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Autore: Black Swallowtail    23/01/2016    0 recensioni
"[...] nei vecchi giorni, quando ancora avevo qualcosa da fare nella vita e non mi limitavo a strisciare di bar in bar, con una bottiglia o un bicchiere in mano, disposto a tutto pur di gettare ancora una nottata nell'alcool, sedermi al buio ed attendere con gli occhi socchiusi ed il mondo nebuloso che la sbornia mi porti lontano da questa realtà che tanto mal sopporto. Per quanto io stesso sia consapevole di quanto patetiche suonino queste parole, non posso trovare un altro modo per sfuggire alla pochezza e al vuoto della mia esistenza, divenuta un grande insieme di nulla – nulla, vuoto, è questo il termine adatto per definire la totale mancanza di qualsiasi cosa in grado di darmi una spinta per alzarmi ad osservare un'altra mattina.
Quelli come noi li chiamano cani randagi, perché l'unica cosa che facciamo è vagare senza meta."
Nella città di Lotthem, non c'è pietà per nessuno - si diviene un cane randagio senza nemmeno accorgersene, spinti dal flusso divorante della vita frenetica e brutale. Eppure, c'è chi stringe i denti e continua ad andare avanti... essere cani randagi non è così male, dopotutto. Si ha una libertà impensabile.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Stray Dogs

 

Dolore lacerante, che strappa dalla mia bocca l'ennesimo grido, l'ennesimo urlo che sale gorgogliante dalle profondità della mia gola, scivolando attraverso le mie labbra spaccate insieme ad un rivolo di sangue nerastro che gocciola lungo il mento, bagnando le lacere vesti che avvolgono il mio corpo martoriato. Il ferro rovente scava nella pelle del mio braccio, sfrigolando sinistramente, mentre il fumo si alza dalla ferita appena inferta che le fiamme torturano senza pietà, lambendo la carne viva con il peso del metallo bruciante; mi mordo le labbra, non voglio gemere ancora, non voglio chiedere ancora una volta pietà. Non serve a nulla, dopotutto. Sono già morto, no? Sono morto da tempo. Nonostante queste parole che continuano a rimbombare nella mia testa come un disco rotto abbandonato nella solitudine di un'enorme stanza, dove il suo suono produce un tetro eco, quasi voci impalpabili di fantasmi ormai lontani che echeggiano ancora, nonostante questa rassegnazione che giace dentro di me, non posso fare a meno di essere vittima di spasmi, di sbattere i piedi a terra, facendo sferragliar le catene che mi tengono legato a questa sedia. Il rumore dei pesanti anelli che vengono sbattuti sul pavimento mentre le mie cosce tremano senza riuscire a fermarsi e le mie braccia tentano inutilmente di divincolarsi dalla salda stretta delle morse in arrugginita ferraglia, che gratta la mia pelle e la scortica fino a farla sanguinare, le mie orecchie sono invase dal basso cantare che proviene da dietro quella porta, di legno massiccio, ricoperto di borchie e lucchetti, con una sola finestrella solitaria sbarrata a far filtrare la luce del corridoio, evitando di farmi cadere nel buio, nell'oscurità dove il tempo e lo spazio scompaiono e la realtà sfuma in lontananza, permettendomi di evadere da questo incubo senza fine. Il pallido, stentato riverbero delle fiaccole che entra timidamente a solleticare il volto mi priva anche della dolce strada dell'oblio, mi impedisce di far divagare la mente, tenendomi sempre cosciente. Così come mi tiene cosciente il costante borbottio dell'uomo avvolto nel saio nero, che regge la pesante croce di ferro, disadorna di ogni dettaglio al di fuori delle spine le quali ne avvolgono le estremità; non posso vedere il suo volto, ma solo quella mano pallida, bianca come quella di un cadavere, che stringe tra le oblunghe dita quel simbolo religioso dall'aria sinistra, sussurrando una dopo l'altra diverse preghiere irriconoscibili, in una lingua che, se fossi più cosciente, potrei riconoscere come la mia ma che, in questa situazione, dove mi sento distante da qualsiasi cosa, dalla realtà stessa, e dove l'unica sensazione è un dolore sempre più intenso e sempre più orrendo, non posso riuscire a comprendere nulla. Non capirei nemmeno le mie stesse parole, se mi fosse rimasta forza per fare qualcosa che non sia torcermi ed urlare pieno di disperazione e infinita sofferenza, senza alcun confine, tale da oscurarmi la vista ma non sufficiente a farmi perdere coscienza.

“Sai contare?”

Questo mi ha chiesto l'uomo dagli occhi celesti e smorti, gelidi e privi di espressione, quando le catene sono scattate attorno ai miei polsi, alle mie caviglie. Nei suoi lineamenti tirati e smagriti, scavati, non c'era traccia di emozione nel pormi quella domanda, un semplice quesito posto con voce incolore, impassibile. Tutto, in lui, sembrava dire quanto poco gli importasse di me e della mia stessa esistenza.

“Sai contare?”

Non ricordo bene cos'ho risposto. Devo aver annuito, perché lui ha aperto il palmo della mano, alzando il pollice, l'indice ed il medio, ben tesi in aria, ossuti perfino attraverso i guanti che li stringevano – guanti neri come la sua intera figura, il cui volto era un'unica massa di ombre sulla pelle pallida e smorta, esattamente come lui.

“Allora, parti da uno e moltiplica per tre, senza mai fermarti.”

Queste sono state le uniche parole che mi ha rivolto. Poi, è uscito dalla stanza, senza nemmeno gettarmi un secondo sguardo, facendo un cenno secco del capo all'uomo con la maschera, l'uomo con il becco, dai grandi occhi lucidi e trasparenti, attraverso i quali non riesco ad intravedere nulla se non i vaghi tratti di un viso. Non è un demone, ho pensato, è un uomo come me.

