mocciosi non erano il suo forte, non sapeva far loro moine e abbassarsi ad un livello di idiozia che potesse creare una sintonia tra le parti. A malapena riusciva ad interagire con gli adulti come lui.
« Muoviti, ti aspetto in macchina » tagliò corto.
Lo aveva lasciato da solo per pochi minuti ed erano bastati per compromettere rovinosamente quell’incontro. Fece per seguirlo, solo con l’intento di ritrattare quella posizione quando qualcosa le strattonò il maglioncino.  
Si voltò, notando cinque dita minuscole che lambivano saldamente il lembo di stoffa. Pure il rosso si era accorso del movimento brusco ed innaturale dell’amica, girandosi incuriosito:
« Non andare via, Erin » sussurrò Hailey.
Guardò di sottecchi Castiel, che dall’alto del suo metro e ottantasette la troneggiava e distolse subito lo sguardo, spaventata. Diversamente da lei però, la mora non si sarebbe lasciata intimorire da qualche occhiataccia sbieca, così dichiarò risoluta:
« Se vuoi che resto, Hailey, allora non mi muovo di qui » e si voltò, per fare la linguaccia all’amico.
Più quella stretta durava, più lei sentiva che si stava instaurando un legame con quella bambina. Non le importava che non fosse la sorella biologica di Castiel. Il fatto stesso che avesse bisogno di compagnia era sufficiente perché lei non abbandonasse quella stanza.
« Erin… » brontolò l’amico con la stessa determinazione rassegnata di chi sa già di aver perso la battaglia.
« Non vorrai negare ad una bambina il piacere della mia compagnia? » si pavoneggiò lei con teatralità. Ne guadagnò uno sbuffo contrariato, che valse come segno della sua arresa.
« Hai visto Hailey? Questo invece è un orco, ma basta un po’ lavorarselo e farà tutto quello che vuoi tu »
 
Sophia non era una persona paziente, tendeva piuttosto a lasciarsi dominare dall’impulso di attaccare la gente, specie quando veniva meno quella base di rispetto che dovrebbe essere reciprocamente garantita all’interno di una società umana.
« Come le ho già spiegato signora » ripetè la commessa accanto a lei « non c’è nessun errore da parte nostra, è la sua carta che viene respinta »
Nora aveva pronunciato quella frase già tre volte, ma la cliente si ostinava a non accettare quell’umiliante realtà:
« Non è possibile! » ripetè la donna, con un’espressione alquanto indignata e alterata. Strappò violentemente dalle mani della ragazza la tessera, che boccheggiò senza emettere alcun fonema « siete voi ragazzine incompetenti che non sapete neanche fare un lavoro così semplice »
La giovane abbassò lo sguardo mortificata e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso di nome Sophia. Quella vipera bionda ossigenata non poteva approfittarsi della fragilità e insicurezza della sua collega, non gliel’avrebbe permesso:
« Se non ha liquidità per pagare un misero paio di cuffiette, non deve prendersela con noi! » la attaccò la rossa, ignorando il cliente che stava servendo.
Vide le narici della donna allargarsi, inspirando profondamente in preda ad un imminente attacco isterico.
« Sophia calmati! » cercò di sedarla Nora « non ti scaldare »
« Come osi, ragazzina impertinente? Tu non sai chi sono io! » si puntò contro la donna.
« Una gran cafona! »
La cliente spalancò la bocca, pronta ad urlare inviperita, quando si sentì chiamare alle spalle:
« Mamma? »
Conosceva quella voce.
Del resto l’aveva messa al mondo lei.
Anche Sophia, analogamente alla donna che le stava davanti ebbe un sussulto.
Era da oltre due settimane che non vedeva quel ragazzo, ma non per questo si era dimenticata di lui.
Non per questo, i sentimenti che erano nati in lei, si erano intiepiditi.
Nathaniel si avvicinò con passo deciso al bancone, affiancando la donna che aveva appena definito come sua madre.
Sulla sua pelle delicata, il sole delle Bahams aveva lasciato un leggero rossore ambrato, più che una vera ed invidiabile abbronzatura. Quel pizzico di colore in più, unito agli effetti schiarenti dei raggi solari sulla sua chioma, lo rendevano ancora più bello.
Ancora più intrigante e, purtroppo per Sophia, attraente.
« Che ci fai qui? » si rivolse con durezza alla donna, ignorando la rossa che lo fissava sbalordita.
« Oh tesoro, che coincidenza! » squittì lngrid il cui viso riprese rapidamente l’espressione indignata di poco prima « andiamo via… in questo squallido negozio non accettano le carte di credito »
Nathaniel guardò interrogativo Sophia, il cui cliente aspettava di essere servito. Accanto a lei c’era una ragazza di nome Nora, stando al suo cartellino, che fissava il pavimento sull’orlo delle lacrime.
« N-non sapevo fosse tua madre » borbottò la rossa a disagio.
« Conosci questa maleducata? » velenò Ingrid, arricciando il naso.
« E’ la gemella di Erin » replicò candidamente il biondo, ancora confuso. La madre squadrò da capo a piedi la giovane commessa, vestita con l’uniforme del negozio, rappresentata da una dozzinare t-shirt nera e un inappropriato ed inutile capellino da baseball. I capelli corti e sfibrati erano in disordine, le unghie per nulla curate e non un velo di trucco era stato usato per donare luminosità a quello che sembrava un viso spossato.
« Non ha la metà dell’eleganza di sua sorella » decretò.
All’umiliazione di essere offesa, si aggiunse quella di dover sopportare quell’insulto davanti al ragazzo di cui era innamorata. Eppure, per quanto quelle parole l’avessero ferita, Sophia sapeva di meritarle.
Le meritava perché erano vere.
Non reagì e fu quell’atteggiamento annichilito a scatenare qualcosa nel biondo. Non avrebbe permesso a sua madre di demolire lo spirito di Sophia così come aveva fatto con Ambra per tutta la vita.
Le afferrò con cattiveria il polso, trascinandola fuori dal negozio:
« Possibile che tu sappia sempre e solo dire la cosa sbagliata? » ringhiò, non appena furono abbastanza isolati dal resto dei passanti. La donna lo fissò sconvolta, come se non capisse il senso delle sue parole:
« Ma come Nath, non sei contento di vedermi? Io pensavo di farti una bella sorpresa… » titubò sconcertata.
« E farti trovare in un negozio mentre imprechi e dai spettacolo sarebbe una bella sorpresa? Dio mamma, ti rendi conto che hai ferito quella ragazza? Non ti è bastato quello che hai fatto ad Ambra per tutta la vita? »
Ingrid boccheggiò confusa, prima di articolare:
« Come sarebbe a dire? Che cosa ho fatto di sbagliato a tua sorella? »
Nathaniel sospirò pesantemente, cercando di calmarsi. No, non era né il momento né il luogo per rinfacciarle tutti i suoi errori educativi.
« Cosa ho sbagliato? » era tornata a ripetere Ingrid, sempre più confusa e spaventata.
Cavolo. Era andato da Sophia per parlarle della preoccupazione del dottor Wright, per capire che cosa le impedisse di presentarsi alle visite di controllo settimanali, ed invece aveva trovato sua madre ad insultarla. Sua madre continuava a ripetere quella domanda, ma non ottenendo alcuna risposta, mormorò infine:
« Non ti riconosco, Nathaniel »
« Perché sono cambiato… e credo che la cosa non ti piacerà » aggiunse lui.
 
Erin era seduta per terra, intenta a mostrare dalla galleria del suo smartphone, una serie di foto di amici e parenti. Hailey ascoltava rapita ogni descrizione, serrando le labbra ad ogni domanda che la timidezza le impediva di porle. Avrebbe voluto che la ragazza le parlasse ancora di quel ragazzo con i capelli azzurri, della sua amica con quel visetto a cuore e la chioma viola, del tipo con i vestiti bizzarri… agli occhi di quella bambina, la vita di Erin appariva perfetta, corredata di amicizie ed affetti.
« Posso usarlo? » domandò la bambina d’un tratto, indicando il cellulare.
La mora annuì, un po’ sorpresa da quella richiesta e glielo porse, spiegandole poi come sbloccare la schermata.
Alle loro spalle, seduto sul divano, Castiel osservava le due con curiosità ed attese che Hailey sparisse in qualche angolo della casa, prima di obiettar diffidente:
« Sei sicura di volerle lasciare il cellulare? »
Erin si voltò allora verso di lui:
« Ci starà attenta » commentò Erin ingenuamente.
Il rosso scosse il capo poco convinto e si allungò verso il telecomando della TV, sintonizzandola su un canale di motori. Sua madre si era congedata poco prima, giustificandosi con la necessità di fare la spesa. Seppur quel pretesto non fosse una bugia, era anche vero che ne approfittò per trovare un po’ di serenità, con cui affrontare il figlio.
Quando il rosso, poco prima, si era deciso a lasciare l’appartamento, dopo appena dieci minuti che vi era entrato, lei si era sentita morire, come la speranza che era affiorata in lei la prima volta che aveva sentito la sua voce al campanello. Eppure, non aveva nemmeno tentato di dissuaderlo. Quella sorta di ignavia era dettata solo dalla consapevolezza di non avere alcun diritto di imporre la sua volontà, condannandola alla rassegnazione.
Lui aveva così lasciato il salotto, per annunciare quella decisione inappellabile alla sua amica, ma era ritornato con un’espressione imbronciata, in netto contrasto con quella allegra di Erin. Dietro la mora, faceva seguito la piccola Hailey, con un sorriso dolcissimo, che da tempo Tyra non riusciva a farle nascere in viso.
« Quanto guanciale signora? »
La donna si destò dai suoi pensieri, ricordandosi solo in quel momento di essere entrata in macelleria:
« Tre etti. Devo preparare la pasta preferita di mio figlio, mi dia il pezzo migliore »
 
