T o r n e r ò , t o r n e r ò , d a v v e r o ;
L’arte di quella città che non c’è più.
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Agonia in rosso, infagottata per la tormenta dentro di sé, camminava, si fermava, guardava, sospirava. E l’aria si riempiva. Un effluvio dolciastro dai suoi polmoni congelati; il tempo fermava il respiro condensato tra la luce sofferente di una lanterna, che scompariva in un baleno, poi ritornava. Il suo volto alzato un po’ all’insù, nel buio, incolpevole e soave, cercava le stelle. Strinse la gonnella dal freddo e per dispetto, rivelando un livido di luna sulla pelle; diceva che era bello, l’inverno, perché la sua neve copriva la violenza, la vita che non conoscevo ancora.
«Kayo».
«È buffo» disse, e aveva ragione, «come parlino eccessivamente, gli occhi».
Dal cielo pioveva qualcosa di appiccicoso, una consistenza morbida iniettata d’inchiostro bianco, inutile, che s’infrangeva su di noi e che la rendeva felice.
«Mi piacciono! Mi piacciono molto i tuoi occhi, Kayo». L’innocenza bambinesca che mi fece parlare mostrò Kayo in quello che era: lei. Lei, che arrossiva leggermente intimidita, che indietreggiava alzando le mani e che balbettava dandomi le spalle. La sua fragile figura, la piccola schiena forgiata per ricevere carezze, non ferocia. Al pensiero, calciai il vuoto, digrignando i denti. Odiavo quella città, che sapevo l’avrebbe voluta portare via. Odiavo che ospitasse Kayo, che era la sua arte, il suo orgoglio e la sua fortuna. Odiavo anche che non ci fosse più, quella marcia città, che ora esisteva solo in questo sogno tridimensionale che mi voleva donare la possibilità di salvarla; di conservare le sue strade, le sue case, la sua scuola, la sua noiosità, il suo egoismo, e Kayo, sempre sua. A quel punto —forse— non potevo odiarla di più, anzi, sorridevo, perché Kayo era lì. Kayo c’era, e —solo per un attimo— c’ero anche io, ma avrei voluto restare.