Ma ho cambiato immediatamente opinione nel momento in cui ha iniziato a lavorare su di me. Ha avvicinato il carrello con gli attrezzi, facendolo scivolare sulla pietra, spingendolo fino ad averlo accanto a me. I miei occhi sono arrivati esitanti a poggiarsi su tutti gli strumenti ordinatamente posati l'un accanto all'altro, con una cura maniacale. Su qualcuno di essi, c'era anche qualche macchia scura che non sono riuscito ad identificare, all'inizio, ma che ho compreso, a mie spese, più tardi. In quel momento, mi sembrava di essere fuori dal mondo, per cui la mia mente non è riuscita nemmeno ad elaborare il pensiero di quel che mi stava per accadere. Per cui, prima ancora di saperlo, prima ancora di potermi preparare, l'uomo con la maschera si era già piegato sulle mie dita, la tenaglia in mano, devastando una ad una le mie unghie, poggiandovi sopra i polpastrelli, prima di infilarsi a sua volta i guanti. Quando, con un rumore secco, ha fatto scattare le tenaglie, quando le pinze si sono chiuse sulle mie unghie, quando ha iniziato a tirare, prima lentamente, poi sempre con più forza, producendo un sinistro rumore di qualcosa che si sta spezzando, ho urlato con tutto me stesso, ho urlato fino a piangere, ho urlato finché ho avuto voce. I fiotti di sangue che hanno iniziato a scivolare tra le mie dita, sulle catene, a terra imbrattando i miei vestiti, la sedia, il pavimento, tutto, con quel colore cremisi, mi diedero una sensazione di irrealtà che rimase solo per qualche istante, prima che arrivasse il dolore e tutta l'atroce sofferenza della tortura. Le lacrime hanno iniziato a scorrere lungo le mie guance, e l'uomo mi ha stretto il volto con le mani, sibilandomi una frase che mi ha dato i brividi, un'ordine perentorio - “Inizia a contare. Ordini del Reverendo.”

E da quel momento, non ho smesso nemmeno per un secondo di moltiplicare i numeri. Ogni tanto, mi sono perso, ed ho dovuto iniziare d'accapo. Ho scoperto che contare mi tiene aderente alla realtà e mi impedisce di pensare ad altro, mi sono aggrappato a quei numeri con tutta la mia forza, per evitare di uscire di testa e perdere ogni contatto, seppur labile, con il mondo. È quello che vogliono, vogliono che io possa sentire il dolore della tortura fino all'estremo, assaporarne ogni momento, senza perdermene alcuno, senza dover svenire, senza poter concedere riposo alla mia mente. Un assalto psicologico quanto fisico, un insieme di ferocia e sadismo che, lentamente, ha iniziato a prendere il sopravvento sul mio corpo e sulla mia mente. Dopo qualche tempo, non sono rimasti che dolore e numeri, e blandi ricordi che si manifestano in allucinazioni, volti di persone che ho conosciuto e di cui vorrei poter pronunciare i nomi, che vorrei chiamare, ma non riesco nemmeno ad aprire la bocca senza sentire la bile che si mescola al sapore ferroso di altro sangue, a riempirmi inevitabilmente la bocca.

Finite le unghie, sono passati ai denti. Mi hanno strappato, uno ad uno, con tenaglie e coltelli, i molari e i premolari, iniziando poi a rimuovere in alternanza, uno sì, uno no, o addirittura tirando dei dadi, il cui lugubre rumore sul pavimento sudicio mi trapanava le orecchie con lo stesso fragore delle carrozze e delle macchine che la mattina mi svegliavano dopo la sbornia della notte precedente, un rumore amplificato e straziante che preannunciava un nuovo momento di sofferenza.

“Tre per quattrocentoventisei—”

E il risultato dell'operazione scompariva brutalmente nel momento in cui il coltellaccio arrugginito con il quale si divertivano a lacerarmi le gengive, dopo averlo riscaldato per sterilizzarlo, o così almeno aveva detto l'uomo con una punta di sadismo nella voce, invadeva la mia bocca e violava ancora una volta il mio intero essere.

Le incisioni sulla pelle, i colpi di frusta, gli spilli nei punti più sensibili, perfino la scorticatura di piccoli pezzi di pelle della schiena, delle gambe e delle braccia, tutto divenne un unico, enorme miscuglio del peggiore e rivoltante dolore che io abbia mai provato.

Ed in tutto questo, non ho smesso di contare. Ho smesso di farlo ad alta voce, limitandomi ogni tanto ad emettere, con quel poco che rimane nei miei polmoni, un numero. Ho dimenticato quante volte il dolore troppo forte per riuscire a tenermi cosciente mi ha costretto ad iniziare di nuovo. Ogni volta che il mio corpo crolla, l'acqua mi risveglia – acqua bollente, o gelida,accompagnata da calci e pugni, percosse di ogni tipo, a volte perfino con gli strumenti di tortura stessi, gelido ferro sporco ed incrostato dei resti del mio corpo che si abbatte senza pietà su braccia e gambe. La mano destra ha perso sensibilità nel momento in cui mi ha rotto le dita. Dopo aver perso le unghie e aver visto la mia carne perforata da spilli, incisa da coltelli e segnata da ferri roventi, l'uomo con la maschera ha deciso di schiacciare le mie dita, o di torcerle fino ad infrangerne le ossa. La mia mano ha iniziato a formicolare, all'inizio, finché non ha perso sensibilità ed è divenuta solo una pesante, flaccida estremità, incapace di muoversi per via delle catene e che risponde difficilmente alla mia volontà, se non con qualche stentato spasmo quando i muscoli di tutto il corpo si irrigidiscono ad un nuovo, più potente e divorante dolore.

“...milaottocentoventitr...”

Non riesco più a parlare. Non riesco più a muovermi. A respirare. Il mondo è così scuro. Forse perché i miei occhi stanno smettendo di funzionare. Poi sarà il turno della mia mente, ed allora, senza remore, felice di poter abbandonare questo destino, morirò. Morirò. Morirò.

Mi dispiace. Ma non ce la faccio più… perdonatemi, ragazzi.

Perdonatemi.

 

——— * ———

[Qualche tempo prima]

 

La notte nei sobborghi di Lotthem è più turbolenta di quanto si possa credere. Nell'oscurità si aggirano uomini di ogni genere, e la maggior parte di loro, nascondendosi nel buio, di certo non lo fa per piacere, ma per sfuggire a qualcuno o a qualcosa che gli sta alle costole, oppure si apposta in attesa della sua preda come farebbe un cacciatore, con la pazienza infinita di chi non può far altro se non accovacciarsi tra le braccia dell'aria notturna e pazientemente aspettare il momento adatto per sollevarsi e portare a compimento quello per cui ha dovuto impiegare tanto tempo ad ammantarsi delle ombre nei vicoli più sporchi e sinistri.

