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Autore: Gatto Magro    23/01/2016    1 recensioni
"Simile, per forma, a un organo dotato di tubi di vetro, le sue canne sono illuminate dalle fiamme che fuoriescono dai becchi, posizionati l'uno accanto all'altro. Le fiamme sono azionate mediante una tastiera; [...] ai tasti corrispondono altrettante fiamme che, separate, emettono suoni apparentemente simili alla voce umana, al pianoforte, ad un'orchestra intera."
1. This mortal coil.
2. Non era vernice,
Genere: Dark, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II
 

Non era vernice,
 

 
C’erano i suoi capelli rossi, le scarpe di pelle consumata fino a perdere odore e colore, le nocche illividite delle sue mani pallide come fotografie sbiadite, le tazze di caffè nero rovesciate sui plichi di fogli che nascondevano le assi marce del pavimento, una lampada ad olio, sospesa ad oscillare da un punto indefinito di buio, o dall’ultima spirale in cui il fumo di sigaretta si torceva pigramente per poi perdersi nell’ombra che inzuppava il soffitto.
Faceva freddo, anche se la camicia leggera e le caviglie nude – ossute, pallide, nervose – dell’uomo seduto al centro della stanza sembravano suggerire il contrario. Il suo respiro poteva essere gelido come l’aria, perché non condensava come quello di Blitzen, che se ne stava fra gli stipiti della porta, dritta come un manico di scopa, le unghie piantate nelle braccia sotto le maniche dell’ampio cappotto di lana.
- Non ricordo più come facevi a mandare via i topi, Babù.
Anche il respiro di Blitzen scomparve dalla stanza. Le si incastrò a mezza via fra polmoni e gola, facendosi improvvisamente pesante come piombo, sprofondandole nel petto e facendole salire le lacrime agli occhi. Non ce la fece proprio a rispondere, le labbra strappavano a vuoto brani d’aria mentre il suo cervello elaborava sinfonie di pianti scomposti, da bambina, sulla sua camicia troppo leggera per quella stagione.
- Sei raffreddata. Schiocca le dita e obbliga l’aria che filtra dagli spifferi a ingentilirsi contro il tuo corpo, amore. So che sai farlo.
Parlava con cura, a bassa voce, senza guardarla negli occhi. Le sue iridi di menta e foreste infestate seguivano i lenti cerchi che le sue dita disegnavano attorno ai polsi. Le labbra schiuse e un sopracciglio lievemente inarcato, studiava distrattamente i segni violacei che accompagnavano la pelle dai palmi ai gomiti: il punto che lei non seppe costringersi a guardare.
- Ti faccio un the.
Ma non si alzò dalla poltrona divorata dagli anni. L’incanto della propria pelle gli spargeva attorno agli occhi un’espressione insieme di stupore e preoccupazione, come se quello che stava osservando non gli sembrasse familiare e avesse avvolto il suo corpo all’improvviso, come una nevicata notturna.
- Con il becco di un pettirosso, devi ungere le finestre esposte ad ovest con un intruglio di rosmarino, salvia e fili di cotone.
- Mettere il bollitore sul fuoco sarebbe troppo banale, Babù?
Aria zuppa di ricordi e dolori sordi incastrata nel petto, di nuovo. Blitzen sorrise. Per i topi, amore, cercò di dire, per mandare via i topi, ma la voce non tornava più. Era caduta nelle caverne del suo corpo che aveva coperto di bugie, sciocchezze e distrazione, uno strato di foglie marce che nascondeva appena l’ingresso della tana di una creatura mostruosa, cresciuta e  deformatasi nell’oscurità dei suoi luoghi soppressi, rinnegati, ma rimasta una trappola ancora perfettamente funzionante. Aspettava, paziente, che lei si avvicinasse con un dito, la punta di una scarpa o di un pensiero, per chiuderla tra le sue fauci dolci e fatali.
