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Autore: Lady Five    18/01/2016    6 recensioni
“Le città di frontiera hanno sempre un’aria randagia. Sembrano non appartenere a nessuno”... come quella donna bella e triste che lì attende il suo destino. Tra le mani ha soltanto un biglietto e una promessa.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mazzi di violette


Una pioggia fredda e insistente batteva contro i vetri impolverati e, con il suo fruscio metallico, interrompeva il silenzio malinconico della stanza. Attraverso le tendine di pizzo ingiallite filtrava una luce pallida e triste, illuminando appena quella che era la camera migliore del più bell’albergo della città. E in effetti una volta doveva esserlo stato, perché quella stanza aveva il preciso odore che hanno le cose corrotte dal tempo, le cose che in passato sono state belle e raffinate. I muri trasudavano umidità, qua e là sul soffitto stuccato si aprivano delle crepe, e la tappezzeria in diversi punti appariva scolorita e strappata.
Seduta davanti al tavolino della toilette c’era una giovane signora che si pettinava i corti riccioli neri. Le cameriere dell’hotel, ragazze semplici con i capelli biondo cenere raccolti sulla nuca con nastri colorati, l’avevano subito soprannominata la “Principessa”, perché era arrivata un pomeriggio come quello, grigio e piovoso, con una carrozza elegante, tanti bauli e valigie, un lungo soprabito scuro e stretti guanti di capretto. La veletta, che le conferiva un’aria un po’ misteriosa, i suoi gesti misurati ed eleganti, il suono della sua voce, avevano fatto sognare le timide ragazze avvolte nei loro grembiuli, che immaginavano per lei splendide feste in palazzi dagli specchi di cristallo. La Principessa poi non parlava molto, ma sorrideva spesso, ed era gentile con loro.
Anche quel pomeriggio, nonostante la pioggia e il vento, la Principessa non voleva rinunciare alla sua passeggiata quotidiana. Non le importava di infangarsi l’orlo del vestito. Al suo ritorno, in quella stanza non ci sarebbe stato nessuno a notarlo. La Principessa uscì dall’albergo, che si trovava proprio nel centro della città, lungo la via principale. L’antico orologio della piazza vicina batté sei colpi, che si sciolsero come liquefatti nell’aria satura di umidità.
Le città di frontiera hanno sempre un’aria randagia. Sembrano non appartenere a nessuno. Le spoglie vetrine dei negozi, la luce fioca dei lampioni, gli alti palazzi con le finestre sbarrate e i muri scrostati, tutto ha un’attitudine precaria.
Quel pomeriggio, per il maltempo, le strade erano quasi completamente deserte. Ma nei giorni di festa, anche se c’era solo il pallido sole di fine inverno, la gente si riversava nei vicoli e nelle piazze. Era gente di ogni razza: c’erano tedeschi con gli occhi cristallini, slavi dai lineamenti marcati, zigani bruni in abiti sgargianti e braccialetti d’argento. Molti si voltavano a guardare la Principessa, perché era bella e ben vestita, ma soprattutto perché i suoi occhi neri erano pieni di una strana tristezza.
Nei giorni di festa la città si risvegliava: agli angoli delle strade spuntavano bancarelle che vendevano ogni tipo di merce, ragazzi con lo sguardo ridente cantavano e suonavano, e donne vestite di scuro si offrivano di leggere le carte. Tutto quel movimento di suoni e colori divertiva molto la Principessa. Ma ora, nei vicoli silenziosi, si sentiva particolarmente sola. Camminando quasi a caso, capitò davanti a un grande palazzo signorile. Il portone era aperto e dall’esterno si riusciva a intravedere una lunga scalinata di marmo. Così si trovò a pensare a una mattina di ormai molti (troppi!) giorni prima, quando si era svegliata e accanto a sé non aveva trovato più nessuno, ma soltanto un mozzicone di candela e un biglietto contenente poche righe e un indirizzo. E lei aveva raccolto i suoi bagagli e si era messa in viaggio verso quell’indirizzo, senza sapere nulla della città e delle persone che avrebbe dovuto incontrare.
Con in mano il biglietto ingiallito dalle lacrime si era trovata, come ora, sotto la pioggia, davanti al grande portone, e guardava smarrita lo stemma di marmo sopra l’arcata e le finestre illuminate. Ma quella volta non era entrata. Aveva preso alloggio con tutti i suoi bauli nell’albergo centrale e lì aveva esitato a lungo prima di presentarsi agli sconosciuti proprietari del palazzo. Anche adesso la Principessa esitava davanti alla lunga scalinata. Era abituata ai grandi palazzi, sapeva come comportarsi nei salotti della buona società, eppure quella casa le metteva una strana soggezione. Quella casa dove era stata subito accolta con cordialità e dove nessuno le aveva fatto domande. Allora, come adesso, la Principessa era stata introdotta in un salotto scintillante e messa a sedere davanti a una tazza di tè bollente. Di fronte a lei stava in silenzio un’anziana signora vestita di pizzo nero e con i capelli d’argento raccolti elegantemente sul capo. La Principessa non seppe mai chi fosse, perché ogni volta parlasse di lui e come potesse conoscerlo così bene. Forse era sua madre? Impossibile. Ma cosa era impossibile?
“Cosa sai di lui, bambina mia?” ripeteva sempre la vecchia signora.
Già, cosa sapeva di lui la Principessa? Non sapeva nemmeno se era una spia, un poeta o un dissidente.
“Cosa sai del mondo, bambina mia? Sei così giovane!”
Anche suo padre glielo ripeteva spesso, quando lei, durante il pranzo, voleva discutere di politica o parlare dell’ultimo saggio letterario che aveva letto. “Cosa saprò mai del mondo, finché resto chiusa qui?” pensava lei guardando oltre la vetrata il grande giardino e la cancellata di ferro che la separavano dalla vita.
Eppure lei lo aveva amato come una donna, di questo era sicura. E quando aveva deciso di seguirlo in capo al mondo, la sua non era stata una fuga da ragazzina, di quelle che finiscono dietro l’angolo di casa.
La signora vestita di nero la guardava con gli occhi pieni di comprensione.
“Hai fatto male a lasciare tutto per lui. Non dovevi abbandonare il tuo mondo. Guardati le mani: tu non sei fatta per questa vita. Torna, torna il più presto possibile, e dimentica.”
La Principessa non capiva. Non voleva tornare nei vuoti salotti da cui era venuta. E non voleva dimenticare. Uscì nella strada ancora più buia e deserta di prima. Aveva smesso di piovere, ma un vento gelido trascinava lontano, rivoltandoli sulle pietre del selciato, brandelli di giornali e foglie secche. La Principessa tornò nella sua stanza d’albergo, con l’orlo della gonna un po’ infangato. Gli unici che lo videro furono la marionetta di cartapesta appesa alla porta e il soldatino di stagno posta sulla mensola del caminetto, alcuni degli oggetti che lei comprava sulle bancarelle e che portava nella sua camera per sconfiggere la solitudine.

