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Autore: Mandorlina    17/01/2016    0 recensioni
Ma cosa dire, davvero? Le storie parlano – hanno la capacità di essere vere, almeno fino al decimo anno d’ età – Clarissa ha nove anni e poi ne avrà tredici, conosce sua madre e il Kent e tutto ciò che questo può comportare. E’ la storia di una bambina che è a metà tra sogno e immaginazione, la notte di Halloween raccontata attraverso un grande paio di occhi azzurri.
Dal testo (se vi può interessare):
“Poi l’avevo visto vagare nel buio, nel freddo limbo che anch’io avevo conosciuto nella long grey street, avevo sentito il cimitero alle mie spalle; «Bambina, allora vieni? » mi dicevano le anime-lenzuoli con i loro visi spenti, «accendi le luci: nelle case dei vivi, la morte non entra. »
Ma la morte camminava schiva sulla long grey, come una bestiola braccata, le candeline costeggiavano la sua ultima passeggiata fino al cimitero.”
Genere: Dark, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice: Quasi dieci pagine di Word per un inno al Romanticismo, e lavoro a “Jack-o’-lantern” da almeno un mese. Non ha un genere particolare, in quanto abbia letto almeno dieci volte la lista dei generi di EFP prima di decidere dove pubblicarla: Thriller? Nah, niente assassini psicotici. Horror? Oh, no, dovrebbe quantomeno far paura. Noir? Sì, beh, non era la scelta più azzeccata ma poteva starci, e alla fine ho optato per la famigerata categoria Introspettivo. Del resto, che altro è se non un viaggio nella mente di Clarissa – così bionda e deliziosamente inglese – la bambina del Kent che coglieva la magia in ogni cosa ... ? Decidete voi se ha sognato, oppure se quello che l’ha accompagnata per la fredda notte del 31 ottobre è stato un lungo e inclemente delirio; del resto Clarissa è vostra, e potete decidere voi cosa farne.

Detto questo, spero che vi piaccia, e che valga la pena di un commento.

 

Kisses, Mandorlina.

 

Jack-o’-lantern

 

Prologo - 30 ottobre 2015

 

L’Inghilterra è color grigio fumo. Canticchia l’Irlanda, al di là del mare, canzonette ubriache di birra. Mia madre diceva sempre che l’amore va vissuto con costanza. E non sapete quanto coraggio ad ammettere di non conoscere altro che una brughiera desolata, dove il cielo è livido e la luna, prima ancora di essere la luna, è la dea della morte e della speranza.

Amo la mia terra per quello che può offrirmi. Un pasto caldo, un guanto di lana e, chissà, una visione un po’ più poetica del mondo.

Mi chiamo Clarissa. Per alcuni –non so se è necessario dirvelo – sono Clary, per altri (e per altri intendo tutti gli altri) non sono nessuno. Il che potrebbe dispiacermi, se non fosse che degli altri non m’importa.

Sono cresciuta immaginando Londra, sfuggendo alla mia stessa mente sulle Highlands scozzesi –di  cui ho sentito solo raccontare –, con  l’amore di mia madre e il pettegolezzo invidioso degli affari d’oltre Manica. In particolare, sono cresciuta a leggende.

Sapessi scrivere, sapessi quantomeno disegnare, potrei descrivervi ognuno di quei piccoli particolari che rendono una storia diversa da un’altra. Di storie ne ho sentite parecchie, e la notte, quando il freddo è tale da assopire ogni contatto con il mondo esterno, crederci equivale a darsi un’altra possibilità. Non morire assiderati.

Il che, se ci pensate, è già tanto.

Quest’anno ottobre è sceso un po’ troppo presto per chi è rimasto affezionato ai luminosi ricordi dell’estate, troppo tardi per chi come me non aspettava altro che il freddo vento dei cambiamenti, quello che sa di zucchero bruciato e antiche tradizioni.

Ottobre è il mio mese preferito. E’ un’anima inquieta, lo spirito pazzerello di un folletto popolano, frizzante e candido di gesso la mattina, ululante e tenebroso nelle notti senza fine.