« Quando torna tua madre, cerca di essere più disponibile, Cas. So che ci sono delle questioni irrisolte tra di voi, ma è un ulteriore motivo per tentare un dialogo, no? Mica puoi serbarle rancore a vita »
La sparizione di Hailey aveva fornito alla ragazza il momento per affrontare quell’argomento. Non gli avrebbe permesso di rovinare la giornata a tutti. Per quanto la riguardava, nutriva già dell’affetto per Hailey e non poteva che provare empatia per l’atteggiamento remissivo di Tyra.
« Chi ha detto che non posso? » farfugliò lui, abbassando il volume del televisore. Quel semplice gesto, bastò ad Erin come dimostrazione indiretta che non gli dispiaceva intavolare una conversazione, anche se l’argomento non era dei più piacevoli.
« Non fare l’immaturo » lo rimproverò bonariamente.
Lui sbuffò, spaparanzandosi sul divano, mentre lei gli si avvicinava ulteriormente. Piegò il busto sopra di lui, avvicinando la sua faccia a quella del ragazzo.
Troppo vicina.
« Eddai, solo per oggi » patteggiò, con voce supplicante « me lo prometti? »
« N-non ti prometto un tubo! » sbottò lui in difficoltà.
« Erin, non funziona più »
Quella vocina colpevole fece voltare i due, verso la figura minuta di Hailey, incurvata nelle spalle. La bimba allungò il cellulare alla ragazza, che era sbiancata:
« C-come non funziona più? »
« Che ti dicevo? » disse l’amico « non dovevi lasciarglielo »
Erin controllò lo schermo, mentre Hailey era sempre più a disagio.
Approfittando di quel musetto abbassato verso il soffitto, Castiel scrutò meglio quel corpicino timido e introverso, al quale non aveva ancora degnato attenzione. Era troppo preso a tenere lontano sua madre ed tenere testa alle insistenze di Erin. Hailey sembrava nutrire una sorta di reverenziale timore nei suoi confronti, quasi ne fosse spaventata.
« Non è rotto, Hailey » la tranquillizzò la mora, accarezzandole il braccio « vedi? Ha solo la memoria piena »
La voce le era uscita in un dolce sussurrò, che lenì ogni ansia e preoccupazione della piccola. Castiel non ebbe neanche il tempo di intenerirsi per tanta premura, che si trovò Erin a fissarlo decisa:
« Prestale il tuo » gli ordinò, senza tanti giri di parole.
Lo vide irrigidirsi e impugnare saldamente un oggetto che teneva in tasca.
« Scordatelo » ringhiò, cambiando radicalmente espressione e scattando sulla difensiva.
Erin però non si fece intimorire e gli saltò addosso, con l’intento di strapparglielo dalle mani. Si lanciò prona sopra di lui, stagliandolo completamente sul divano, mentre le sue mani cercavano di lottare nel tentativo di raggiungere la tasca dei jeans.
« Dammi il cellulare, Ariel! » rideva Erin, mentre il nemico cercava di opporre resistenza, schiacciato dal corpo della ragazza.
« Col cazzo! »
« Cazzo… » ridacchiò la bambina, facendoli voltare entrambi verso di lei:
« Non insegnarle parolacce, idiota! » lo rimproverò la mora, tornando a lottare per la conquista dello smartphone.
« Idiota » sghignazzò Hailey.
« Perché non vuoi darmelo? » si arrabbiò Erin.
« Perché ci sono cose private qui dentro » le sussurrò lui a denti stretti, nel tentativo di non farsi udire dalla bambina.
« Tipo? »
« Private! » ripeté il rosso imbarazzandosi.
« Roba porno? » chiese la mora a voce troppo alta, pietrificandosi indignata.
« Cosa vuol dire “roba porno”? » domandò ingenuamente Hailey, facendo voltare nuovamente i due.
Erin deglutì nervosamente, mentre Castiel le lanciava un’occhiataccia sprezzante, se non altro incuriosito dalla spiegazione che le avrebbe propinato l’amica.
« V-vuol dire che due persone si stanno appiccicate » balbettò Erin in difficoltà.
« Quindi voi adesso state facendo una roba porno? » riassunse Hailey con candore.
Realizzarono solo allora quanto ravvicinati fossero i loro visi, quanto i loro corpi fossero incollati l’una all’altro. Castiel avvertiva nitidamente la forma del seno della ragazza, pur avendola sempre definita piatta, contro il suo petto e la gamba di lei sfiorargli l’inguine. Si irrigidì all’istante e prima che quella reazione si estendesse anche alle zone più intime, allontanò Erin con poca grazia. Lei, dal canto suo, era rimasta ipnotizzata per qualche secondo dai suoi occhi grigi, che non ricordava di aver mai osservato così da vicino. Era persa nella loro contemplazione da non accorgersi dello shock che stava causando all’amico. Per questo, l’impetuosità con cui l’amico la allontanò la colse impreparata:
 « Scema » la riprese Castiel, cercando di attenuare il proprio imbarazzo.
« Hailey, fammi vedere la tua stanza! » propose Erin, mettendosi in piedi e allontanandosi frettolosamente dall’amico. Si dileguarono in pochi secondi, mentre la bambina fissava la mora incapace di capire cosa fosse accaduto d’un tratto. Castiel tornò seduto e si grattò il capo in difficoltà.
Da quando era tornato da Berlino, gli sembrava di incappare fin troppo spesso in situazioni imbarazzanti con Erin. Doveva imparare a prevederle o soffocarle all’istante, perché anche all’ottusità amorosa della ragazza doveva esserci un limite. Limite che non intendeva superare.
 
Quella casa puzzava di vecchiume come la prima volta che c’era stata.
La odiava e con il passare degli anni il suo risentimento per quelle mura non era diminuito.
« Bevi quel brodo e non fare tante storie »
Mackenzie lanciò un’occhiata gelida all’anziana donna, seduta all’altro capo del tavolo.
« E smettila di guardarmi così. Sembri tua madre » gracchiò quest’ultima. Spolverò del pane grattugiato nella scodella, facendo inorridire la ragazza per quell’abbinamento gastronomico.
« Tuo nonno è sempre stato fin troppo indulgente con Dianne… e guarda ora com’è finita » continuò Mary. La strega era la matrigna di sua madre, rimasta vedova pochi anni prima. Nonostante tra lei e Dianne non fosse mai corso buon sangue, quella vecchia bisbetica rappresentava l’unico appoggio a cui la donna potesse affidarsi.
« Tuo padre continua a bere, non è così? » malignò « tua madre non ha voluto ammetterlo, ma scommetto che quel fallito avrà pure problemi al gioco »
Mackenzie strinse i pugni.
Odiava Mary. Era una persona cattiva.
Odiava suo padre. Non era nemmeno una persona. Era una bestia.
E in quel momento odiava pure sua madre Dianne, che sin dalla sua nascita, le aveva rovinato la vita con persone così spregevoli:
« Me ne andrò di qui! » dichiarò, alzandosi dal suo posto « e tornerò da mamma »
« E come pensi di fare, sciocca? » la derise Mary « non hai un soldo! Come credi di pagarti un affitto? »
« Inizierò a lavorare nei weekend »
La padrona di casa ghignò beffarda ed incrociò le braccia al petto, sfidando la determinazione della sedicenne.
« Perché non lavori a tempo pieno allora? Un mio amico potrebbe chiudere un occhio sulla tua età e farti lavorare come cameriera. Sedici anni o diciotto non fa alcuna differenza »
Mackenzie ponderò quelle parole, ne valutò ogni aspetto. Quella di Mary non era un’offerta scaturita dal desiderio di aiutarla, quanto un pretesto per farla litigare con Dianne.  Aveva promesso a sua madre che, qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe lasciato la scuola. Le aveva fatto promettere che in quella nuova scuola si sarebbe impegnata, avrebbe addirittura cercato di integrarsi con i compagni, cosa che le era sempre costata non poche difficoltà.
« Vaffanculo, Mary »
Abbandonò la stanza e si lasciò alle spalle le urla isteriche della donna, che le rinfacciava la sua ingratitudine, oltre ad una serie di epiteti irripetibili per una persona educata e civile. L’unica replica di Mackenzie, fu una porta sbattuta con quanta più violenza le fosse possibile.
 