La notte è sempre stata poco sicura, ed io lo so bene, perché l'ho attentamente esplorata nei vecchi giorni, quando ancora avevo qualcosa da fare nella vita e non mi limitavo a strisciare di bar in bar, con una bottiglia o un bicchiere in mano, disposto a tutto pur di gettare ancora una nottata nell'alcool, sedermi al buio ed attendere con gli occhi socchiusi ed il mondo nebuloso che la sbornia mi porti lontano da questa realtà che tanto mal sopporto. Per quanto io stesso sia consapevole di quanto patetiche suonino queste parole, non posso trovare un altro modo per sfuggire alla pochezza e al vuoto della mia esistenza, divenuta un grande insieme di nulla – nulla, vuoto, è questo il termine adatto per definire la totale mancanza di qualsiasi cosa in grado di darmi una spinta per alzarmi ad osservare un'altra mattina.

Quelli come noi li chiamano cani randagi, perché l'unica cosa che facciamo è vagare senza meta, di strada in strada, facendo della notte il nostro unico regno e del giorno un nemico da evitare ad ogni costo, con il suo rumore, le sue persone, la sua esistenza che sembra essere la nostra stessa antitesi, perché pieno di vita, di motivazioni, anche le più futili, quelle che a noi mancano.

Anzi, sarebbe più corretto dire che mancano a me. Perfino tra quelli che vengono marchiati con il dispregiativo di randagi, alla fine, io sono un'eccezione: perché gli altri, almeno, hanno un motivo per continuare ad esserlo. C'è chi svolge attività illecite, se non criminose, o chi prepara silenziosamente enormi progetti e chissà cos'altro; io, da parte mia, sono ridotto a questa condizione penosa di alcolista smagrito e povero in canna, senza dimora, senza lavoro, senza una motivazione per vivere, a causa della mia inettitudine alla vita, la mia incapacità, la mia mancanza di volontà nel fare qualunque cosa diverso dal caracollare lungo un vicolo sorseggiando scotch scadente.

Ho abbandonato l'Accademia di Investigazione di Setham prima del diploma, dopo aver frequentato senza alcuna voglia le sue lezioni per tre anni, convinto di avere di fronte a me un milione di strade diverse. Ai miei occhi, quella dannata scuola appariva solo come una prigione, una limitazione delle mie numerose, poliedriche ed infinite capacità. Per tale ragione, non appena ho avuto l'età, ho colto la palla al balzo per togliermi di mezzo ed allontanarmi per sempre da quella dannata cittadina soffocante, arroccata su quella altrettanto dannata collina. Ai miei occhi, Lotthem e la sua sconfinata grandezza apparivano come una terra promessa dove avrei potuto esprimere al meglio le mie qualità.

Uno dei più grandi errori della mia vita. Se solo fossi in grado di pentirmene, se ne sentissi il rimorso, forse potrei aspirare a divenire un essere umano decente, potrei ricavare un posto nel mondo che non sia quello di risucchiare come una sanguisuga i resti del patrimonio dei miei genitori e ingurgitare ogni sera litri di alcool solo per sfuggire alla crudezza della vita. Ma la verità, è che non c'è nulla per me, lì fuori, non c'è nulla che io possa fare. Mi limiterò a condurre questa vita inutile e priva di scopo fino al giorno in cui, inevitabilmente, morirò. Nessuno verrà al mio funerale, anzi, non so nemmeno se ne avrò uno, o se getteranno il mio corpo nella fossa comune, l'opzione più probabile.

Questi sono i miei pensieri di questa notte, identici a quelli di ieri, e che nemmeno una sorsata dalla bottiglia di liquore che tengo stretta per il collo sembra aiutarmi. Il liquido dal colore ambrato luce appena sotto il bagliore fioco del lampione vicino al quale mi sono fermato, una mano in tasca e l'altra che pigramente tiene il liquame che mi hanno spacciato come una bevanda di qualità. Ha il sapore del fango e, quando scivola nella gola, sembra più acqua che alcool. Ma il vantaggio è che costa poco e posso berne tanto, dandomi l'illusione di allungare di un altro po' questa notte impietosa.

Cerco di ubriacarmi per avere un intrattenimento leggero, per vagare nelle strade senza dover pensare a nulla, eppure quando mi ritrovo a guardare la luna per metà nascosta dalle nuvole, mi viene da pensare a chi, oltre a me, possa aver alzato lo sguardo in questa città di peccato a guardare il disco argenteo e il suo bagliore tanto flebile da risultare invisibile. Quanti altri, come me, non riescono a trovare un senso alla propria vita e quindi si trovano ridotti così, con una bottiglia di brodaglia in mano e i desideri infranti ai piedi come schegge di vetro taglienti, che non puoi raccogliere perché incidono la pelle, e che non puoi rimettere più insieme perché non ricordi nemmeno che forma avessero?

Sto scadendo nella filosofia spicciola, quindi vuol dire che questa roba, alla fine, un po' di alcool dentro ce l'ha. Sospiro, prendendo un'altra ampia sorsata che scivola tra le mie labbra con il suo sapore pungente e la sua consistenza rivoltante, ma che quando arriva nello stomaco mi scalda leggermente, come a consolarmi. Mi viene quasi da ridere, ora. Cercare conforto in questo schifo è la prova finale che la mia esistenza, alla fine, non valeva poi così tanto. Che, alla fine, ho sbagliato davvero tutto e che non ci sarà mai un'occasione per rimettere tutto a posto.

“Ma scherziamo...” sussurro a me stesso, cadendo a terra, con la schiena poggiata contro il muro di mattoni scalcinati e crepati, la fronte rivolta verso l'alto e le braccia abbandonate lungo i fianchi, la bottiglia vuota poggiata ai miei piedi, “Se c'è un dio, da qualche parte, è proprio ingiusto. Ah, ma cosa sto facendo? Scaricando le colpe su qualcun altro, ecco cosa. Sono disperato a tal punto. Alla fine, mi sono rovinato con le mie stesse mani…” la gola inizia a bruciarmi, le lacrime minacciano di uscire. Non ho mai provato rimorso per quel che ho fatto, per le mie decisioni, né lo proverò mai. La verità, però, è che mi faccio pena. Mi disgusto da solo. Cane randagio, eh? È così che mi definisco? “...Faccio davvero pietà.”