Ma torniamo indietro di quattro anni. Anche allora ottobre era il mio mese preferito, anche allora la brughiera del Kent era la mia casa.

L’unica differenza –una sostanziale differenza – che distingue una bambina di nove anni da una ragazzina di tredici è che le notti, quando il freddo è tale da assopire ogni contatto con il mondo esterno, a nove anni credi per credere. Prima del freddo.

 

 

31 ottobre 2011

 

 

A long grey street (1,2,3)

1

Ottobre è color zucca. Stranamente, mi riviene in mente il periodo in cui mia madre mi chiamava affettuosamente zucchetta, baciandomi in un punto indefinito tra i capelli.

Non so fino a che punto c’entri con la mia storia, ma pazienza. Quando attingi al passato, i ricordi fluiscono ininterrottamente, non fanno domande riguardo la loro pertinenza col tuo pensiero iniziale. Non sono educati, i ricordi.

Sono impertinenti. Ti scottano. Zucchetta, zucchetta!

Ma certe volte, sono pure piacevoli. Hanno il sapore di glassa.

E fidatevi, nelle notti fredde di cui prima parlavo, i bei ricordi sono la miglior cosa in cui credere.

2

Ricordo che, prima del supermercato, tra le due windy hills stava una lunga strada asfaltata che dai negozietti di periferia portava fino al camposanto. Ai lati della strada si ergevano due austere file di platani, che trasformandosi prima in pioppi e poi in abeti, donavano a noi contadinotti –il sospetto che i londinesi ci chiamassero così era tutt’altro che infondato – la perfetta ambientazione per qualche tragedia.

C’era chi sostenesse che al primo platano si fosse impiccato il figlio del barbiere, che per altri era la moglie del fornaio; le amiche di mia madre erano convinte d’aver visto le streghe tra le fronde degli abeti, e a quanto diceva il pettegolezzo mio cugino Tommy era stato sedotto da una ninfa suicida, reincarnata in usignolo.

«E’ vero, Tommy? » avevo chiesto.

Mio cugino si era dato una sistemata ai capelli. Aveva le guance rosse, gli occhi celesti –identici ai miei – liquidi ma stranamente freddi. Era stato in chiesa, e a giudicare dal suo ingiustificato imbarazzo (faccio paura?) doveva essersi appena confessato.

«Lo dicono tutti, no? » abbozzò un sorrisetto che aveva qualcosa di nervoso, e qualcosa di irrisorio. La sua risposta non mi soddisfaceva affatto, ma finsi di accontentarmene.

Del resto, non mi potevo aspettare altro da un damerino ingessato in uno smoking di due taglie più piccolo. Da uno che probabilmente aveva detto al pastore: «Che Dio mi perdoni per essermi lasciato sedurre da una ninfa suicida. ». Del resto, me ne importava ben poco.

3

Ricordo i 31 ottobre della mia vita con sconcertante precisione.

Le mattine iniziavano con il rito della candelina, e si concludevano con un deludente lunch a base di uova e maionese. Niente a che vedere, dunque, con la cena della Vigilia o il pranzo pasquale, gli abiti in carta velina e raso alle feste folkloristiche o la devastante gioia alla vigilia dei new year’s day.

Non immaginatevi una bella festa. Halloween non lo era per niente.

 

 

A rainy afternoon (4,5)

4

Ma adesso cominciamo sul serio. Prima mi pare di avervi accennato un “rito della candelina”.

Da noi era tradizione lasciare una candela accesa al limitare della long grey street.

A quanto mi avevano raccontato, sarebbero servite ad indicare alle anime dei morti la strada per il villaggio. Ed era un’idea carina, se non avessi immaginato un corteo funebre in versione spettrale.

Mille fantasmi che chiamano nella notte: «Ti unisci a noi, piccola? Brindavamo giusto al nostro anniversario. Tu da quanto sei morta? Le candele sono gli anni che ci separano dall’aldilà. »

Lenzuoli, mi ripetevo, non fantasmi. Ma non riuscivo assolutamente a convincermene.