Durante il pranzo, Erin studiò di sottecchi ogni mossa di Tyra. La donna masticava in silenzio, sorridendo gentile a ogni sua battuta e lanciando talvolta qualche occhiata fugace al figlio. Parlava solo quando interpellata e le domande che le venivano rivolte provenivano sempre dall’ospite femminile.
« Così avete sempre vissuto a Morristown… » stava commentando la mora.
« Sì, anche se Castiel è nato a New York »
« Ah non lo sapevo… quanto pesava quando è nato? »
L’amico le incenerì con lo sguardo, ma lei non si lasciò intimidire:
« Quasi quattro chili »
« Caspita! Deve essere stato un parto doloroso! » replicò, sgranando gli occhi esterrefatta.
Tyra sorrise dolcemente e, mentre Castiel era distratto da Hailey, le sussurrò:
« Sì ma ne è valsa la pena solo per la gioia di averlo tra le braccia »
« Com’era Castiel da piccolo? » s’incuriosì la mora, mentre l’amico tornava a prestare loro attenzione:
« La pianti? »
Lei però lo ignorò ancora una volta e tenne lo sguardo fisso su Tyra che, pur sentendosi tra due fuochi, spiegò:
« Era impossibile tenerlo fermo. Aveva sempre qualcosa da fare, e chissà perché, il più delle volte al limite dell’incoscienza »
« Eravate voi a preoccuparvi troppo » bofonchiò il rosso.
« Ti sei rotto tre volte il braccio e due la gamba » gli ricordò la madre « come quella volta in cui ti sei arrampicato sull’albero della scuola perché dicevi di aver visto un Pomokén su un ramo »
« Un Pokémon » la corresse Castiel, mentre Erin ridacchiava.
« Sì insomma, quei mostriciattoli che andavano di moda in quegli anni » sorvolò Tyra, versandosi dell’acqua. Le sorse spontanea una smorfia sollevata, dettata dalla soddisfazione per quel piccolo scambio di battute con il ragazzo, per una volta non rappresentato da grugniti e silenzi.
« Deve essere stato una peste allora » s’intromise Erin divertita.
La donna sollevò le spalle, replicando:
« Era vivace e testardo, questo sì… e tremendamente orgoglioso, pur essendo così piccolo. Era adorabile quando c’era qualcosa che lo colpiva ma non voleva darlo a vedere »
« Tipo? » la incoraggiò la ragazza, mentre Castiel lottava con il suo caratteraccio per non farsi sopraffare dall’imbarazzo. Aveva promesso ad Erin che avrebbe cercato di comportarsi da persona civile, ma quel tipo di conversazione lo stava mettendo a profondo disagio e, in situazioni come quelle, tendeva a reagirecon la scontrosità. Controllarsi si stava rivelando particolarmente difficile.
« Beh, per esempio ricordo una volta in montagna… aveva l’età di Hailey » iniziò a raccontare la padrona di casa « continuava a chiedere a suo padre di tornar al lago dove erano stati il giorno prima, senza mai dirci il perché avesse tutta questa urgenza. Solo un mese dopo, per caso, mentre stava chiacchierando con Nathaniel, ho scoperto che lì aveva conosciuto una bambina »
Il sorriso di Erin divenne ancora più largo ma fu costretta a sopperire con esso, l’eccitazione scaturita dalla consapevolezza di essere stata lei il primo piccolo amore del ragazzo. Il rosso borbottò una frase sconnessa, che doveva valere come intimidazione a zittire Tyra, ma questa proseguì, deliziata dall’instaurarsi di un dialogo dopo tanti prolungati silenzi.
« Doveva piacerti proprio, visto che hai descritto tutta la scena nei dettagli… persino i vestiti, che a te non interessano mai… aveva un vestito giallo con i fiori, mi pare »
« No, erano stelle » risposero in coro Castiel ed Erin.
Gli sguardi dell’amico e di sua madre si concentrarono su di lei e il primo esternò sorpreso:
« E tu come lo sai? »
Gli occhi di Erin si sgranarono ed palleggiarono da una parte all’altra della stanza, quasi potesse trovare un suggerimento per rimediare a quella gaffe.
« M-me l’avevi racconto tu » balbettò, maledicendosi per essersi tradita.
Lui però non battè ciglio, scrutandola sospettoso:
« Non ti ho mai detto come fosse vestita » asserì sicuro. Castiel continuava a fissarla mentre Erin continuava a rifuggire a quegli occhi grigi. Come poteva spiegargli il perché non glielo aveva mai detto? Per la verità, nemmeno lei sapeva darsi una motivazione certa. Un po’ era la convinzione che prima o poi avrebbe lasciato trapelare quella verità, un po’ era il desiderio di custodire gelosamente quella piccola chicca del loro passato.
Notando l’imbarazzo della ragazza e la pensosità del figli, Tyra adottò un atteggiamento diplomatico e discreto, coinvolgendo con esso anche la piccola:
« Hailey, aiutami a sparecchiare »
Le due si rintanarono nella cucina e, appena il rosso sentì il rumore dell’acqua corrente, iniziò a stuzzicare l’amica incuriosito:
« Avevamo detto niente segreti eh? »
Erin però non replicava e continuava a tenere lo sguardo fisso sul piatto ormai vuoto. Si mordicchiava il labbro inferiore, gesto che le era così tipico nei momenti di disagio. Doveva farla parlare, altrimenti avrebbe finito per baciarla, tale era l’attrazione che provava nel vederla così in difficoltà.
« Fammi indovinare… era tua sorella Sophia » dedusse, considerando la reazione dell’amica.
« -ella bambina »
« Come? » gracchiò Castiel, allungandosi verso di lei.
« Ero io quella bambina » ripetè la ragazza, a voce più alta.
Castiel si zittì, confuso. Intuendo quale fosse la sua perplessità in quel momento, la mora aggiunse:
« Io e Sophia all’epoca ci divertivamo a scambiarci i nomi quando eravamo in vacanza. Lo so, è una cosa stupida, ma da bambine ci divertiva. Ero io quella che hai conosciuto a Rockville »
L’amico boccheggiò, prima di esternare:
« Perché non me l’hai detto quando te l’ho raccontato? »
Lei fece spallucce, arrossendo:
« Beh, te l’avrei detto prima o poi… »
« E per fortuna che eri tu quella che ha proposto che non ci fossero più segreti tra di noi» la canzonò.
Era piacevolmente sorpreso da quella notizia. Non si curò di averla definita il suo primo amore, la prima volta che le aveva raccontato di quell’episodio. Con ogni probabilità, per la ragazza quel dettaglio era talmente secondario, da aver finito per scordarlo.
« Quel patto non funziona, eh? » mormorò divertito.
Erin stava per replicare, quando si sentì strattonare la maglia e, abbassando il capo, si trovò di fronte il visino di Hailey.
« Posso avere il cellulare adesso? » miagolò con vocina flebile.
La ragazza, dopo un’iniziale perplessità, scovò nelle tasche, consegnandole l’apparecchio. La bambina fuggì  in cucina, mentre Castiel commentava:
« E’ proprio fissata con i cellulari »
« Mi chiedo perché » considerò Erin, mentre si alzava per impilare i piatti sporchi. La bimba le aveva fornito un diversivo per il disagio in cui era piombata. Castiel stesso non insistette per avere ulteriori spiegazioni, ridacchiando tra sé e sé. Si presentarono entrambi in cucina, in cui Tyra era intenta ad aprire lo sportello della lavastoviglie:
« Oh, ma non dovevate. Erin, sei un’ospite » si premurò.
Quando la ragazza stava per rispondere, si sentì nuovamente strattonare il maglioncino:
« Quante foto posso fare? » le sussurrò Hailey con timidezza.
« Tutte quelle che vuoi » le sorrise « vuoi che le facciamo insieme? » aggiunse.
Gli occhi della biondina iniziarono a brillare, mentre Erin la invitava a seguirla in salotto. Fu così che Castiel rimase solo con la madre, intenta a scrostare una pentola. In un primo momento si sedette svogliatamente su uno sgabello, ma poi, guardando la schiena della donna, si portò al suo fianco. Immerse le mani nell’acquaio in silenzio, iniziando a pulire le posate.
Tyra non disse nulla, ma in cuor suo sentì il cuore traboccarle di felicità. Erano anni che tra lei e il figlio non si instaurava un clima così pacifico. Attese un bel po’ prima di aprire bocca, nel timore di rovinare tutto e finse che quel piccolo gesto l’avesse lasciata indifferente.
 
Hailey aveva guidato Erin nella sua stanza, dove le due avevano deciso di spostare la scrivania. Il tavolo infatti era stato messo al centro della camera e sulla sua superficie avevano distribuito fogli e colori.
« Ti avverto però, Hailey… non so disegnare »
La bambina rimase impassibile e replicò laconicamente:
« Non importa »
Si allungò a prendere un foglio e, dopo averne tenuto uno per sé, posizionò il secondo davanti alla ragazza. Quel tacito invito a disegnare non poteva essere declinato, così Erin sorrise:
« Che cosa disegno? »
« Castiel… »
 
« Erin ci sa proprio fare con i bambini » sussurrò Tyra, sentendo la risata della ragazza provenire da una delle stanze « sarà una brava mamma, un giorno »
Per qualche motivo, quell’ultimo commento fece arrossire Castiel che, per il disagio, non riuscì a replicare.
 
« Non sono sicura che gli somigli… » stava commentando Erin osservando la propria opera. Non era la prima volta che si cimentava nel ritrarre quel soggetto ma, nonostante l’esperienza, le sue pecche artistiche erano fin troppo evidenti. Hailey si allungò a prendere un pastello rosso, porgendolo alla ragazza:
« Se colori i capelli, gli somiglierà »
« Ci vorrebbe mia sorella… lei sì che è brava a disegnare » considerò la mora con una punta di mestizia.
« Hai una sorella? »
Erin annuì, ma non riuscì ad aggiungere altro. Quando aveva fatto vedere una sua foto ad Hailey, aveva liquidato la descrizione definendola la sua gemella e basta.
« Vorrei anche io una sorella »
Il sussurro scaturito dalla bambina accanto a lei la distrasse dalla rossa, strappandole un sorriso:
« Beh, hai Castiel adesso » puntualizzò « è come un fratello maggiore, no? »
La bambina non replicò, chiudendosi nel suo silenzio. Sul suo viso, Erin non riusciva a leggere alcuna emozione significativa. Aveva una sorta di patina apatica, come se vivesse in un mondo tutto suo e osservasse l’esterno con disincanto. La vide afferrare un pastello nero, per colorare i pantaloni, ma il suo tratto era diventato pesante. La mina affondava nel foglio.
 
« Si può sapere perché la nana è così fissata con i cellulari? »
Tyra ignorò quell’appellativo, scorgendo in esso un debole intento provocatorio che non intendeva assecondare:
« Non sono i telefoni in sé ad interessarla… ma il fatto che abbiano una fotocamera »
« E’ appassionata di fotografia? Non è un po’ piccola per- »
« Non è quello » lo interruppe Tyra, allungandogli un piatto che il ragazzo si curò di posizionare nella lavastoviglie « è che ha paura di non avere ricordi… »
Il rosso la fissò interrogativo, mentre la donna avviava l’elettrodomestico. Lo invitò ad accomodarsi su uno sgabello, mentre lei chiudeva la porta della stanza, per assicurarsi che nessun’altro potesse sentire, specie la diretta interessata:
« Cody non amava farsi fotografare, diceva sempre che preferiva stare dall’altra parte dell’obiettivo. Di lui abbiamo pochissime foto, quasi nessuna e, quando dopo la sua morte, Hailey mi ha chiesto di mostrargliele, per lei è stato un duro colpo realizzare che il volto di suo padre poteva vederlo solo nella foto della carta d’identità o in qualche altra in cui però è sempre insieme a qualcun altro… non lo si vede granchè »
« Non ha foto di suo padre? » riassunse Castiel. Vide la madre scuotere il capo, avvilita. Quelle foto che mancavano alla bambina, mancavano anche a lei.
« E così ha iniziato quindi a farmi un sacco di foto, come meccanismo di difesa spuppongo… quella bambina ha elaborato ben due lutti, anche se quando è morta sua madre era molto piccola. Non è pronta a soffrire ancora e fare foto, in modo così ossessivo, è un modo per prepararsi ad un’eventuale e ulteriore sofferenza futura »
« E quindi oggi… »
«Ha usato il cellulare di Erin per fare delle foto a voi due, di nascosto immagino » concluse Tyra « significa che si è affezionata a voi e vuole avere un vostro ricordo »
Castiel non replicò. Quel racconto l’aveva lasciato senza parole e, vedendolo così assorto nei propri pensieri, la madre preferì rispettare il suo silenzio, godendosi quel piccolo dialogo che si era appena concluso tra di loro.
 