 

“—Eh?”

Non appena le mie parole vengono trasportate via dal vento, lo sento distintamente squarciare l'aria. Un grido. Un grido colmo di dolore. Mi tiro in piedi di scatto, ma il movimento brusco mi dà un giramento di testa improvviso ed il mondo inizia a vorticarmi intorno con prepotenza, al punto che, per evitare di collassare a terra, devo poggiarmi ad un palo con la mano tremante.

Non so cosa stia accadendo, precisamente, e solitamente preferisco non immischiarmi in certe faccende. Tante volte ho udito qualcuno lanciare un urlo strozzato in lontananza, e semplicemente ho accelerato il passo senza nemmeno alzare lo sguardo e non ho mai sentito di aver fatto la cosa sbagliata. Ma questa notte è diverso. Questa notte mi faccio talmente tanto schifo, che voglio provare a sentirmi meglio. Voglio provare, anche solo per lo spazio di un istante, a dare un po' significato a questa dannata vita; per farlo devo gettarmi in mezzo ad un gruppo di criminali armati di coltellacci che mi apriranno lo stomaco e rideranno del mio patetico tentativo eroico, mentre le viscere colano fuori dal mio corpo? Bene, che sia così. Nel peggiore dei casi, morirei semplicemente, e di certo non mancherei a nessuno. Nemmeno a me stesso. Al contrario, se dovesse andare bene, allora forse potrei sentirmi meglio. Forse questo potrebbe essere il fatidico giorno che ho atteso per tanto tempo, il momento in cui la mia vita prenderà una svolta che non sia quella per un altro scuro e sinistro pub per riempirmi la pancia di alcolici di seconda mano.

Il vicolo da cui è venuto l'urlo è più vicino di quanto pensassi. Non ci sono mai stato prima, perché solitamente sono dei luoghi malfamati da cui è meglio tenersi alla larga; privo di illuminazione, pieno di spazzatura che ne ingombra il passaggio e strani liquami che colano a formare pozzanghere dall'odore pungente, l'aspetto generale è tutto tranne che invitante; tuttavia, preso il coraggio a due mani, non posso far altro che deglutire a vuoto, inspirare a fondo, e muovere i miei passi esitanti facendo attenzione a dove metto i piedi, perché nel buio è più facile che mai inciampare in qualcosa e morire spezzandomi il collo, per quanto sarebbe un perfetto coronamento della mia sporca vita preferisco evitare.

La prima cosa che noto, arrivando sempre più vicino al fondo del vicolo cieco, sono quattro figure avvolte in ampie cappe grigie. Le loro teste, tutte nascoste dai cappucci, sono piegate verso il basso, ad osservare qualcosa che non riesco a vedere dalla mia posizione; che sia stato uno di loro ad urlare? Improbabile. Hanno più l'inquietante e sinistro aspetto di qualcuno che attaccherebbe, piuttosto che essere attaccato.

Mi fermo di scatto, evitando per un pelo di rovinare a terra, incespico per qualche istante prima di riuscire a trovare del tutto l'equilibrio, non senza prima sbattere a terra un cestino dell'immondizia che, con fragore metallico, rotola a terra squarciando la silenziosità della notte per l'ennesima volta. I tre si voltano, quando sentono il rumore infernale provocato dal mio stentato barcollare, e solo ora posso notare qualcosa che, finché mi davano le spalle, non potevo vedere in alcun modo: dai loro colli, pendono tre croci perfettamente uguali, ognuna di un colore nero come la pece, e decorata con un singolo rubino al centro, scintillante di riflessi rossastri che fendono il buio.

La domanda che sorge spontanea è cosa ci facciano dei Fidelis, uomini di chiesa, in un vicolo buio. Sono sicuro che l'urlo venisse da qui, e che fosse chiaramente intriso di dolore. Forse sono arrivato tardi e questi tre hanno già risolto tutto.

Poi, mi saltano all'occhio, in rapida successione, alcuni dettagli decisamente inquietanti. Nella mano di uno di loro, c'è un revolver che pende inerte tra le sue dita; le loro vesti sono macchiate di sangue, lo stesso sangue che si sta allargando a macchia d'olio alle loro spalle… dal corpo di un uomo che, muovendosi appena, si stringe il fianco con disperazione, mentre dalla sua bocca impastata di bava rossastra, un basso e prolungato gemito di dolore appena udibile si alza a sfiorare il mio orecchio. Il mio respiro, in questo preciso istante, muta ritmo, divenendo affannoso, mentre i tre uomini, senza nemmeno pronunciare una parola, scivolano silenziosi verso di me come fantasmi privi di volto.

Mi mordo il labbro inferiore. Sto per morire così, quindi? In fondo, va bene, no? Non era quello che volevo, alla fine? Morire. Porre fine a questa vita da… ah, da cane randagio. Mi sono sopra, ed uno di loro mi sbatte a terra, tenendomi fermo per i polsi. Sento il suo respiro carezzarmi le narici, un odore sinistro che sa di erbe medicinali mescolate al forte tanfo di incenso che emette la sua tunica. Una sensazione di gelo allo stomaco mi dice che la canna della pistola è puntata proprio contro la mia carne, pronta a strapparmi via la vita con un solo gesto. Un solo movimento. Basta che prema il grilletto, e il proiettile scaverà nelle mie interiora e mi ucciderà in una fontana di sangue. Prima che trovino il mio corpo passeranno giorni; posso già intravedere i titoli di giornale – l'ennesima rissa finita male, due morti, uccisi da colpi di arma da fuoco.

Che pena, dover morire così. Ma posso, in tutta onestà, chiedere di meglio?

Io non—

 

Il rumore dei passi è la prima cosa che il mio cervello riesce a registrare.

La seconda, è il rumore di qualcosa di contundente che colpisce una testa, provocando un tonfo secco che risuona come una campana nelle mie orecchie.

La terza, è la mancanza del peso che mi teneva fermo e la scomparsa della sgradevole sensazione della morte incombente sulla mia pelle.

La quarta, sono le voci di persone che non ho mai visto prima. Una mano mi aiuta a stare in piedi, e attraverso la mia visuale sfocata riesco a distinguere un ragazzo della mia stessa età che mi guarda con aria preoccupata, scuotendomi leggermente per le spalle - “Stai bene? Non sei ferito, vero?”