Il cancello del camposanto, avvolto di edere rampicanti, mi ricordava in qualche modo l’ingresso d’un grande palazzo nobiliare caduto in rovina.

Certe volte mi capitava di vedere un castello al posto delle lapidi, l’abbozzo di una timida primavera dove sotto i miei piedi non c’erano altro che foglie marce.

Mia madre ed io lasciammo lì la nostra candelina. Per le dieci di mattino eravamo di ritorno a casa: il freddo, per quanto meraviglioso, iniziava a compiere la sua maledizione. Bruciava tutti. Io lo sentivo nelle ossa, sulle palpebre. Come se mi avessero cavato gli occhi. Era un’immagine macabra, ma sono arrivata a considerare che non c’è niente di più macabro del freddo in sé. Un assassino delicato come un’ala di farfalla.

Chi come me è cresciuto nel Kent, potrà forse comprendere il sentimento degli artisti Romantici: la natura è invincibile. Ma la vita è la forza più potente.

5

Chiusa nella mia cameretta (salite le scale, svoltate a sinistra, è l’ultima porta in fondo al corridoio) il mondo assumeva la consistenza dei sogni. Era un foglio bianco, oltre al vetro, una commedia anni ’20 senza sonoro. Addormentarsi era facile quanto chiudere gli occhi e i miei pomeriggi trascorrevano nell’inerzia più totale.

«Zucchetta, vieni giù! Lo vuoi assaggiare un biscotto alle mandorle? ».

In particolare, i pomeriggi dei 31 ottobre, trascorrevano nell’inerzia più totale intervallata a una sana degustazione di dolci fatti in casa. Posso dire di ricordare ancora il piano inferiore della mia villetta, con quei grandi mobili in ciliegio, il divanetto rosso a due posti, la lampada di cartapesta, quella sciocchina della bambola spagnola, nei suoi merletti rossi, in un eterno plié sulla mensola della cristalleria. Ad Halloween mia madre disseminava dolcetti in ogni angolo.

Capitava spesso che nei primi di novembre ne trovassi ancora: dietro la televisione, tra le riviste, semplicemente sotto i tappeti.

«Buonissimo » fu il mio commento a un ragnetto di liquirizia. La pasta nera mi si incastrava fra i denti e mi lasciava per ore il retrogusto dolciastro di qualcosa di appena assaggiato.

Prima di essere un colore, Halloween era un sapore. E sapeva di buono, a quanto ricordo.

 

 

                                              Jack-o’-lantern (6,7,8)                                             

6

Quando non mi chiamava “zucchetta” mia madre mi diceva “la sua piccola poetessa “, e pensandoci, tutti i poeti vengono presi per sentimentalisti confusi; ma come accettare il cambiamento? Il ripiegarsi delle ore notturne fino al giorno?

Lei non raccontava di “bellezza”, le sue leggende erano dure e dolciastre, avevano il sapore delle candeline, il fresco dell’asfalto bagnato sulla long grey street, ma soprattutto avevano quel fascino allegro e macabro al contempo, il fascino che che illumina la notte del 31.

Tra tutte, la sua preferita era una leggenda irlandese.

«Zitta e buona, zucchetta, adesso ti racconto una storia. » Mi aveva detto. Era verso la metà di ottobre. Faceva freddo, ma non abbastanza perché portassimo i cappotti invernali.

«Che storia, mamma? »

L’aria aveva il sapore caldo delle frittelle, e aveva la consistenza di un dolcetto di marzapane. Era da assaggiare, e il quel periodo sono stata come non mai innamorata della vita nella sua completezza.

«Se ne stava in Irlanda, quel birbante di Jack. » Iniziò, battendosi le mani fredde sulla veste di flanella. Quando raccontava mi pareva sempre un po’ più giovane, e sempre un po’ più bella. I suoi occhi erano tanto limpidi da poter figurarsi ciò che raccontava direttamente proiettato nelle sue pupille nerissime.