Nathaniel e sua madre erano seduti da almeno venti minuti senza aver instaurato una vera e propria conversazione. Ingrid aveva accolto quasi con sollievo l’arrivo del cameriere, ma una volta che questo aveva preso l’ordine, tra i due era piombato quel corroborante mutismo.  La donna aveva prenotato la sua prima cena a San Francisco in uno dei locali più lussuosi della città, sperando che quell’occasione servisse a far da paciere per la discussione di quella mattina.
« Signora Daniels! »
Si sentì chiamare alle spalle, riconoscendo immediatamente la voce di Ian Steward. Era da circa un mese che non lo vedeva, dopo il party di San Valentino, in cui l’ormai fidanzato di Ambra aveva finito per umiliarlo, almeno stando a quanto le aveva riferito il marito. Tuttavia, il colosso della Pear rimaneva una figura più importante rispetto a Gustave e pertanto, secondo gli schemi sociali a cui Ingrid aderiva ciecamente, era meritevole di una sorta di riverenza. Per questo si alzò elegantemente in piedi e chinò leggermente il capo, come a volersi sottomettere, mentre allungava il braccio sottile per un delicato baciamano:
« Bellissima come sempre, Ingrid » le sorrise l’uomo, guardando poi il figlio.
« Mio figlio Nathaniel » spiegò la donna, aspettandosi che il ragazzo si alzasse per porgere la mano all’uomo. Seppur il liceale fosse a conoscenza dell’identità di quell’uomo, non mosse un muscolo, ma si limitò ad un garbato sorriso.
« Molto piacere, signor Steward »
« Nathaniel… » bisbigliò la madre, con un’occhiata riprovevole e, sorridendo ipocritamente, aggiunse a voce un po’ più alta. Aveva inclinato leggermente il capo, in un’esortazione fin troppo plateale a mettersi anch’egli eretto:
« Hai camminato così tanto che ti fanno male le gambe ad alzarti? » lo rimproverò con un sorriso tirato, cercando di trattenere l’irritazione per la sua testardaggine a stare seduto.
« Penso che il signor Stewart non si offenderà per così poco » la sfidò con un sorriso diplomatico.
Di fronte a quella tensione, fu il signor Steward ad intervenire:
« Si direbbe che i suoi figli abbiano preso tutto da suo marito, quanto a carattere » commentò l’uomo, con una smorfia ipocrita. Era abituato ad avere lui l’ultima parola e, nonostante Ingrid fosse intenzionata a lasciargliela, Nathaniel replicò:
« Lo prendo per un complimento »
Ian si congedò con un sorriso falso, augurando ai due una buona cena, mentre Ingrid tornava a sedersi.
« Si può sapere che ti prende? Stewart è uno degli uomini più influenti del nostro settore e un giorno potremo persino diventare suoi soci »
« Soci di quello lì? Papà lo disprezza, preferirebbe chiudere l’azienda piuttosto che diventare un suo affiliato » sbottò Nathaniel.
Ingrid lo guardò incerta, soppesando il ragionamento del figlio, che purtroppo, era fin troppo corretto. Non era così stupida come credevano gli altri. Come lei faceva sì che gli altri credessero che fosse. Sapeva che Gustava non avrebbe mai accettato un simile compromesso, ma per l’ambizione di aumentare i loro introiti, quella donna avrebbe accantonato anche l’orgoglio. In quel momento, la sua fortuna era quella di essere assolutamente ignara della pesante difficoltà economica che gravava sulla ditta di famiglia, difficoltà che giustificava l’increscioso inconveniente di quella mattinata. Non era il lettore del negozio ad avere problemi: era quel conto corrente ad essere stato, a sua insaputa, bloccato.
Nathaniel continuava a sorseggiare il vino, incurante della sua presenza, mentre lei sentiva crescere una sorta di inquietudine. Aveva perso parte della sua raffinatezza ed eleganza, come se si fosse conformato ai ragazzi della sua età. Senza contare l’aggressività con cui l’aveva assalita qualche ora prima, liquidando poi la questione e impedendole di capire cosa avesse sbagliato. Nel suo mondo, fatto di ricchezze e ostentazione delle stesse, nulla poteva essere biasimato. Aveva garantito ai figli un’ottima istruzione e si era prodigata perché entrambi avessero un futuro brillante e sicuro. Aveva fallito con Ambra, dopo anni passati nel tentativo di inculcarle l’importanza di contrarre un buon matrimonio, la figlia aveva finito per innamorarsi di uno studente come tanti della piccola borghesia. Persino suo marito aveva accettato quella notizia, anzi, ne sembrava addirittura contento. Restava solo Nathaniel, il futuro erede della Daniels Co., ma quello che i suoi occhi vedevano davanti, non era lo stesso ragazzo che aveva lasciato Morristown due mesi e mezzo prima.
« Non ti capisco, Natty » mormorò tra sé e sè.
« Lo so… ed è sempre stato così » concluse lui.
 
Ai lati delle strade, nelle aiuole cittadine, iniziavano a spuntare dei timidi ciuffi d’erba, annuncio di una primavera che si stava preparando al risveglio.
« Mio padre ha detto che il tuo suggerimento dell’altro giorno è stato accolto all’unanimità dai suoi dipendenti » stava dicendo Ambra, con un certo orgoglio.
« Quello sul database? » indagò Armin, il cui sorriso trionfante contagiò la sua ragazza.
« Non lo so, mi ha solo detto di dirti che sei un valido consigliere… e ti assicuro che non è il tipo da elargire facilmente complimenti. Gli devi stare proprio simpatico »
« Evidentemente i Daniels hanno un debole per me » scherzò il moro, ricevendo un’occhiata complice. Borbottò quell’ultima frase tenendo in bilico sulle labbra un bastoncino ricoperto di cioccolato. Li avevano acquistati poco prima, insieme ad un block-notes per Ambra.
« Che ci devi scrivere là sopra? »
« Ci appunto tutti gli indizi che riusciamo a cogliere sulla storia del quadro e di Sophia »
Armin emise un fischio di apprezzamento ed iniziò a canticchiare la sigla di Detective Conan:
« Scemo! » ridacchiò lei, dandogli una leggera pacca sul braccio. Scrutò di traverso la scatoletta di Pocky che il ragazzo teneva in mano, e chiese:
« Me ne dai uno? »
Quella domanda, uscita con candore, lo stuzzicò e sorridendo sornione, la sfidò:
« Prenditelo »
Anziché offrirglielo con le mani, il moro teneva il bastoncino con la bocca, invitando la bionda a prendersene un morso.
« Io ne voglio uno intero! » protestò Ambra.
« Giochiamo al pocky game » farfugliò l’altro, mentre il bastoncino ricoperto oscillava ad ogni sua parola.
« Non faccio queste cose in pubblico… » borbottò la ragazza in imbarazzo.
« Ci avrei scommesso… sei la solita frigida »
Quell’ultimo aggettivo urtò non poco la biondina che, senza dargli alcun preavviso, si avventò sul Pocky. Dovette alzarsi in punta di piedi per raggiungere l’altezza del suo ragazzo, che dopo un’iniziale sorpresa, sghignazzò divertito. C’erano solo due esiti possibili in quello stupido gioco: il primo che spezzava il bastoncino avrebbe perso… oppure la sfida si sarebbe conclusa con un bacio.
Ambra ingoiò i primi centimetri, sentendo il volto andarle in fiamme. Stava insieme con Armin da appena due settimane, e non era ancora pronta per simili effusioni in pubblico. Per contro, il moro appariva sempre rilassato e a suo agio. Niente sembrava turbare il suo infantile candore ed quella capacità di sorridere sempre e comunque, era una delle qualità di cui Ambra era più innamorata.
Le loro labbra stavano per sfiorarsi quando avvertì una sorta di inquietante presenza accanto a loro. Determinata a non perdere quella sciocca sfida, cercò con la coda dell’occhio di cosa si trattasse e, dopo qualche secondo, oltre la vetrina di un cafè, riconobbe l’espressione incuriosita della sua insegnante di scienze. Miss Joplin era seduta al tavolo con altre due persone e appena il suo sguardo si incrociò con quello della sua studentessa, lo distolse a disagio.
Ambra, per contro, aveva mollato la presa, paonazza.
Armin era scoppiato a ridere, convinto di essere il responsabile di quella violenta reazione ma, appena si sentì trascinare via, capì di essersi perso qualcosa.
« C’era Miss Joplin in quel bar! » spiegò Ambra muovendo le mani concitata « oddio, che figura di merda! »
Il suo ragazzo però, non solo non condivise lo sconforto della bionda, ma scoppiò pure a ridere.
« Questa è l’ultima volta che assecondo le tue stupidate! » inveì Ambra, puntandogli il dito contro « chissà cos’avrà pensato… » mugolò, portandosi una mano sulla guancia.
« Comunque, questo decreta la mia vittoria » si gonfiò il moro.
« Non è il momento, Armin » lo zittì « non dovevo fuggire così, potevo almeno farle una faccia di poker e salutarla… porca miseria, ma quanto sono cretina! »
Mentre Ambra era tutta presa dal suo monologo, il ragazzo la attirò a sé, infilandosi in un vicolo cieco poco illuminato dai raggi solari:
« Ti ripeto Daniels che ho vinto… e quindi mi spetta una ricompensa » le disse con uno sguardo malizioso.
« Io non ti faccio da spalla su Assassin’s Creeed » chiarì, ancora innervosita.
« Veramente pensavo a qualcosa di molto meglio » e nel vedere il viso di lui che si avvicinava al suo, finalmente anche Ambra riuscì a farsi contagiare dal buon umore del moro e dimenticare la figuraccia appena fatta.
 