“No...” biascico, massaggiandomi il polso, “Solo qualche sbucciatura, tutto qui.”

“Meno male, siamo arrivati in tempo. Neill, lui sta bene!”

Seguo lo sguardo del ragazzo, diretto verso il fondo del vicolo, e riesco ad intravedere, nella semioscurità appena rischiata dalla pallida e stentata luce lunare, la sagoma del mio salvatore, un altro uomo che brandisce quella che assomiglia terribilmente ad una mazza da baseball. Senza alcuna esitazione, le sue braccia si muovono a fendere l'aria, portando un colpo dopo l'altro ad abbattersi contro i tre assalitori in abiti religiosi. L'unico di loro armato ha lasciato cadere la pistola, ed ora il revolver è in mano alla figura che mi sta accanto. Anch'egli, con uno sguardo che non mostra alcuna incertezza, punta l'arma e… davanti ai miei occhi, ormai non più sorpresi da nulla, non dopo la strana situazione che sta infuriando proprio di fronte a me, spara tre colpi che vanno a colpire i tre bersagli nella spalla, nell'anca o nel fianco. Un decisivo colpo di mazza che si abbatte sul braccio di uno degli aggressori emette un sinistro rumore di ossa incrinate e questo, insieme alle altre ferite, è sufficiente ad accendere i campanelli di allarme nelle loro teste. In breve, senza guardarsi indietro, i tre Fidelis scattano via, feriti; nel superarci, vengo spintonato contro il ragazzo armato di revolver, e così facendo finiamo entrambi a terra, impedendogli di centrare quei tre in fuga.

“Ecco, andatevene, e non tornate più! Portate al Reverendo i saluti degli Stray Dogs!” urla il ragazzo con la mazza, sbattendone la punta contro il selciato, prima di gettarsi al fianco dell'uomo riverso a terra nel suo stesso sangue, affrettandosi a bendarlo, borbottando allo stesso tempo insulti contro i Fidelis.

“Così dovrebbe andare...” sospira, dopo qualche istante, “è solo una bendatura provvisoria, appena arriveremo a casa chiederemo a Ophelia di sistemarti, va bene? Ora riposati.”

“Sempre nel luogo giusto… al momento giusto, vero… Neill?” riesce ad esalare con fatica l'uomo a terra, stringendo la mano del compagno accanto a lui con la poca forza rimastagli, “Ce l'ho fatta, ragazzi… Ho preso… la chiave—”

“Non sforzarti, ho detto. Mi senti quando parlo? Dannato… Prima parti in missione da solo senza dirci nulla e poi ti fai trovare in questo stato. Piuttosto,” Neill si alza in piedi, indicandomi con la mazza da baseball, “Lui chi è?”

“Non lo conosco, ma… se non fosse stato per lui, io...”

“Sì, abbiamo capito, ma ora dobbiamo sbrigarci,” interrompe il ragazzo accanto a me, calandosi il cappuccio della felpa sul viso e estraendo una sigaretta dalla tasca, “Non sappiamo se ce ne fossero altri. Torniamo a casa.”

“Lo portiamo con noi? Sei sicuro Kais?”

“Mi sembra una buona idea, sì.” risponde Kais, senza esitazione, dopo aver rimesso a posto l'accendino e aver tirato un'ampia boccata di fumo, il mozzicone che ha in mano brilla rossastro nell'oscurità, un'unica, minuscola luce che si accende quando le sue labbra aspirano ancora il tabacco, “Andiamo, Neill. Attento a come porti Jeiv.. Seguici, uhm… Come ti chiami?”

Preso di sorpresa da quella domanda, ancora nel pieno di uno stato confusionale a causa di quel che è appena accaduto, con i sensi ancora annebbiati dall'alcool, la mia bocca si muove automaticamente per rispondere alla domanda - “Kendrick. Kendrick Lay.”

“Bene, Kendrick. Benvenuto negli Stray Dogs.”

E così, senza che nessuno avesse chiesto la mia opinione, mi ritrovo a camminare accanto a due ragazzi mai visti prima che portano con loro un terzo compagno ferito verso una destinazione sconosciuta, con i postumi della sbornia che iniziano a martellare contro la mia testa e il corpo ancora scosso da quel che è accaduto in quel vicolo.

 

“Cosa diavolo è successo?! Perché sei ferito? Sei stato attaccato, vero? Te ne sei andato di nuovo in giro da solo, senza dirci nulla! Dannazione, Jeiv, ti odio quando fai certe cose!”

Queste sono le prime parole che ci accolgono nel momento in cui entriamo nel complesso abbandonato che un tempo era conosciuto come la chiesa di Saint Ehirich. Situata non lontana dalla grande Torre dell'Orologio di Eileen, è un vecchio luogo di culto che, tempo addietro, è caduto in disuso quando è stata edificata un'altra, più sontuosa e grande chiesa non troppo lontana da qui; e nel momento in cui tutti i Fidelis che vivevano qui sono stati spostati, l'edificio ha perso il suo scopo, divenendo null'altro che un rudere di epoca passata lasciato a se stesso. Almeno finché questi quattro ragazzi non lo hanno trasformato nella loro casa e base operativa da dove, a loro dire, partono tutte le operazioni del gruppo – gli Stray Dogs.

Quando ho sentito il nome, la prima cosa a cui ho pensato è stato uno scherzo del destino. Io, che mi definisco un cane randagio perfino tra gli altri randagi, mi ritrovo coinvolto in un gruppo che, per l'appunto, si fregia di un nome simile. Se fossi stato più lucido, avrei riso di gusto, ma semplicemente mi sono ritrovato a pensare a quanto beffardo sia dio, o il fato, o come lo si voglia chiamare, nell'avermi giocato un tiro mancino di questo genere.

Saint Ehirich, ad una prima occhiata, appare esattamente come dovrebbe essere, abbandonata e senza nessuno che vi gironzola dentro progettando complotti di alcun genere. Perfino l'entrata principale è stata sbarrata con delle assi, allo stesso modo delle finestre, così che dall'esterno nessuno possa sospettare che, in realtà, sia usata per ospitare questi quattro tipi sospetti. Per tale ragione, siamo entrati da una porta secondaria abilmente nascosta da un finto pannello, che ci ha portato direttamente nella sagrestia, e da lì nella navata principale della chiesa, dove una ragazza ha atteso con impazienza il ritorno dei suoi compagni. Ovviamente la prima cosa che ha fatto Ophelia è stata alzarsi, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi, puntare gli occhi cerulei sul ragazzo malridotto sulla schiena di Neill, ed iniziare ad urlargli contro tutto il suo rancore, senza alcuna remora per la sua condizione, né tanto meno con la paura di essere scoperti da qualcuno.