«E che dire, Clarissa » -perché non mi chiamava mai, mai per soprannome quando raccontava - «nella vita non faceva altro che bere e giocare d’azzardo. Ma dalle tasche bucate l’oro scende, e in campo a pochi anni Jack il contadino si trovò senza un soldo. »

Me lo immaginavo piuttosto bene, un Jack con le guance rosse e tonde, il nasone schiacciato, la salopette di velluto marrone sulla camicia cobalto, con la pancia da bevitore accanito e l’ira facile di chi conosce il mazziere meglio dei suoi figli. Viva L’Irlanda! Due boccali di scura! Un irlandese fatto e finito, insomma, con quel pizzico di allegro patriottismo che li contraddistingue.

Poi l’avevo visto vagare nel buio, nel freddo limbo che anch’io avevo conosciuto nella long grey street, avevo sentito il cimitero alle mie spalle; «Bambina, allora vieni? » mi dicevano le anime-lenzuoli con i loro visi spenti, «accendi le luci: nelle case dei vivi, la morte non entra. »

Ma la morte camminava schiva sulla long grey, come una bestiola braccata, le candeline costeggiavano la sua ultima passeggiata fino al cimitero. Dalla strada fredda di acquerugiola, un ragazzino scoppiò a ridere. «Scherzi, Tom? La foresta della street è proibita. Ci sarà Jack con la sua lanterna … ».

Quella di Jack-o’-lantern era il tipo di storia che torna a far visita nelle notti fredde, quando la luce è calda e pungente come la fiammella di una candela, con quel suo profumo di umido e di bruciato, di memorie perse nel vuoto.

Avevo visto quell’irlandese dalla camicia cobalto zoppicare sofferente con la sua lanterna in mano, perso in quell’inconsistente grigio dove i rinnegati vagano in cerca di redenzione.

«Che freddo, mamma! ».

Mia madre indossava una veste da camera rossa, in tono con l’oro dei suoi capelli. Allora mi era venuto in mente che qualche volta, solo qualche volta, l’eleganza sta nella capacità di sembrare bellissimi anche quando non è possibile esserlo. «Fa freddo, zucchetta. Torna a casa presto. »

Poi mi aveva lasciato un cestino e un lungo mantello.

Ci sarà Jack con la sua lanterna. L’aria della notte mi aveva stregato.

7

So che ora starebbe bene un “ricordo quel 31 ottobre come se fosse ieri” … ma no, no, io quell’Halloween non lo ricordo affatto. So solo che l’aria aveva la consistenza di una di quelle cartine colorate dove si avvolgono le caramelle alla frutta, e che un bambino di nome Tom ricorreva una Lucy streghetta per il Viale delle Ville. 

Io non ero propriamente mascherata, nonostante abbia un vago ricordo di una me stessa-vampira davanti allo specchio del soggiorno.

Immaginate un buco nero, sul cui fondo appoggia una superficie di metallo. Immaginate che la pioggia cada al suo interno, che sia silenziosa, e che s’infranga contro il metallo. Sentite quel suono? Potete immaginarlo? Stessa cosa sono le sensazioni passate … allora era più novembre che ottobre, le piogge erano torrenziali, ed io avevo ancora le labbra dolci di cioccolata.

 «Che bionda carina. » commentò una zucca all’angolo della strada.

«Ce lo lasci un dolcetto? » domandò un’altra.

«Piantala, Bob, non vedi che la imbarazzi?! » cinguettò una con grandi occhioni gialli. Mia madre avrebbe detto che era una finta-innocente. Di quella fuori zucchero e dentro sangue (o forse era veleno?). 

Poi immaginai una colata di sangue caldo e scuro sgorgare da un luccicante cumolo di zucchero raffinato, e mi vennero i conati. La mia mente era capace di terrorizzarmi; molto di più di quanto il mondo esterno potesse fare.

Sedute su una scalinata – ginocchia contro ginocchia e mani sulle mani dell’altra – due

bambine-bambole si spartivano i dolci che avevano raccolto.