« Che hai? »
Miss Joplin scosse il capo, tornando a guardare i suoi interlocutori.
« Niente, scusatemi. Ero distratta. Lì fuori c’era una ragazza che assomigliava molto ad una mia studentessa… ma così imberrettata non sono sicura che fosse lei… comunque, Pam, dicevi? »
« Che io e Jason abbiamo iniziato a parlare del matrimonio e… » la zia di Erin lanciò un’occhiata trepidante al futuro marito che completò:
« … vorrei che tu fossi la mia testimone »
La professoressa boccheggiò incredula, poi sorrise:
« E’-è una cosa… cioè, mi farebbe molto piacere… non so che dire »
« Che accetti, mi pare ovvio! » esclamò bonariamente il fratello « a chi altro dovevo chiederlo? »
« Pensavo l’avresti chiesto a Derek, veramente » convenne la donna. Derek era il migliore amico d’infanzia di suo fratello, un addestratore cinofilo che lavorava ad Austin. Nonostante la distanza, i due si mantenevano in contatto da anni e non perdevano occasione per ritrovarsi. Il veterinario sorrise, quasi si aspettasse quell’osservazione:
« Derek non è il tipo per queste cose, gli farei un torto a chiederglielo, credimi »
« Allora accetto » sorrise Miss Joplin e, rivolgendosi verso la futura cognata, domandò:
« E tu, Pamela, hai già pensato a chi chiedere? »
« Pensavo a mia nipote Erin »
Di fronte all’espressione sorpresa della donna, Pam si vide costretta a precisare:
« Lo so, l’anno prossimo avrebbe solo diciannove anni, ma è la persona che più di ogni altra è stata testimone dell’inizio della mia storia con tuo fratello »
« Capisco » convenne Miss Joplin, sorseggiando del thè fumante « tua nipote è una cara ragazza, ce la vedo bene nel farti da testimone »
« Mi dispiace solo per sua sorella Sophia… non vorrei fare preferenze »
« Non ho capito perché Erin vive con te mentre sua sorella è in California… » s’incuriosì Miss Joplin.
« E’ una lunga storia » rispose evasiva Pam, mentre la professoressa, gettando un’occhiata fugace all’orologio, sbottò:
« Caspita! E’ tardissimo! Devo andare! »
« Dove? » s’intromise il fratello.
« Ho un appuntamento con una mia collega. Ha qualche idea da sottopormi per il prossimo evento del liceo »
« Lavorate anche nei weekend? Stacanoviste… » le derise Jason.
« Che evento? » squittì eccitata Pam, mentre la professoressa si rivestiva:
« Oh, non posso dirvelo… deve essere una sorpresa anche per Erin » e rivolgendo alla coppia un ultimo sorriso frizzante, abbandonò il tavolo.
 
Sophia infilò la chiave nella toppa, che incontrò qualche resistenza:
« Stupida chiave » imprecò innervosita.
Niente quel giorno era andato bene.
Si era svegliata di pessimo umore e, se non fosse stato per la prospettiva di doversi recare al lavoro, sarebbe rimasta volentieri sotto le coperte. Lungo la strada l’aveva contattata sua madre con una delle notizie peggiori: aveva chiamato la segretaria del liceo, comunicando che, con il prolungarsi ad oltranza della sua assenza dal liceo, la sua bocciatura era automatica.
« Chissenefrega » aveva solo saputo rispondere la rossa, prima che fosse suo padre a prendere in mano la cornetta e iniziare ad inveire. Per quanto Peter potesse arrabbiarsi, ormai non c’erano soluzioni, se non quella di ripetere l’anno.
Chissà se Erin aveva saputo di quella novità.
In cuor suo, Sophia sperò che fosse così, in quanto avrebbe fornito alla sorella un pretesto più che valido per chiamarla ma, per quanto avesse controllato febbrilmente il cellulare, non aveva ricevuto alcuna chiamata né nuovo messaggio.
Odiava quella situazione ma, se avesse cercato una riconciliazione, avrebbe dovuto pagare con la sincerità il prezzo del perdono. No, non era ancora il momento, doveva prima scoprire troppe cose.
Spostò allora le sue riflessioni sull’incontro del pomeriggio, in cui aveva avuto il dispiacere di conoscere Ingrid Daniels.
La porta ancora non si apriva, mentre lei sentiva crescere l’irritazione.
« Non ha la metà della grazia di sua sorella » aveva malignato quella donna.
« Se è per questo non ho nemmeno metà della sua bravura a scuola, della sua pazienza, della sua gentilezza… non valgo nemmeno la metà di mia sorella! » farfugliò tra sé e sé a bassa voce, parole che avrebbe voluto aver urlato contro la donna. Invece si era zittita perché, oltre ad Ingrid, era comparsa anche la fonte dei suoi ultimi grattacapi.
Rivide il volto luminoso di Nathaniel e la sicurezza con cui era intervenuto. Davanti a lui finiva per far sempre la figura dell’immatura, di quella che non riesce a controllarsi o a cavarsi fuori da sola dai guai.
« Cazzo di porta! » sbottò furente, sbattendo violentemente il palmo contro il legno.
Non ne poteva più.
Era stanca.
Non era vero che non le interessava della bocciatura. Ci era rimasta malissimo e si era sentita ancora più stupida per aver sempre sottovaluto la questione. Più volte i suoi avevano caldeggiato il suo ritorno ad Allentown, proprio per salvaguardare la sua carriera scolastica, ma lei si era limitata a liquidare la questione con superficialità. Ora che si trovava di fronte la prospettiva di ripetere l’anno, si sentiva sciocca e sbagliata. Era un fallimento, la sua vita era costellata di progetti incompiuti e il terrore che anche la sua missione a San Francisco si concludesse con un fallimento, iniziò ad impossessarsi di lei.
Non era vero che voleva che Erin fosse consapevole della sua bocciatura: sarebbe apparsa una fallita anche agli occhi sempre troppo buoni ed indulgenti di sua sorella. Sua sorella l’aveva sempre, anche se inspiegabilmente ed immeritatamente, ammirata.
Non era vero che avrebbe voluto urlare contro ad Ingrid, avrebbe solo dovuto complimentarsi con lei per averla saputa giudicare così in fretta e aver colto in pochi minuti quanto fosse inetta.
« ‘Fanculo » ripetè, mentre delle lacrime di frustrazione fecero capolino ai lati degli occhi « ‘fanculo » ripeté, sotto gli scricchiolii ostinati della porta.
Non si accorse nemmeno del rumore alle sue spalle, quello di una serratura che, diversamente dalla sua, veniva sbloccata:
« Ah, sei tu Fiafia? » domandò una voce familiare.
La rossa non si voltò, ma cercò di acquistare un po’ di compostezza:
« S-sì, ho avuto un po’ da fare oggi » mormorò, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
« Tutto ok? » indagò Hilary, spostandosi sul pianerottolo. Sophia inspirò profondamente, sperando che la ragazza non notasse gli occhi lucidi.
« Sì ovvio… »
Fu costretta a girarsi e, non appena lo sguardo della vicina si posò su di lei, vide la sua fronte aggrottarsi:
« Hai gli occhi lucidi »
« E’ per il freddo »
« Non fa così freddo » osservò la mora.
« Cos’è un tribunale? » scattò Sophia sulla difensiva. Hilary allora alzò le mani in segno di resa, borbottando:
« Volevo solo riferirti un messaggio da parte di Felicity: mi ha detto che oggi è passato a cercarti Nathaniel »
Sentendo quel nome, i sensi della rossa si allertarono, come un predatore che fiuta una preda:
« Quando? »
« Questo pomeriggio »
« A che ora? » incalzò l’altra.
« Non lo so, chiamalo invece di stare qui a chiedere a me che manco c’ero » la rimproverò bonariamente Hilary. Si sentì chiamare alle sue spalle, costringendola a sporgersi verso l’interno dell’appartamento:
« Arrivo, Joe »
« Salutamelo » disse Sophia, cercando di recuperare la sua ben nota allegria. La mora annuì e prima di richiudersi la porta alle spalle, si raccomandò:
« Chiamalo Sophia, non fare la solita orgogliosa »
Mentre la serratura scattava, la rossa tornò a lottare con la propria, riuscendo miracolosamente a sbloccarla.
Entrò nell’appartamento, abbandonando pesantemente la borsa sul tavolo. Si distese sul divano, spossata e apatica.
« Chiamalo »
La voce di Hilary riecheggiava nella sua testa, come un mantra.
Lui era passato da lei, ma non sapeva se prima o dopo averla incontrata in negozio.
Voleva stargli lontana, ma lui era l’unico appoggio che le era rimasto a San Francisco ora che Space se ne era tornato a casa. Nemmeno Hilary e Felicity conoscevano la storia di Mackenzie.
Per la verità, nemmeno il biondo era al corrente dell’esistenza di quella persona ma, detestava ammetterlo, era pronta a parlargliene, a dargli qualche dettaglio aggiuntivo a quelli che già gli aveva fornito, che gli potesse aiutarla a far luce sulla vicenda.
Forse era stata la notizia della sua bocciatura a smuovere qualcosa in lei, rendendosi conto che aveva già perso troppo per prolungare il suo silenzio.
« Chiamalo »
Stava per allungarsi verso il tavolo, quando sentì una fitta al petto.
Un dolore intenso che durò appena pochi secondi.
« Non di nuovo… » sussurrò, a filo di voce.
Il viso era tetro e diafano, mentre il respiro cercava di normalizzarsi.
Tornò a stendersi sul divano e lasciò che le lacrime che prima aveva trattenuto, uscissero con tutta la loro inarrestabile foga.
 
Mackenzie guardò torva la ragazza seduta davanti a lei.
Non sopportava le sue coetanee e Nelly era lo stereotipo di tutto ciò che per lei rappresentasse un’oca adolescente. Era in quella scuola da due ore e già ne aveva abbastanza.
Appena arrivata a casa, avrebbe chiamato sua madre, dicendole che per niente al mondo avrebbe passato i prossimi mesi in quella scuola.
Voleva tornare a casa, ne aveva già piene le scatole di quella città.
Eppure, sia che si muovesse in treno, sia che optasse per l’aereo, in entrambi i casi avrebbe dovuto disporre di una cifra considerevole per attraversare il paese. Soldi che non aveva.
Era costretta a restare lì, sottostare alla volontà di sua madre che l’aveva allontanata solo allo scopo di farle avere una vita migliore.
Che cosa intendesse Dianne con vita migliore però, Mackenzie ne era all’oscuro. Vivere sotto lo stesso tetto di Mary era un’agonia che soffocava lentamente ma inesorabilmente la sua pazienza, privandola dell’allegria e spensieratezza che si addicevano alla sua giovane età.
No, non poteva pensare di passare un minuto più del necessario in quella casa.
Contrariamente a quanto aveva promesso a sua madre, quel giorno la ragazza prese una decisione: si sarebbe cercata un lavoro.
 
