ARTEMISIA
Artemisia
uccideva.
Era
nata per quello e in
fondo lo sapeva anche lei.
Era
il mero strumento di
un destino che non aveva scelto, sempre guidata dalla mano del suo
signore.
Eppure
non poteva
esimersi dal versare lacrime di sangue per ogni vittima che abbatteva.
Lei
ne era convinta, quel
sangue che tingeva il suo spettro lucente erano le sue lacrime di
dolore e
rassegnazione.
Sapeva
infatti di non
poter contravvenire alla sua natura, come un girasole non
può cessare di
inseguire l’astro di fuoco.
Grande
era il timore che
suscitava il suo nome. I poeti ne cantavano la gloria e la bellezza
immortale.
Unica
nel suo genere.
Il
grande re aveva
conquistato popoli e nazioni grazie alla sua bella e mortifera
Artemisia. Ora
si preparava a vincere l’ultimo regno indipendente: il mondo
sarebbe stato suo.
Artemisia
conosceva bene
il campo di battaglia. Vi si muoveva come una sirena nel profondi blu,
bella e
triste intonando il suo canto di morte.
Uccideva
e piangeva per
quei soldati troppo giovani e tropo vecchi, per quei figli, per quei
padri.
Il
grande re avanzava
invincibile preceduto da Artemisia, terrore dei vivi.
Una
battaglia lunga,
estenuante condotta dalle prime luci dell’alba.
Gran
parte dell’esercito
nemico era stato sbaragliato.
Solo
la cavalleria ormai
opponeva un’orgogliosa resistenza.
All’improvviso,
sotto il
sole di mezzogiorno, un cavaliere si staccò dalle sue fila
in una solitaria e
coraggiosa corsa contro il potente re.
Artemisia
era lì: lo vide
giungere forte e coraggioso sul suo destriero bianco, fronteggiare il
proprio
re.
Il
cavaliere splendeva di
luce propria nell’armatura argentea. Reggeva un possente
scudo nel quale
Artemisia riconobbe lo stemma del principato.
Ormai
aveva imparato a
distinguere e catalogare i soldati e di certo quello non era un uomo
qualunque.
Azzardò che si trattasse del principe in persona.
Persa
nei suoi pensieri a
stento si rese conto che lo scontro era iniziato.
I
due sovrani non
risparmiavano colpi.
Ad
un tratto il cavallo
bianco si impennò, imbizzarrito e nell’urto
l’elmo regale cadde liberando una
cascata di ricci biondi.
Ad
Artemisia sembrò che
il principe fosse bellissimo, ritto sul cavallo rampante, inondato dai
raggi
del sole.
Aveva
visto molti uomini,
anche nell’intimità della loro tenda, eppure fu
quella la prima volta in cui si
arrestò come folgorata per la bellezza del giovane.
Si
soffermò con
insistenza sul volto angelico e vide nei suoi occhi coraggio e paura,
disperazione e morte.
E
Artemisia seppe che il
bel principe aveva deciso di morire per il suo popolo.
Era
lì a combattere con
la certezza di non veder sorgere un nuovo sole, con la consolazione di
aver
tentato l’impossibile per fermare il nemico.
Ebbe
pietà di lui. Così
forte come non l’aveva mai provata.
Sapeva
che questa volta
non le sarebbe bastato piangere stille amaranto per fare ammenda di un
simile
delitto.
Maledisse
la sua natura e
fissò il giovane che presto sarebbe stata chiamata ad
uccidere.
Pietà,
ancora pietà quasi
da impazzire per lo strazio.
Si
accorse che il
principe la fissava con timore, infine con rassegnazione, consapevole
di avere
davanti agli occhi la dea della morte.
Se
avesse potuto,
Artemisia sarebbe arrossita: si sentì colpevole, nuda sotto
lo sguardo
cristallino.
E
capì.
Ne
aveva sentito parlare
tante volte, descritto nei suoi effetti sconvolgenti: amore.
La
pietà non era un
sentimento sufficiente a spiegare il dolore che provava pensando alla
fine del
principe.
Con
un’intensità mai
provata prima, desiderò che il cavaliere non morisse.
Sentì
il forte richiamo
del grande re che reclamava i suoi servigi. Ma lei doveva, voleva
salvarlo.
Non
c’era davvero modo di
disobbedire al padrone, di contravvenire alla sua stessa natura?
Una
vita per una vita.
Il
grande re vibrò un
colpo più forte degli altri, quello decisivo. Il principe
frappose lo scudo in
un vano tentativo salvezza; nessun’arma era capace di
contrastare la spada del
sovrano.
Eppure
successe qualcosa che
nessuno avrebbe immaginato: Artemisia si infranse in mille schegge
d’argento,
luminose come lacrime d’addio.
Solo l’elsa
rimase
intatta, stretta fra le mani del re sconfitto.