«Cynthia! Dai, lo sai che le caramelle alla menta non mi piacciono! » stava dicendo quella rossa, quella con le labbra cucite e gli occhioni da manga. Cynthia – che presumo fosse quella con la parrucca viola – era scoppiata a ridere: «Beh, non piacciono neanche a me. Ma dovremo sperimentare nuovi sapori, che dici? ». Provai una vaga sensazione di dolore, e non di certo per la questione delle caramelle alla menta.

Dovevano essere amiche, quelle due, come lo eravamo state io e Luna –Lunetta- Wilson prima che partisse.

Ogni tanto penso a lei, e ai pomeriggi che passavamo insieme, a quei suoi grandi occhi scuri e obliqui che d’inglese non avevano niente. Penso a quelle volte in cui diceva: «uffa, Clary, odio il freddo» e penso a come si stia divertendo nel caldo verde e pulsante della foresta messicana.

In quel momento avevo solo voglia di lasciar perdere tutto e correre da loro. Avrei detto: «A me le caramelle alla menta piacciono» e saremo diventate amiche.

Una parte di me però non me lo permise; e io continuai la mia passeggiata solitaria verso la long grey.

Ecco un’altra goccia di pioggia sul metallo: un forte odore di bruciato mi salì alle narici, e mi colmò gli occhi di lacrime. Nella soffice luce di un lampione, la cenere danzava come neve d’inverno.

Quando mi voltai, le zucche all’angolo della strada avevano assunto uno sguardo timido e sul campo del Viale delle Ville sei ragazzini danzavano feroci intorno al fuoco.

Mi venne in mente una storia che mia madre mi aveva raccontato e i ragazzi si trasformarono in diavoli, diavoli con il forcone e con le corna. La superstizione è vecchia quanto la vita stessa.

Così, in quella notte, con il falò che pian piano perdeva contorno sotto le lacrime che mi annebbiavano gli occhi, ricordo che rimasi molto colpita da quell’immagine e dal significato che poteva assumere. Era quello – quello – l’istinto animale, quell’essere selvaggi, in qualche modo prettamente umano, ad affascinarmi.

 Come il fascino del fuoco. Attenta che brucia! Mi avrebbe detto la ragione, ma per una volta – forse la prima nella mia vita – non l’avrei ascoltata.

«Ciao, piccola! » una ragazza – che nella mia testa poteva avere dodici anni come venti – mi lanciò contro qualcosa di indefinito. Era magrissima, ed era bella, avvolta in lungo costume grigio attillato, con il viso così pieno di pezzetti di metallo. Il fuoco le riverberava addosso rosso e scuro e sanguinante e mi accorsi con non poco stupore che il suo volto non era altro che denti, che labbra, che un immenso sorriso un po’ folle e un po’ meraviglioso.

Abbassai lo sguardo sul marciapiede, dove la cosa che mi aveva lanciato era atterrata. Per qualche secondo, rimasi stupita: sollevai quella che doveva inequivocabilmente essere una bustina di caramelle. Era un po’ incenerita e sapeva di ferro e fuoco. Me la infilai in tasca.

Nella mia testa, la ragazza in grigio assomigliò prima a una ninfa bianca, poi a una strega. E pensandoci dopo, a mente lucida, forse era solo una ragazza gentile.

8

Dopo il falò ci furono le villette a schiera del secondo viale, e i bambini che facevano trick-or-treat. Avrei dovuto farlo anch’io, avrei dovuto bussare a una porta e aspettare che mi aprissero. Poi avrei urlato: «Trick-or-treat ? » e avrei ricevuto una manciata di dolci. «Thanks » e poi: «You’re welcome» e sarebbe andato tutto come doveva andare.

Così fanno i bambini. Così facevano Cynthia-&-Amica, che dovevano aver risolto la questione delle caramelle alla menta.

Ma nel mio cestino c’era solo la bustina di caramelle (quella che mi aveva regalato la ragazza in grigio) e non ci fu nient’altro per tutta la serata. Uno strano fresco salì dalla terra, dal fondo buio del viale. Cominciai a correre senza un apparente motivo.