Erin aiutò Hailey a raccogliere i colori caduti sul pavimento della stanza, riponendoli con cura all’interno di un portapenne cilindrico. Il sole stava tramontando e per lei e Castiel era arrivato il momento di rientrare a Morristown.
« Hailey, mi passi il rosso là in fondo? » domandò, indicando un pastello.
La bambina lo raccolse in silenzio, porgendolo alla ragazza che ringraziò con un sorriso dolce:
« Perché non resti ancora? »
Erin sospirò paziente e, portando una mano dietro la schiena della bimba, disse:
« Te l’ho già spiegato Hailey, domani io e Castiel abbiamo scuola… »
La vide abbassare il capo e chinarsi per terra a raccogliere gli ultimi colori rimasti.
« Abbiamo fatto un bel disordine, eh? » cercò il dialogo Erin, ma Hailey non rispose.
Non aveva messo il broncio, come avrebbero fatto molte bambine della sua età. Se ne stava muta e impassibile, come se in quella stanza non ci fosse nessun’altro a parte lei.
« Erin, muoviti »
Castiel aveva fatto capolino nella stanza, già vestito e pronto alla partenza. L’amica annuì, alzandosi da terra e lanciando un’ultima occhiata colpevole alla bambina.
« Che ha? » le sussurrò il rosso, appena Erin gli passò accanto.
« Non vuole che me ne vada »
L’amico si grattò il capo, sospirando combattuto. Da un lato gli dispiaceva vedere la sua sorellastra così silenziosa ed apatica, dall’altro però non sapeva da che parte prenderla. Prima di abbandonare la stanza, un foglio abbandonato sul tavolo catturò la sua attenzione. Si avvicinò, raccogliendolo in silenzio, mentre Hailey ed Erin lo fissavano senza battere ciglio.
Il disegno ritraeva un tizio con i capelli rossi e una giacca nera, riferimento fin troppo ovvio nonostante l’infantilità del tratto.
« Mi somiglia » mentì, mentre osservava uno stile che ricordava vagamente un Picasso.
« Non è finito… » mormorò Hailey laconica.
Castiel ripose con cura il foglio sul banco e dichiarò:
« Allora vedi di completarlo nana, così la prossima volta che torno, me lo regali »
Erin stava per indisporsi per il tono poco garbato dell’amico quando il suo intento venne frenato dal sorriso timido di Hailey.
Quel disegno, valeva come promessa per il prossimo incontro.
 
Tyra ed Hailey accompagnarono i due fino all’esterno del condominio, dove la Chrysler aspettava di essere messa in moto:
« Grazie per l’ospitalità » sorrise Erin, con un leggero cenno del capo.
« Grazie a voi per essere venuti » replicò di rimando la donna, mentre Hailey sembrava nascondersi dietro al sua gonna in tweed. Cercò lo sguardo del figlio che, in quel momento, stava osservando di sfuggita proprio la bambina:
« Tornate quando volete » gli disse, con l’espressione più dolce che le fosse possibile e, istintivamente, cercò l’abbraccio di Erin. Sapeva che la mora non si sarebbe sottratta ad esso, anche se in un primo momento rispose a quella stretta inaspettata in modo un po’ impacciato. Era estremamente grata a quella ragazza, infatti Tyra non ci aveva messo molto a capire chi fosse la responsabile del cambiamento che stava avvenendo in suo figlio. Anche Frank le aveva parlato con affetto di quella ragazza mora che, accanto a loro figlio, sembrava smussarne i dissapori e asperità.
L’abbraccio con Erin non era solo un atto dovuto ma anche un’astuta strategia per far sì che il figlio le perdonasse quel gesto d’affetto che si apprestava a fare. Perciò, dopo essersi sciolta da Erin, Tyra allargò le braccia verso Castiel che, con riluttanza, accettò quella stretta. Appena la madre gli cinse le spalle, sentì un nodo alla gola, al pensiero di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’aveva stretto a sé. Non ricordava nemmeno di aver mai cinto quelle spalle larghe, quel corpo che la superava in altezza.
Non ricordava nemmeno di essersi accorta che suo figlio fosse diventato un uomo. Frank le aveva detto che il loro ragazzo era molto cambiato rispetto alla scorsa estate, ma solo quando se l’era trovato davanti, Tyra era riuscita a credere alla veridicità di quelle parole.
Castiel a sua volta, per quanto cercasse di dissimulare, avvertì una sensazione di sollievo tra quelle braccia ma il suo orgoglio gli impedì di prolungare quel momento: si allontanò dopo appena pochi secondi, recuperando la sua compostezza.
« Venite voi a trovarci! » esclamò Erin, accucciandosi all’altezza della piccola Hailey.
« Senz’altro » rispose per lei Tyra.
Si avviarono verso la macchina, volgendo alle due un ultimo cenno con la mano.
Quando Hailey sentì il suono delle portiere che venivano chiuse, si staccò dalla gonna di Tyra e mosse qualche passo in avanti, come se si fosse fatta prendere dall’urgenza di dire qualcosa. Il motore era ormai acceso e Castiel aveva ingranato la prima.
Mentre guardava la Chrysler svoltare l’angolo, aprì la bocca ma non riuscì a dire nulla. Vide Erin lanciarle un ultimo sorriso e a quel punto, Hailey non potè far altro che ricambiarlo.
 
Nella stanza si udiva solo il rumore delle pagine che ogni tanto Lysandre sfogliava e il tratto della matita di Rosalya contro il foglio.
« Lys? »
Il fratello staccò lo sguardo dal libro, sollevandolo verso la stilista:
« Tu hai mai conosciuto la madre di Castiel? »
« L’ho incrociata un paio di volte l’anno scorso »
La sorella non rispose e riprese a disegnare. Tuttavia, dopo quella domanda, la curiosità del poeta era stata stuzzicata e non intendeva lasciarla sopire:
« Come mai questa domanda tutt’a un tratto? »
Vide la sorella fare spallucce e sollevare il foglio, con aria pensierosa:
« Devo aggiungere dei motivi a onde per dare più movimento… » mormorò tra sé e sé.
« Rosa… » la richiamò il fratello « non ignorarmi »
« Stavo pensando a quanto i genitori influenzino il carattere dei figli… prendi i gemelli oppure Erin: si vede che sono cresciuti in un ambiente sereno, le loro mamme sono dei tesori… noi invece… »
« Invece? » la incoraggiò Lysandre, chiudendo il libro ma assicurandosi di tenere il segno con il dito:
« Beh, non siamo cresciuti con i nostri genitori e mi chiedo quanto questo abbia influenzato il nostro carattere… anche Castiel, che nell’adolescenza ha avuto un rapporto problematico con i suoi… insomma, non è tanto a posto »
Il fratello ridacchiò elegantemente e dichiarò:
« Perché, c’è qualcosa di anormale in noi? »
La sorella indicò la mise del poeta, precisando:
« Di certo non c’è niente di convenzionale nell’andare vestito come un tizio vissuto nell’Ottocento »
« Mi piace distinguermi dalla massa… » osservò l’altro con pacatezza, ma mettendosi sulla difensiva.
« … e ammetterai che io non ho un carattere facilissimo » aggiunse, ignorando la difesa del fratello « insomma, se fossimo stati una famiglia normale, noi due non saremo stati… normali? »
Lysandre stentava a credere al tono riflessivo della sorella, che pareva d’un tratto essersi fatta malinconica. Continuava a disegnare sul suo foglio, ma la leggerezza dei tratti erano un indice della sua scarsa concentrazione:
« Non capisco perché tutt’a un tratto ti sei messa a fare questi discorsi… » mormorò perplesso.
Lei rispose ancora una volta con una scrollata di spalle e, poiché non aggiunse altro, Lysandre riaprì i libro, ma non riuscì a soffermarsi sulle parole scritte, poiché quelle enigmatiche della sorella continuavano a riecheggiargli in testa.
 