“Portatelo di là, lo ricucirò per bene e… Mh, e lui chi è?”

Quando mi rendo conto che sta parlando di me, faccio un passo avanti per rispondere, ma Kais taglia corto sui convenevoli con un semplice “Lui è Kendrick, lo abbiamo trovato che combatteva con i Fidelis per aiutare Jeiv. Lei, invece, è Ophelia, l'ultima degli Stray Dogs. O meglio, la penultima, ora.”

“Quindi anche lui è dei nostri, eh? Piacere di conoscerti, Kendrick!” sorride, piegando la testa lateralmente e facendo un mezzo inchino, mentre allo stesso tempo indica a Neill dove portare Jeiv, il tutto ovviamente senza risparmiarsi qualche borbottio di tanto in tanto, “Scusami ora, ma devo andare a salvare la vita al nostro irresponsabile compagno. Ma tu guarda se...”

Le sue parole si perdono nel vuoto, mentre si chiude la porta della sagrestia alle spalle con un cigolio sinistro, lasciando me e gli altri due da soli, in un silenzio tombale. Dopo un lungo istante, in cui nessuno sembra intenzionato a rompere il silenzio, la realtà mi colpisce improvvisamente come un pugno allo stomaco. Probabilmente a causa degli effetti dell'alcool che vanno svanendo, ma improvvisamente la realtà inizia a ricomporsi nella mia testa secondo un preciso disegno che, senza dubbio, ora che riesco a guardarlo più lucidamente, mi appare talmente incredibile da spingermi a fare quella domanda.

“Qualcuno può spiegarmi esattamente cosa sta succedendo?”

“Forse ti dobbiamo qualche spiegazione, sì. Ora siamo in un posto sicuro, quindi non vedo alcun problema,” Kais si alza in piedi e si dirige verso la balaustra che circonda l'altare impolverato, sedendovici sopra e grattandosi il mento pensoso, inizia a riflettere, come per decidere da dove cominciare, “Come sai, noi siamo gli Stray Dogs. Abbiamo scelto questo nome quando ci siamo incontrati. Ognuno di noi ha avuto qualche incidente nella vita, qualche scelta sbagliata, e siamo tutti finiti a camminare per le strade della città senza un motivo, vuoti, privi di ogni idea e di speranza per il futuro. Finché non è arrivato Jeiv. È una testa calda, che vuole sempre fare tutto da solo, ma è grazie a lui se siamo riusciti a riunirci ed ora siamo quel che siamo.

Jeiv ci ha radunati e ci ha mostrato questo posto. Qui abbiamo giurato di essere compagni per sempre, ed essere fieri di quel che siamo – cani randagi, non legati da alcuna regola. Così, abbiamo iniziato a vivere la nostra vita alla giornata, nella speranza di riuscire a trovare uno scopo. Puoi dire che risolviamo misteri e ci occupiamo di casi di ogni genere.”

“Siete un'agenzia investigativa?”

“Più o meno. Puoi definirci così, se ti fa comodo.” fa una lunga pausa, ed il suo sguardo si alza verso l'ampia vetrata multicolore che sormonta la piccola cupola sopra le nostre teste, dalla qualche entrano spiragli di luce esitanti del primo sole, appena levatosi dall'orizzonte un'alba biancastra e vuota, “Un anno fa, un nostro contatto alla polizia ci ha passato un fascicolo confidenziale su un presunto caso di rapimento. Ad essere scomparsa era il secondo membro degli Stray Dogs, la sorella minore di Jeiv – Ondines. Abbiamo seguito le tracce ma, ogni volta che ci avviciniamo alla verità, qualcuno di importante viene ucciso. Ed è andata avanti così per molto tempo, finché non abbiamo scoperto che dietro a tutto questo c'è un uomo molto potente ed influente all'interno della chiesa… il Reverendo Marcus.”

“E cosa ci farebbe con una bambina?”

“Mi spiace risponderti con un'altra domanda, ma...” Kais lancia un'occhiata di intesa a Neill, che annuisce di rimando, socchiudendo gli occhi, l'espressione improvvisamente malinconica “Quanto ne sai di Ghost e Osservatori?”

“—Di cosa?”

“Cercherò di fartela breve, allora, perché anche quel che sappiamo noi è davvero limitato. Esiste un mondo aderente al nostro, separato tuttavia da una pellicola invisibile che non possiamo percepire né toccare, il Velo. A quanto sembra, i Ghost sono esseri in grado di dominare le leggi del Velo e, di conseguenza, hanno nelle loro mani un grande potere – ma possono persistere in questo mondo solo legandosi ad un Osservatore.

Il prezzo da pagare per poter possedere un Ghost, tuttavia, è la propria anima e la propria sanità mentale. L'anima verrà divorata dal Ghost stesso nel momento della morte, così che possa continuare a vivere; quanto alla propria mente è una cosa che si va perdendo o meno, a seconda dell'individuo.”

“Mi stai dicendo che Ondines, in realtà...”

“Era un Ghost. Esatto. Ma non era legata ad alcun Osservatore. Lei è… speciale. Non chiedermi come, non saprei spiegartelo, e lei non ha mai voluto farne parola. Fatto sta che ora è nelle mani del Reverendo Marcus, nell'Abbazia di Saint Dellions. Prima di oggi, non sapevamo come introdurci, a causa della stretta sorveglianza, ma ora… ora abbiamo questa.” e mentre lo dice, solleva una piccola chiave, che nel buio riluce sinistramente di bagliori argentei ed eterei, come se palpitasse di vita propria, “Possiamo introdurci attraverso una vita di fuga che dà nella nuova chiesa, vicino alla Torre di Eileen.”

“E mi state dicendo questo perché—?”

“Sei uno dei nostri, ora.”

“Non mi sembra di aver detto nulla in proposito...”