All’incrocio, il secondo viale proseguiva per molti metri ancora. Se fossi andata avanti, probabilmente sarei arrivata al terzo settore di villette e di conseguenza ad altri bambini che reclamavano caramelle. Invece svoltai a destra e finalmente imboccai la long grey street, altrimenti conosciuta come il luogo dell’eterno autunno.

Alla mia sinistra c’era il bosco, fitto e nero come lo ricordavo, il bosco degli impiccati e delle ninfe-usignolo, quel bosco di cui il bambino aveva parlato: «Scherzi, Tom? La foresta della street è proibita. Ci sarà Jack con la sua lanterna … ».

Io non scherzavo, e non ero Tom. Ma quella frase, udita così per caso, sembrava stranamente rivolta a me. Pensai alle zucche, a Bob e a Occhioni Gialli, ed ebbi improvvisamente paura.

Paura di Jack, della sua lanterna, paura delle zucche, della foresta, della long grey street e del cancello del cimitero che mi scrutava dal fondo della strada.

Alla mia destra il bosco si diradava, i grandi pioppi si trasformavano in arbusti, le piccole radure erbose in squarci di brughiera. Lì la luna splendeva come una lanterna. Mi vennero in mente quei racconti di mia zia, le Highlands scozzesi dove il cielo era livido e i rintocchi delle campane scandivano ore di mille minuti ognuna, le infinite ore della notte.

Su entrambi i lati le candeline avevano qualcosa di meraviglioso e di terribile insieme; imprigionate nella cera, le fiammelle – così sante, così sacre – assumevano per una volta all’anno il peccaminoso sapore dell’uso pagano.

Pregai il vento che non le spegnesse. Nelle case dei vivi la morte non entra era la conclusione della storia di Jack (o forse era quello che dicevano i morti?) non spegnere la luce. E io non avevo alcuna intenzione di farlo.

Avanzai per qualche metro ancora. Il cancello del cimitero era scintillante, color argento sotto i raggi della luna. Una piccola radura d’un verde sorprendente precedeva le prime lapidi. Immaginai che sotto quella terra smossa e ghiaiosa stavano le bare, e dentro le bare le ossa, e la polvere.

Poi immaginai le persone, e al fatto che erano state in vita, alle persone che magari erano nate nell’Ottocento, addirittura due secoli prima di me. Immaginai a come avevano vissuto, nei loro costumi d’epoca, a quelle foto bianche e nere che sembrano foto di attori, dove la gente non sorride mai e gli uomini stanno nei loro vestiti eleganti, col sigaro in bocca, le donne con le lunghe vesti. Immaginai una bambina, che invece d’esser nata nel 2002 era nata nel 1902 e a come doveva sicuramente indossare quei calzini bianchi fino alle caviglie, e le scarpette di vernice, i cerchietti per capelli e i vestitini col fiocco, che lasciavano scoperte le ginocchia ossute. Sulla lapide c’era una sua foto, magari, con la pelle secca e incartapecorita, i boccoli bianchi e un po’ unti che si intrecciano dove posano le stanghette degli occhiali. E’ morta prima di vedere il duemila.

Immaginai che in quelle bare, lì sotto terra, stava quella gente che era nata e che era morta, e mi venne una fitta al cuore. Mi avvicinai correndo e potei scorgere la foto di un bambino con i capelli tagliati tutti pari; ebbi voglia di accarezzare quei capelli perché sulla lapide c’era scritto 1923 – 1928 e quel bambino era più piccolo di me e tremava di freddo nella sua bara.

Mi tornò in mente la Ragazza Sorridente, quella che era come una strega sul rogo, e le mie dita cercarono il pacchetto di caramelle nella fodera interna nel giubbotto. Doveva arrivarmi alle ginocchia, allora; tremavo dal freddo, ed ero lo stelo di un fiore in un sacco di iuta.