Dopo una mattinata passata a sedare lo scambio di commenti poco lusinghieri tra Kentin e Castiel, per Erin fu un sollievo entrare in palestra e farsi circondare dall’allegria dei suoi compagni di squadra.
Era quasi un mese ormai che Kim era tornata al club di atletica, anche se quella decisione era pesata tanto a lei, quanto ai cestisti. Tuttavia, la mora non aveva mai fatto mistero di sentire la nostalgia per la pista, in cui poteva esibire al massimo le sue capacità atletiche.
« E tu, Erin? Rimarrai nella squadra anche l’anno prossimo? » stava domandando Trevor, mentre erano impegnati in un esercizio di allungamento.
Vide la ragazza tentennare, attirando l’attenzione di Castiel e Dajan, che interruppero la conversazione:
« Veramente la Joplin mi ha esortato ad unirmi al club di scienze, anche se lei non ne è il supervisore »
« Non rimarrai nella squadra? » le domandò il rosso, sorpreso.
« Beh, la verità è che mi sono unita perché l’alternativa era il club di giardinaggio… e non ho esattamente il pollice verde. Inoltre il basket mi ispirava come sport »
« Dì pure che eri attratta da cotanto testosterone! » commentò Wes, passando dietro alla tweener. In risposta, ricevette una pallonata sullo sterno, unita ad un rimprovero da parte di Boris, che gli ordinò di tornare in posizione e fare degli addominali.
« Beh, io l’anno prossimo non ci sarò » intervenne il capitano « però mi sarebbe piaciuto vederti giocare ancora, Erin »
La ragazza fece spallucce, sorridendo rassegnata.
« Erin nel club di scienze, Castiel in quello di basket… fa molto High School Musical » scherzò Trevor, mentre il rosso sbottava:
« E tu hai visto un film per ragazzine? »
« Si vede che non hai una sorella più piccola… » commentò Dajan, pensando alla sua Blake.
« Invece ce l’ha » lo contraddisse Erin allegra.
« Da quando? » si sorpresero i due cestisti.
« Da ieri »
« Tu farti i cazzi tuoi mai, eh? » sbottò Castiel.
L’amica lo ignorò e domandò:
«Le vostre sorelle quanti anni hanno? »
« Blake ne ha nove »
« Anche Emily » precisò Trevor « sono in classe insieme »
« Perfetto! » squittì Erin e voltandosi verso il rosso, propose « la prossima volta potremo far sì che Hailey faccia amicizia con loro! »
« Frena, frena Cip… » la sedò Castiel « non partire in quarta come al tuo solito »
Stava per replicare quando Trevor intervenne con ammirazione:
« Cazzo Erin, come fai a toccarti la pianta del piede così facilmente? »
La ragazza infatti, nonostante il perdurare della conversazione, era rimasta in allungamento come se quella posizione non le costasse alcuno sforzo, ma al contrario, le risultasse alquanto naturale.
« Ti ricordo che ho fatto ginnastica artistica da piccola » osservò.
« Tiratela meno » la rimbeccò Castiel.
« Non me la sto tirando »
« Ma quindi, tornando all’argomento principale, tu Erin l’anno prossimo andrai con gli scienziati? » riepilogò Dajan.
« A dirla tutta, non è neanche detto che sarò ancora qui in questo liceo »
Quell’ultimo commento urtò visibilmente Castiel. La sua espressione tradì un certo sconcerto, che non esitò molto prima di concretizzarsi in un’esclamazione di disappunto:
« Come sarebbe a dire? »
« Beh, mi sono trasferita a Morristown perché volevo cambiare aria e c’era mia zia in questa città. E’ stata lei ad insistere perché mi iscrivessi qui, ma di fatto per i miei non è così semplice pagare la retta. Non so se riuscirebbero ad accollarsi le spese di un altro anno. In aggiunta, è probabile che mia zia pianifichi di andare a convivere con Jason appena finirà l’anno scolastico… e di certo io non potrò fare da terzo incomodo »
« Vai a vivere con Castiel allora! » osservò Trevor, come se fosse la cosa più ovvia.
« E l’affitto come lo pago? » rise lei imbarazzata, fingendo che fosse l’unico ostacolo a quell’idea.
« In natura » replicò placidamente il cestista, mentre Dajan sghignazzava. Gli occhi di Castiel si ridussero a due fessure, mentre Erin avvampava:
« La pianti di dire cazzate, tu? »
« Eddai Black! Hai una casa tutta per te! E’ uno spreco non portarci dentro una ragazza… ma che dico una? Più ragazze possibili! »
Lui lo ignorò, così come Dajan che propose:
« Vorrà dire Erin che entrambi ci godremo al massimo quest’ultimo anno con questa squadra di sempliciotti »
« Ehi ehi, solo perché sei nei Cavs, non pensare di tirartela tu, ora… a proposito di gente boriosa… l’hai più sentito Lanier? »
« Ti ha scritto il capitano della Saint Mary? » s’intromise Erin eccitata.
« Tzè, figurati. Non è il tipo… no, gli ho scritto io qualche tempo fa per chiedergli una cosa sull’agente che ci ha contattati. E’ stato meno brusco del previsto »
« E se andassimo a trovarli? » esclamò Erin.
« Chi? » domandò Trevor.
« La triade divina! »
« E questi chi sono? » farfugliò Castiel, rinunciando definitivamente allo stretching.
« Ah giusto, tu non c’eri, Ariel »
« Eri impegnato a mangiare crauti » aggiunse l’ala grande.
« Sono i giocatori che hanno vinto il torneo. Li abbiamo incontrati in semifinale »
« Gente forte, quindi » ghignò l’ex capitano, compiaciuto.
« Non hai idea di quanto lo siano » sottolineò Dajan, con una smorfia analoga.
« Allora perché non andiamo a prenderci una piccola rivincita? » propose Trevor.
« Ehi! Io voglio andarci in amicizia! » protestò l’unica ragazza del quartetto, imitando il rosso e riposando le gambe.
« Vedrai che avranno più voglia di noi di giocare » osservò il capitano.
« Chiamiamo anche Kim, comunque » precisò Erin, ottenendo un cenno d’assenso da parte del moro.
« Ok, ma come ci andiamo? Abitano… dov’è che abitano? » chiese la ragazza.
« Chicago… saranno più di dieci ore di macchina »
« Dovremo andarci in aereo » propose Castiel.
« Non credo di potermelo permettere » ammise candidamente Dajan.
« Pure io » si aggiunse Erin, alzando la mano come una bambina.
« Beh, che io sappia, c’è il servizio bus notturno. Con quello potremo risparmiare non poco » mediò Trevor.
« Quindi abbiamo il costo dell’alloggio e del trasporto… » riepilogò Dajan « per me può andare. Proviamo a sentire i ragazzi e in base a cosa ci rispondono, decidiamo se andarci e nel caso, quanti giorni restare là »
« Chiamo io Melanie! » si lanciò Erin, mentre riceveva un giornale arrotolato in testa.
« Ahio! Bors, ma che ti prende? » si lagnò voltandosi verso il corpulento allenatore:
« Sei una fonte di distrazione, Erin! Dove ti metto, i ragazzi finiscono per cincischiare. E’ da un quarto d’ora che non fate altro che chiacchierare! »
« Stavamo organizzando un incontro con i ragazzi della Saint Mary » piagnucolò l’altra e, per un attimo, vide gli occhi dell’uomo illuminarsi.
« Dieci giri del campo! » tuonò infine, assicurandosi che i suoi ragazzi non notassero il suo sorriso di pura felicità.
 
Il suono del campanello la fece sussultare.
Il primo pensiero fu maledire l’ospite che, dopo aver controllato l’ora, risultò ancora più inopportuno. Erano quasi le undici, e lei si era appisolata sul divano.
Sophia si alzò pigramente, barcollando fino alla porta.
Era talmente assonnata, che non si curò di pettinarsi o rendersi presentabile. Aveva i capelli arruffati e la maglietta stropicciata.
Fu per questo che, quando aprì la porta, sgranò gli occhi per l’imbarazzo.
« Stavi già dormendo? » ansimò Nathaniel.
In un primo momento, la rossa arrossì per il disagio del suo aspetto e per la vicinanza con quello che ormai, era diventato il suo chiodo fisso. Notò solo successivamente la ritmicità con cui il petto del ragazzo si alzava e abbassava, il leggero fiatone e le guance imporporate:
« Hai corso? » indagò.
Lui annuì, cercando di normalizzare il respiro.
« Sì… oddio, ancora non ci credo che l’ho fatto… » borbottò tra sé e sé. Scuoteva il capo, come se stesse per scoppiare in una risata isterica da un momento all’altro. Tuttavia, la sua espressione tradiva anche un certo sconcerto, del quale non riusciva a capacitarsi:
« Sei sorpreso del fatto di riuscire a correre? »
« Non fare la scema » gli sorrise lui, facendola sciogliere per la luminosità di quella smorfia. Si morse il labbro, sperando che il dolore la distogliesse dall’imbarazzo provato.
« Ho mandato mio madre a quel paese… lei, mio padre e tutti quei progetti che hanno su di me » dichiarò incredibilmente felice.
« Cosa? »
Lui annuì orgoglioso, mentre lei lo lasciava accomodare, interdetta:
« L’ho riaccompagnata in hotel e, per strada, ha iniziato con i soliti discorsi su quali siano le mie responsabilità verso l’azienda e verso la famiglia. Non ci ho visto più e sono sbroccato di brutto! Le ho vomitato addosso tutto quello che penso e ho messo in chiaro che le minacce non funzionano più. Che mi compromettano la carriera, non mi interessa. Me ne andrò per la mia strada, in qualche modo riuscirò a cavarmela senza il loro supporto… »
Nathaniel raccontò quella notizia accavallando una parola dopo l’altra, lasciando che la mancanza di fiato fosse sopperita dall’adrenalina.
Per troppi anni aveva detto troppi sì.
Per troppo tempo aveva taciuto troppi no.
Era finalmente arrivato il momento di liberarsi da quelle catene che gli impedivano di sentirsi libero.
Sophia lo ammirava incantata, mentre lui camminava avanti e indietro per la stanza, agitando le mani freneticamente. Era commovente ed eccitante vederlo così di buon umore e allegro.
Non sembrava neanche lui.
« Ed è cominciato tutto grazie a te! » esclamò all’improvviso, voltandosi verso di lei.
La colse mentre lo osservava con un sorriso dolce che, se fosse stato più accorto, avrebbe capito che l’aggettivo più adatto a descriverlo fosse “innamorato”.
« I-io? » balbettò a disagio.
« Quella volta in spiaggia… quando me ne hai dette quattro… ricordi? Ci ho pensato a lungo e da lì mi sono convinto che non potevo comportarmi da vigliacco. Non me ne frega più nulla se così ho compromesso il mio futuro, almeno avrò la possibilità di agire secondo le mie scelte! »
Nathaniel non la smetteva di sorridere, guardandola con una tale gratitudine da farla commuovere. Era la prima volta che qualcuno diverso da sua sorella, la faceva sentire così importante e preziosa.
A quella felicità però, fu costretta a sommare l’amarezza di quanto la gioia che sentiva fosse pericolosa. Non aveva bisogno di altri pretesti per intenerirsi alla vista del ragazzo, doveva piuttosto trovare un modo per soffocare il tutto.
Fu per questo che, appena il ragazzo le lasciò lo spazio per intervenire, commentò con mesta dolcezza:
« Immagino che Rosalya avrà fatto i salti di gioia »
Nathaniel sembrò spegnersi, guardandola come se avesse pronunciato quella considerazione in una lingua incomprensibile.
Non aveva minimamente pensato a chiamare per prima Rosalya. Anche se era la sua ragazza e lo conosceva da oltre quattro anni. Non aveva neppure condiviso l’impatto di quella notizia con il suo migliore amico, Castiel, che da molto più tempo era a conoscenza di quanto gli pesasse quella situazione. Manco Ambra, sua sorella, aveva avuto la precedenza.
Sophia.
Appena la figura di sua madre era sparita dietro la porta girevole dell’hotel di lusso, solo quel nome aveva continuato a riecheggiargli in testa.
Sophia.
Aveva iniziato a correre, con le ali ai piedi, seguendo quel richiamo per le strade di San Francisco.
Sophia.
Era lei la prima e unica persona a cui aveva pensato.
E quella considerazione, di cui non riuscì a spiegarsi la natura, finì per turbarlo.
Rimase talmente confuso da quell’ultimo pensiero che, dopo un fugace scambio di battute, si congedò, dimenticandosi il motivo per cui l’aveva cercata quel pomeriggio.
La preoccupazione del dottor Wright circa la salute della giovane paziente, dovette così aspettare ancora.
 