Cosa sto facendo? Sto davvero ascoltando la storia delirante di questi ragazzi mai visti prima? Vorrei davvero sapere di cosa stiano parlando. Sembra tutto far parte di una grossa follia che non comprendo – Ghost, Osservatori, il Velo, il Reverendo… non riesco a comprendere. Sembra tutto follia.

Eppure, loro sono come me. Sono cani randagi – Stray Dogs – rifiutati da tutti, che hanno deciso di continuare a vivere, di dare uno scopo alle loro vite. Fanno gli investigatori, quindi sicuramente avrebbero bisogno di me. Dopotutto, ho studiato all'Accademia, per quanto poi abbia lasciato tutto alle spalle. Fino a poco fa, non ero proprio io che, sdraiato in una stradina, con l'alcool che bruciava in corpo e la delusione che mi schiacciava, ho chiesto un modo per cambiare vita, per riuscire finalmente a darle un senso?

Io mi sono arreso, ho lasciato che la corrente mi trasportasse, senza sforzo, che la mia vita andasse in pezzi e crollasse. Ho lasciato che tutto perdesse senso, non ho provato a trovare qualcosa che mi spingesse ad andare avanti. Mi sono rifugiato in me stesso, bevendo e commiserandomi, passando intere giornate a soffocare in una stanza spoglia e sporca dalle quattro pareti sempre più strette, senza il coraggio di alzarmi, di affrontare la realtà.

Non ho mai davvero provato rimorso per le mie scelte, solo pena per me stesso nel momento in cui mi sono reso conto di non essere altro che uno tra i tanti. No, anzi, meno degli altri. Un involucro vuoto senza scopo e senza motivazione.

Ora, è possibile che possa davvero cambiare? Una seconda possibilità, ad uno come me?

La verità, è che vorrei essere come loro. Avere delle persone attorno e trovare una motivazione diversa per mettermi in piedi sulle mie tremanti gambe dall'andare a bere fino alla nausea in un bar.

Mi faccio pena, davvero – ma proprio perché mi faccio così pena, posso accettare questa seconda possibilità che mi si sta offrendo. Un cane randagio solitario e privo di qualunque cosa, ecco cosa sono stato.

Ora, invece, voglio alzarmi.

“...Sono proprio un ipocrita.”

“Come?”

“No, nulla.” alzo la testa, per guardarlo negli occhi “Voglio dire, ho studiato all'Accademia di Investigazione di Setham, due anni fa. Posso esservi utile.”

“Tu hai… davvero? Ma è fantastico, un vero investigatore!”

In realtà non mi sono mai diplomato, ma è talmente entusiasta che non voglio rovinargli questo momento. Mi tende la mano, “Benvenuto negli Stray Dogs, allora, cane randagio!”

La stringo, “Grazie.”

 

——— * ———

Neill ha visto i suoi genitori morire. Dopo quel giorno, non è più riuscito a tornare a casa. Tutto, lì, gli ricordava quel che era stato costretto a vedere. Tutto puzzava di morte, aveva l'odore sinistro della putrefazione. Era troppo disperato per sopportare le occhiate dei suoi compagni di scuola, delle persone che conosceva, la pietà nei loro occhi e le frasi di circostanza facevano montare in lui rabbia e disperazione. Non li sopportava. Non riusciva a viverci. Per questo ha abbandonato tutto e si è dato al vagabondaggio, andando di quartiere in quartiere, finendo coinvolto in ogni tipo di rissa. La mazza da baseball è la sua arma prediletta, perché quando andava a scuola era un vero asso come battitore e suo padre era sempre lì ad incitarlo, mentre sua madre era fiera dei suoi risultati. La mazza che stringe tra le mani, quella con la quale ha rotto il cranio dei Fidelis che ci hanno circondato, era un regalo dei suoi genitori per il suo compleanno. Lo stesso giorno in cui sono morti – uccisi in una sparatoria mentre andavano tutti insieme al campo da baseball per guardare una partita. Non si è mai tolto di dosso la sensazione che la colpa, in fondo… fosse la sua.

Kais, quel ragazzo non ha mai avuto nessuno. Né genitori, né amici. Nessuno lo ha mai considerato, forse perché non era talentuoso come suo fratello, o forse perché, semplicemente, a nessuno interessava della sua esistenza. Un giorno, capii che lì era di troppo – il giorno in cui suo fratello scomparve. Qualcuno sussurra che furono assunti dei detective privati tra gli Osservatori, per occuparsi del caso. A quanto sembra, il corpo fu ritrovato una settimana dopo. Morto, svuotato completamente da ogni goccia di vita, ma senza alcuna lesione. Nessuno seppe dire se si fosse trattato di infarto, o qualcosa del genere e si vociferò che fosse stato un Osservatore – sta di fatto, che Kais si ritrovò figlio unico. E fu allora che i genitori si accorsero della sua esistenza. Volevano renderlo come suo fratello, ma lui non era un genio. E prima che lo sapesse, i suoi iniziarono ad odiarlo. Dall'indifferenza all'odio, è un bel salto. Per questo, senza guardarsi indietro, fuggì di casa e cambiò nome. A suo dire, è stata una precauzione inutile: ai suoi genitori, non sarebbe mai venuto in mente di andare a cercarlo.

Ophelia credeva che la sua vita non dovesse avere senso. Quando tutti sono morti, in quell'incidente con il treno, e lei si è svegliata nella carcassa fiammeggiante, deragliata dal suo binario, la depressione le è caduta addosso. Non riusciva a capacitarsi di essere sopravvissuta, lei, una tra le tante, che non era migliore degli altri. Si era trattato solo di fortuna… di un destino crudele. Se avesse concluso qualcosa, nella sua vita, non si sarebbe riuscita a perdonare nulla. La notte, non riusciva a dormire, tormentata dall'idea di dover essere lei quella morta con gli altri, che non avesse senso vivere, perché anche il solo fatto di compiere qualcosa, ai suoi occhi, appariva come un insulto a coloro che non ce l'avevano fatta. La sua esistenza era a pezzi, quando incontrò Jeiv e gli altri, quando loro la accolsero e la chiamarono cane randagio. Lì, tra quelle persone, capì che poteva compiere qualcosa che non avrebbe offeso nessuna memoria, ma che avrebbe messo a tacere quei fantasmi – avrebbe salvato le vite di quelle persone che le stavano a cuore, di quei nuovi compagni, di quei cani randagi come lei.