Ma tornando a noi … c’era un uomo, all’imboccatura della long grey street. Indossava un paio di pantaloni di velluto beige, e sopra le bretelle e una camicia cobalto che tendeva sullo stomaco. Sembrava enorme, con la luna alle spalle, e ancora più enorme era la sua ombra, lunga e nera come uno scheletro nella nebbia fitta della notte. «Va’ via! Sciò! Questo non è posto per bambine! »

In mano, dove avrebbe potuto tenere un coltello come una scatola di cioccolatini, teneva una lanterna.

«Mi hai sentito?! Su, vai a giocare con gli altri bambini … » S’interruppe, e mi accorsi che stava singhiozzando, nella grottesca imitazione di una risata. «Capito, eh? Qui disturbi gli spiriti! »

Non ricordo precisamente cosa accadde dopo. Ma dalla luna iniziò a colare sangue, che toccando terra si trasformava in zucchero, Bob e Occhioni Gialli saltellarono lontano dal loro angolo nel Viale delle Ville, le candeline si spensero e l’ultima luce che rimase fu quella della lanterna di Jack. Sentivo come se mi avessero spinta in una vasca d’acqua gelida, e come il freddo mi penetrasse a fondo in ogni millimetro del mio corpo. Poi fu il momento delle scosse elettriche e delle tempeste di tuoni e fulmini. Il rumore era così forte da ferirmi nell’interno, tanto da lasciarmi minuscola e tremante come un insetto rannicchiato al suolo e calpestato a morte. Sulle spalle dell’uomo, dove dovrebbe normalmente poggiare la testa, c’era una grande zucca che non riconobbi né come Bob né come Occhioni Gialli. Dal taglio obliquo inferiore si intravedevano i denti, sopra il naso, ancor sopra – dove sarebbero dovuti brillare gli occhi – stavano due enormi tizzoni ardenti, caldi e rossi, il dono che Jack aveva ricevuto dal Demonio, il fuoco preso dall’inferno. Era come se fossi io la strega, il mostro, l’anima rinnegata, era come affogare in un incubo e non poterne uscire. Così presi ad annaspare, e forse urlai e piansi davvero, di quella lontana notte del 31 ottobre posso forse dire di ricordare davvero solo la luna, sfolgorante nel cielo come un nuovo sole freddo.

 

November first (9)

9

Mi svegliai che ero nel mio letto, e il caldo mi avvolgeva come una carezza soffice, lo sentivo sul viso e sulle braccia come se la polvere di Morfeo posasse ancora sul mio corpo. Come prima cosa avvertii una fitta di dolore al ginocchio sinistro; mi voltai nel letto facendo leva sui gomiti. I capelli mi si aprivano intorno al viso come una corolla di margherita, così leggeri, chiari e profumati sul cuscino: eppure, sentivo ancora la cenere calda scottarmi il viso.

«Zucchetta! » Mia madre entrò in camera portandosi dietro una folata calda di odore di latte e brioches, «che mi combini? Non la smettevi di urlare, sta notte » sorrise, ed era così diversa vestita in tailleur e col giro di perle al collo, così diversa da com’era la sera prima, con i capelli sciolti e la veste da camera. Vidi quasi Bob farmi l’occhiolino, e Occhioni Gialli ridere civettuola: la fitta di dolore passò dal ginocchio alla testa, e il mio sorriso si trasformò in una smorfia.

«Che è successo? » domandai, «sono davvero svenuta? »

Mia madre mi guardò con qualcosa che avrei quasi definito compassione e a me venne da piangere. «Mamma! » - cercai il suo corpo con le braccia - «non voglio più che sia Halloween! Ieri notte ho fatto mille incubi! »

Nell’intreccio di braccia, visi e capelli che eravamo, intravidi il sorriso di mia madre: «Come dici tu, solo incubi. Non sei affatto svenuta, zucchetta. Ieri sera faceva freddo, e tu non devi esserti sentita troppo bene. L’anno prossimo ti porto in Scozia, d’accordo? E poi, che ne sai, per il prossimo 31 ottobre magari Lunetta si sarà stancata del Messico … »