Il sacco dell’immondizia emanava un odore intenso di cialde di caffè, miste ad aromi sconosciuti. Jordan scese i tre gradini del retro del pub, avvicinandosi al cassonetto.
Cercava di tenere il sacchetto ad una certa distanza dal corpo, per evitare che gocce di dubbia origine le macchiassero i vestiti. Il che, le conferiva un’andatura alquanto sgraziata ma per sua fortuna, nessuno stava assistendo a quella scena. Questo almeno era quanto pensava.
« Ecco a voi Miss Portamento 2016! »
Stava per sollevare il coperchio del bidone ma fu costretta a rinunciare e voltarsi seccata. Prima che avesse il tempo per apostrofare l’intruso, di cui aveva subito riconosciuto la voce, si trovò puntato contro un cellulare:
« Che fai, idiota? »
« Una foto per i fan » la informò Trevor, premendo il tasto della fotocamera.
Lei si avvicinò a lui, esasperata:
« Ma tu non hai niente di meglio da fare che stalkerarmi tutto il giorno? Non ce l’hai una vita? »
« Sei il mio passatempo, Jojo » replicò il cestista con una faccia da sberle.
La cameriera abbandonò pesantemente il sacco all’interno del bidone, chiudendo con rabbia il coperchio.
« Senti bello, oggi è stata una giornata pesante, sono stanca e voglio solo andarmene a casa » dichiarò, avvicinandosi a lui a grandi passi.
« Lo so » convenne l’altro « è per questo che sono qui »
Lei lo guardò senza capire, finchè lo vide sorridere in modo disarmante:
« Dai Michael, ti accompagno a casa »
« C-ci posso andare benissimo da sola! » protestò, spiazzata da quella cavalleresca proposta « e poi piantala con questi soprannomi del cavolo »
« Non è sicuro… » continuò imperterrito Trevor « non hai sentito che c’è un molestatore che si aggira nella zona industriale? »
« Fortunatamente abito dalla parte opposta »
Lui sospirò divertito:
« Sei un osso duro, ma è per questo che sei così divertente »
Gli occhi di lei diventarono due fessure. Non c’era modo di allontanarlo, di eliminare quell’invadente presenza. Non lo sopportava, lui e tutto ciò che la sua vita agiata rappresentava.
« Forse dovrei cambiare strategia con te… » ragionò, rientrando nel locale, mentre lui la seguiva incuriosito. All’interno era rimasto solo il gestore, intento a chiudere i battenti.
« In che senso? » s’incuriosì lui.
« Jordan, c’è ancora un cliente? » domandò sorpreso il proprietario e, rivolgendosi a Trevor, dichiarò « mi dispiace ma stiamo chiudendo »
« No, sono un suo amico » lo corresse l’altro « sono venuto per portarla a casa »
« O, per fortuna, sono mesi che le dico di farsi accompagnare, visto che è sempre l’ultima a lasciare il locale »
Un sorriso vittorioso e furbetto distese le labbra di Trevor, nel frattempo la povera Jordan ruotava gli occhi al cielo. Recuperò il cappotto, mentre il cestista insisteva per trovare una risposta alla sua domanda:
« Cosa intendi per “cambiare strategia”? »
« Che anziché trattarti male, se iniziassi ad assecondarti facendo la mielosa, magari perderesti il tuo sadico divertimento e mi lasceresti finalmente in pace »
« Ah sì? » la sfidò Trevor « non ne saresti capace »
La cameriera corrucciò le labbra e, schiarendosi la gola, mormorò:
« Oh Trevor, come sei stato carino a venirmi a prendere… »
Tuttavia, anziché restare ammaliato da tanta indifesa femminilità, il ragazzo le scoppiò a ridere in faccia. Jordan infatti aveva un sorriso tiratissimo, che nel complesso tradiva un profondo disagio:
« Porca miseria, Jojo, sembri un babbuino che sta tirando le cuoia! Possibile che tu sia così impedita con gli uomini? » la derise.
« Il problema è che tu non sei un uomo, sottospecie di verme parassita intestinale! » ribattè lei in preda all’imbarazzo.
Si calò il berretto coprendosi interamente la fronte e avvolse per più giri la sciarpa intorno al collo. Si pentì della figuraccia appena fatta, che aveva fornito al ragazzo l’ennesimo pretesto per deriderla. Si era tolta le lenti a contatto in bagno, sistemandosi gli occhiali da vista che, appena uscita dal locale, si appannarono per il freddo.
« Tu non sei venuto qui per accompagnarmi a casa, ma solo per sfottermi » borbottò irritata, strofinando le lenti contro un fazzoletto.
« Forse… » ipotizzò l’altro, con un sorriso eloquente.
Camminarono per i marciapiedi, deserti e silenziosi:
« A quest’ora non dovresti startene a casa tua sotto le coperte? » domandò lei.
« Potrei dire lo stesso di te »
« Io lavoro, perché a differenza tua, ne ho bisogno »
Il cestista non replicò, ma si limitò ad accendersi una sigaretta.
« Ti dispiace se fumo? »
« Tanto fai sempre di testa tua » farfugliò la ragazza.
« Se ti dà fastidio il fumo, non la accendo »
« Fa’ come ti pare »
« Sei un po’ acidella, te l’hanno mai detto? »
« E te ne accorgi ora? »
Proseguirono per una ventina di minuti, continuando a scambiarsi battute superficiali ed inconcludenti, che non erano sufficienti a decretare la vittoria dell’uno sull’altra:
« Ok, sono arrivata ora vattene » lo liquidò, affrettando il passo.
« Potresti almeno ringraziare, Jojo »
« Grazie Trevor per avermi preso per il culo tutta la sera, tu sì che sai rallegrarmi la giornata »
« Non c’è di che, dolcezza » si pavoneggiò il cestista ma, anziché andarsene, accompagnò la ragazza fino al campanello:
« Adesso che vuoi? Fare un sit-in qua fuori? »
« O, veramente io speravo che mi invitassi a salire… » commentò malizioso.
« M-ma sei fuori! E poi non sono sola »
Vedendola avvampare, il ragazzo scoppiò nuovamente a ridere, beffandosi della sua ingenuità.
« Sei proprio una bimbetta, Jojo »
Lei sbloccò la serratura, affrettandosi a liberarsi da quella palla al piede:
« Vivi con i tuoi quindi? »
« Non sono affari tuoi » e sbattè il cancello con quanta più forza avesse.
Era stanca, spossata e ne aveva piene le scatole della superficialità di quel buon tempone. Eppure, era quanto di più simile ad un amico. Amico che non aveva mai avuto.
 
Odiai quella Erin perché, proprio come era stato con Debrah, arrivai alla conclusione che fosse stata la responsabile dell’infelicità di Castiel.
Durante la sua assenza, soffrii come un cane, pardon, questa frase non aggiunge nulla di nuovo al mio status.
Passavo le mie giornate svegliandomi con la speranza di vederlo tornare e mi riaddormentavo con la delusione di aver visto crollare la mia illusione.
Quel ciclo si ripetè per settimane e non bastava la presenza di Mauro per risollevarmi il morale.
Tutto cambiò quel giorno in cui riconobbi quella voce.
Quella detestabile voce.
Era riuscita ad insediarsi nell’appartamento grazie a Mauro, che mi stava chiamando a gran voce.
La cercai per la casa, fiutandone l’odore che avevo memorizzato settimane prima.
Era nell’ultimo posto in cui doveva essere.
Aveva invaso il territorio più sacro e intimo della casa: la camera di Castiel.
Non le avrei permesso di insudiciarla con la sua puzza di odiosa umana.
Non avrebbe cancellato l’odore del mio padrone.
Stava accarezzando il suo cuscino, sfiorandolo con una delicatezza che finsi di non vedere.
Non volevo accettare quello sguardo dolce e malinconico con cui lo stava osservando.
Quando se lo portò al viso però, quella scena abbatté ogni mia difesa.
Rimasi a fissarla, senza capire le sue azioni.
La vidi riporre il cuscino al suo posto ma, quando si voltò, un paio di lacrime le rigavano il viso. Si era accasciata contro il letto, sedendosi sul pavimento.
Fu allora che capii.
C’era un legame speciale tra lei e Castiel.
Lei non era come Debrah.
Vedendo le lacrime rigarle il viso, realizzai che erano più sofferte delle mie.
Era dalla mia parte, stavamo patendo entrambi la separazione dalla persona più importante della nostra vita.



 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Questa volta il capitolo ha una lunghezza più gestibile (so che sono l’unica a lamentarsi della cosa xD).
In ogni caso, visto che mi sembra sempre che passi troppo tempo tra un ringraziamento e l’altro, con il passaggio al 2016, voglio dire un sincero “grazie” a tutte voi che continuate a leggere e recensire la storia ^^.
Se avete letto il capitolo da Wattpad, vi invito a cliccare nel link seguente che rimanda a EFP dove ho potuto pubblicare il disegno di Kiritsubo83, a cui si somma un altro ringraziamento da parte mia :3
 
A tal proposito, ci terrei a precisare una cosa per il futuro, giusto per evitare equivoci ed essere trasparenti. I disegni che pubblico sono di proprietà delle relative autrici, pertanto per chi volesse usufruirne per postarli in altri siti, è tenuto a contattare chi l’ha realizzato e chiederne il permesso. Mi scuso se non l’ho mai precisato prima, ma meglio tardi che mai u.u
 
Comunque, come pot(r)ete osservare, l’immagine ritrae Jordan, protagonista dell’ultimo paragrafo del capitolo. In particolare, vi invito ad osservare i dettagli del muro, giusto per sottolineare l’ironia di questa meravigliosa ragazza <3.
 
Altra cosa: ringrazio chi ha partecipato al form per postare domande su IHS. Ho deciso di apportare una modifica rispetto al mio intento iniziale. Dal momento che mancano esattamente 25 capitoli alla fine della storia (sperando di riuscire a rispettare la scaletta che ho programmato), a partire da questo capitolo, pubblicherò una o due domande tra quelle che mi sono state poste.
Inoltre, ho deciso di migliorare il modulo, aggiungendo la possibilità di indicare il proprio nickname da associare alla domanda.
Da oggi in poi quindi, se lo vorrete, questo è il nuovo form in cui chiedere qualsiasi cosa vogliate sulla storia (ma ovviamente mi riservo la possibilità di non rispondere in casi particolari xD).
 Lascerò il link anche sulla mia home di EFP e nel profilo di Wattpad.
Veniamo ora alla prima domanda a cui ho scelto di rispondere e che, di fatto, è quella ricorda con maggior frequenza (SPOILER ALERT!):
 
  • Hai detto che saranno 80 capitoli, ma Erin e Castiel si metteranno insieme prima (perché sì, loro si metteranno insieme) o la storia terminerà con il loro fidanzamento?
 
Dunque, credo sia sempre stato scontato che Erin e Castiel finiranno per mettersi insieme, motivo per il quale non ne ho mai fatto mistero (oltre al fatto che ho serie difficoltà nel trattenermi dallo spoilerare u.u). Premesso ciò, prometto che IHS non finirà, banalmente, con la loro dichiarazione… penso sarebbe un epilogo un po’ deludente, me lo confermate?
Ovviamente non dirò in quale capitolo è prevista la realizzazione di questa coppia, ma posso assicurarvi che per un po’ riusciremo a vederli nei panni di fidanzati e non più di amici ^^.

 
Alla prossima!

 
  
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