Alcuni giorni dopo, un timido raggio di sole, giocando tra le cortine del letto, svegliò la Principessa. Nel cielo di agitavano nubi multiformi, ma nel complesso il tempo sembrava promettere bene. La Principessa si fece portare la colazione in camera, come al solito, si vestì con cura, come al solito, e uscì. Si avviò a passi decisi verso il palazzo della vecchia signora. Sui gradini della chiesa una vecchina avvolta in uno scialle marrone vendeva piccoli mazzi di violette. La Principessa ne comprò due. Un monello con un piffero in mano le fece un inchino galante e lei sorridendo lasciò cadere una moneta luccicante nel suo berretto sgualcito.
La Principessa aveva deciso di rivolgere alla misteriosa signora vestita di pizzo nero tutte le domande e i dubbi che le si agitavano nel cuore. Si trovò seduta nel solito salotto.
“Sei ancora qui?” le sussurrò con un lungo sguardo triste.
Alla Principessa svanì tutto il coraggio che aveva faticosamente raccolto durante tutto il tragitto. Ci fu un attimo di silenzio che le parve interminabile.
“Allora lui non è tornato” concluse la vecchia signora con un sospiro, scuotendo la testa e facendo dondolare le perle che le pendevano dalle orecchie.
“Hai mai guardato i suoi occhi? Uomini con occhi così si lasciano amare perdutamente, ma non si lasciano possedere da nessuno. Lui non tornerà.”
La Principessa fuggì correndo lungo lo scalone di marmo per lasciarsi dietro quelle terribili parole.
Tornata all’albergo, tolse dal cassetto il biglietto ingiallito che lui le aveva lasciato sul cuscino la notte in cui se n’era andato. In quel biglietto lui la supplicava di aspettarlo, perché sarebbe tornato a riprenderla appena avesse potuto darle una vita migliore. Non poteva aver mentito mentre scriveva quelle parole. La Principessa ripose il foglietto, travolta dai ricordi e dalle speranze, e sistemò i due mazzi di violette in un vasetto di vetro.
Nel pomeriggio le portarono un pacco avvolto in una ruvida carta grigia. La Principessa lo aprì, e ne uscirono tutte le lettere che si erano scritti in tanti mesi di amore clandestino. Lei conosceva a memoria ogni virgola, ogni sospiro, ogni batticuore nascosto tra le righe. Strazianti brandelli di passato.
Allora lei capì. E la sera stessa portò sul davanzale della finestra una candela e bruciò ad una ad una tutte quelle lettere. Le guardava accartocciarsi su se stesse, attraverso lo schermo delle sue lacrime, e sentiva che anche il suo cuore bruciava e si accartocciava con loro. Mentre faceva i bagagli, lo sguardo le cadde sui mazzi di violette posati sul tavolino. E senza volerlo sorrise.

La mattina dopo, le cameriere vennero a riordinare la stanza e trovarono soltanto la marionetta di cartapesta, appesa dietro la porta, il soldatino di stagno sul ripiano del camino, una candela consumata sul davanzale e due mazzi di violette, ormai appassite, dentro un piccolo vaso di vetro.

 

 

 

 

Noticina dell'autrice
Piccolo racconto scritto (ahimè) quasi un quarto di secolo fa, di ritorno da un viaggio a Praga, città dal fascino magico. Qualcosa stasera me lo ha riportato alla memoria...

  
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