Lì per lì pensai che avesse ragione, e che, dopotutto, Halloween era ancora lontano; i ricordi della notte precedente finirono tra gli incubi da dimenticare ed io tornai a dormire, con mia madre seduta sul bordo del letto. Al di là della finestra, il mondo era ancora un foglio bianco senza sonoro, con la sola differenza che adesso la mia testa era lontana migliaia di chilometri, in particolare nella foresta messicana, e le miei mani stringevano quelle di Luna; fuori da qui il cielo era freddo, ma non c’era né fuoco né ghiaccio – e mai più ci sarebbe stato – che potesse impedirmi di sognare.

 

 

Epilogo - 1 novembre 2015

 

Così, mentre la luce è una costante sulla brughiera che cambia e non cambia mai troppo, e le mie dita congelano lentamente appoggiate contro il vetro, i miei ricordi scivolano indietro e mi colmano gola e cuore, aggiustano quelle promesse infrante, mi portano in quei luoghi della mia infanzia che ricordo con una certa partecipazione emotiva, e una certa malinconia. Mi viene in mente, con quella che si dice “ironia amara”, della febbre orribile che ho avuto nell’ottobre 2012, quei tre giorni passati ad annaspare nel letto, immersa nei deliri, e come di conseguenza non sia andata in Scozia né abbia rivisto Luna Wilson tornare dall’altro capo dell’oceano. Dietro i finestrini del treno, il mondo scorre veloce e non mi dà possibilità di osservarlo come in realtà vorrei: il lago, i fiumi che scivolano attraversando le campagne, il sole che lentamente tramonta lasciando posto a una sera fresca come una carezza. Tempo due ore e vedrò le Highlands – e finalmente potrò dire di non averne solo sentito raccontare – sarò tra le braccia di mia zia e sentirò le sue leggende. Mia madre continua a dire che ho sognato, in quella notte lontana, che è stato un incubo e che tale rimarrà per sempre. Però ogni tanto la vedo sedersi sul bordo del mio letto, mentre fingo di dormire, sento le sue mani delicate accarezzarmi i capelli e divento consapevole che ognuno ha le sue debolezze  e che spesso ciò in cui si dice di credere non è quello che si crede veramente.

Non chiedetemi perché, ma io so di non aver solo sognato.

Ogni Halloween scivola come uno strato di nebbia sempre più sottile sulla mia anima – dove non si coglie la magia non si coglie neppure la paura – e la disillusione è più dolorosa di un incubo, il non-credere ferisce più di un credere sofferto.

Vado al bar del vagone, ordino un tè e lo porto a mia madre. Sta dormendo, e una ciocca di capelli biondi – ma mai quanto i miei – le ricade davanti alla fronte. Le appoggio il bicchiere bollente sulla guancia e lei si sveglia all’improvviso. Adesso sono io la madre, e lei è la bambina, è piccola come un fiore sul sedile del treno.

«Ben svegliata »

«Cielo, Clary, un giorno di questi mi farai morire » dice, e penso con una certa tristezza che vorrei ricordarla così per sempre, più giovane di almeno trent’anni, con il sorriso ribelle di chi scappa lontano, e gli occhi seri di chi promette che resterà per sempre.

Poi sorrido, cerco con le dita il pacchettino di caramelle nella fodera del giubbotto. Le unghie affondano nella plastica, facendola sfrigolare, le fragoline zuccherate sono dure dopo tutti questi anni. Penso che un giorno vorrò tornare nella casetta che abbiamo venduto, vicino alla long grey street che è stata il parco giochi della mia infanzia, accarezzare ancora i merletti rossi dell’abito spagnolo della bambolina (adesso stipata in uno scatolone fra le altre cose) e chiudere gli occhi, finalmente, come quando ero bambina e avevo paura del buio, pensare alla mia vecchia filastrocca: ora andrà tutto bene, e così sarà finchè l’incantesimo dura. Quando aprirò gli occhi sarà sorto il sole, e non ci sarà più alcuna notte di cui avere paura.

  
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