Jeiv, è stato lui a metterli insieme e a dare loro uno scopo. Ad indicare loro una via. Orfano, con una sorella sulle spalle, non ha potuto fare altro se non abbassare la testa e continuare a camminare, portando l'unica cosa che avesse al mondo per mano, tentando di ritagliarle un posto nel mondo. Ed il posto che ha creato per lei, è quella chiesa abbandonata, quei ragazzi intorno che la animano, tutti insieme, come una famiglia di reietti che hanno trovato un unico percorso da affrontare insieme. Hanno trovato tutti il modo per dare il senso a quelle vite distrutte, sono riusciti a rimettere i pezzi al loro posto, l'uno accanto all'altro. Jeiv non si è mai voltato, nemmeno per un secondo, a guardare il passato – ha sempre pensato al futuro, per Ondines. Ha sofferto per lei, non per se stesso, e si è privato di ogni cosa solo per poterle permettere di vivere.

Di fronte a loro, di fronte a quello che hanno passato, io che cosa sono? Nulla, se non un povero idiota che si è illuso di essere migliore di quel che è in realtà. Ho lasciato l'Accademia per nessuna motivazione e iniziato ad affogare la mia vita solo perché mi sono reso conto di essere inutile. Eppure, in queste tre settimane che ho passato con loro, per una volta, mi sono sentito nuovamente soddisfatto di me stesso. Felice di essere vivo.

Faccio davvero pena… Davvero pena… Scusatemi ragazzi.

Non ce la faccio più. Non riesco più a resistere a tutto questo.

Io voglio… voglio morire.

 

“A quanto sei arrivato, mh?”

Quel viso affilato, quegli occhi smorti. Reverendo Marcus mi getta uno sguardo disgustato, quando nota le mie ferite infette e tutti i segni della tortura, come se dovesse rimettere da un momento all'altro, come se la mia sola esistenza lo offendesse.

Mi afferra il viso con la mano avvolta nel guanto, stringendo con forza la mascella e tirandomi in avanti; le catene sferragliano nel momento in cui il mio corpo magro e privo di forza soccombe a quell'improvviso abuso, e mi sembra come se il mio intero scheletro stia per incrinarsi solo a causa di questo movimento così brusco.

“...duemilanovecen...”

“Ormai non resta nulla di questo verme. Ha parlato?”

“No, signore,” si giustifica l'uomo con la maschera, mentre poggia il ferro rovente che mi ha divorato la carne qualche minuto prima, “Sono tre giorni che andiamo avanti, ma non ha detto nulla riguardo al motivo per il quale erano qui.”

“Notizie degli altri?”

“Le guardie non li hanno ancora trovati. Nessuno è entrato o uscito dall'Abbazia, nemmeno dalla porta segreta che hanno utilizzato per introdursi.”

...Kendrick.”

Una voce che mi chiama. Sono impazzito, finalmente. Ho perso tutta la mia sanità mentale, dopo tre giorni di tortura che sono sembrati infiniti. Non ho visto una luce diversa da quella delle candele per così tanto tempo. È normale che io sia—

Kendrick. Sono Ondines.”

On… Ondines? La sorella di Jeiv?

Ascoltami bene, Kendrick. Ho ascoltato la tua storia, ed ho visto i tuoi ricordi, attraverso il Velo che ci separa e ci unisce al tempo stesso – e so che non ti rimane molto da vivere. So che non vuoi morire, non così. Perché, in fondo…

Ti fai pena.”

Mi faccio pena…

Te lo chiederò solo una volta, allora – accetta il mio legame con te. Diventa il mio Osservatore e, allora, potrai vivere ancora per un po'. Potrai vivere abbastanza per riuscire a pensare, per una volta, che non hai gettato tutto. Che hai vissuto per un buon motivo.”

Un'altra possibilità? Ho perso tutta la mia vita, ed ora improvvisamente mi vengono date due possibilità… una dopo l'altra. Non credo di meritarmelo.

Questo sta a te deciderlo, o sbaglio?”

Forse hai ragione. Non voglio morire così. Non voglio andarmene gridando e piangendo, contando mentre il mio corpo viene lentamente smembrato, pezzo per pezzo.

Vuoi vivere?”

Ah… Ahah… non sono così pretenzioso. Voglio solo poter dire addio agli altri e vederti almeno una volta. Sentire che ho lasciato qualcosa alle mie spalle, prima di andarmene, di aver compiuto qualcosa degno di avermi fatto vivere. Morendo così… sarei solo uno dei tanti cani randagi.

E tu non lo sei?”

No. Certo che no. Io, alla fine… sono uno Stray Dog.

Molto bene, allora. Da questo momento in poi, io sarò il tuo Ghost – e tu il mio Osservatore.”

 

——— * ———

 

“Signore...”

La voce dell'uomo mascherato è esitante. Indica tremante verso la direzione del prigioniero, che fino ad un attimo prima era come una bambola rotta, piegato su se stesso, senza più la forza nemmeno per respirare ritmicamente. Poco più che un cadavere attaccato alla vita con troppa tenacia.

“Cosa c'è, ora?!” il Reverendo Marcus si volta. E, facendolo, la sua espressione di disgusto muta prima in sorpresa, poi in rabbia. Vorrebbe chiedere come sia possibile, ma conosce già la risposta – anche se, dentro di sé, vorrebbe non accettarla. Ha lavorato così tanto per poter avere quella Ghost tra le sue mani. Costringerla a legarsi a lui.

Il prigioniero si alza. Le catene si spezzano. Le sue vene palpitano e la sua pelle ferita sanguina ancora, così come il suo respiro continua ad essere irregolare ed esitante. Eppure, nonostante questo, il suo sguardo è quello di…

Si avvicina lentamente.

“Stammi lontano!” ulula, tentando di farsi scudo con quel suo carceriere. Ma, ancor prima che possa muovere un passo, sente una fitta al petto. Un artiglio color della pece trapassa la sua carne; sangue sale alla bocca e schizza a terra.

Prima di morire, il Reverendo Marcus guarda negli occhi quel ragazzo che, fino ad un attimo prima, era una marionetta senza scopo nella vita, spenta, priva di fili.

Ed ora, invece, il suo sguardo è quello di un feroce cane randagio.

 

Stray Dogs – End

 

 

 

 

 

   
 
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