Istintivamente, spostò lo sguardo sul proprio corpo, quasi aspettandosi di vedere abissi spalancati sotto il bavero del cappotto. Trovò invece le proprie mani, avvolte attorno una tazza sbeccata, piena di liquido dorato e fumante. Si stupì: l’ultima volta che ci aveva pensato, le sue mani erano artigliate alle proprie braccia, e una lieve sensazione di dolore e tensione era rimasta a premerle contro i polpastrelli. Spaventata, la lasciò andare.
Il liquido dorato dondolava fino a sfiorare i bordi, restituendole il riflesso liquefatto del suo volto.
La tazza non si era mossa: galleggiava nell’aria, come collegata alle sue dita tese da fili invisibili.
Blitzen sentì i muscoli contrarsi repentini lungo la schiena, avanti e indietro, una lenta frustata di calore.
Sbatté le palpebre e la tazza era ai suoi piedi, in frantumi, il the schizzato sugli stivali.
- Oh. – Sospirò.
Fece per alzare nuovamente gli occhi su di lui, sulle labbra una frase di scuse che morì prima di venire pronunciata: la tazza era ancora fra le sue mani, intatta, piena di the bollente.
- E le rose? – chiese lui.
- Quali rose. – Sussurrò lei in risposta. Guardarlo iniziava a diventare doloroso come il calore che le scottava i palmi, irradiandosi lungo le braccia e le spalle – nude, adesso, come il resto del suo corpo – un fuoco cattivo, mordace, che spezzava le sue membra di ghiaccio un pezzo alla volta, senza scaldarla.
- Le rose, Babù, che riempivano le aiuole del parco del castello, affollate in ogni punto in cui stornavi lo sguardo. Quelle dai gambi stretti da nastri di seta nera, appese sopra i caminetti di tutte le stanze, infilate in alti vasi di cristallo al centro del tavolo, sparse a centinaia sopra il pianoforte e  sul tappeto della camera dipinta del blu più profondo, dove mi chiedevi di portarti a fare l’amore…
Lei chiuse gli occhi, tremando.
Le sue parole, lente e paralizzanti, parevano accarezzarle le ossa.
Quando li riaprì, lui la stava fissando.
- Non ci sono più, le nostre rose. Castelul de Trandafiri Albi, con i suoi boschi e le sue fontane, le terrazze per i telescopi e le segrete per i fantasmi, è andato in rovina per lunghi anni, preso da un male tremendo. Le tempeste hanno divorato e spazzato via tutto ciò che poteva essere morso e rapito dal vento. E sulle poche pietre che rimasero, un re che tu non hai conosciuto ha innalzato un nuovo castello.
Frasi così lunghe e faticose, le sembrò di non averle dette mai. E il turbamento che vedeva crescere in lui era insieme ostacolo e spinta che le comprimeva il petto – coltelli piantati nella gola, scala di ferro e cristallo sulla quale la voce si sarebbe arrampicata…
- Come sulla scaletta a chiocciola che portava al Gradina Minunilor, dai gradini invisibili, ma incastonati di gemme come un cielo stellato. Soltanto la luce della luna sapeva accenderle, facendo apparire la scala. Si diceva che essa si riavvolgesse come una dama che raccoglie le sue gonne per passeggiare, e si spostasse di continuo. – Una risata umida e forzata le scappò dalle labbra. – Hanno trovato i disegni di Aldebaran Cărtărescu, sai? Quei maledetti. E hanno voluto usarli per ricostruire il castello proprio come la sua visione doveva aver attraversato la mente di quel pazzo. Pensavo di poter evitare di preoccuparmi, aveva dato fuoco a tutte le tavole, come faceva sempre. Deve aver conservato alcuni bozzetti, dei fogli di calcolo, o magari hanno letto la sua ossessione scavata nel fondo del cranio quando hanno riaperto la sua tomba, non so.
E non seppe proseguire, non con quei ricordi stampati in mente e gli occhi di lui sui suoi seni. Come confessare il proprio dolore di carnefice alla sua vittima ormai dissanguata, ma che si ostinava a respirare?
La guardava confuso e spaventato come un bambino, ma con gli occhi vitrei dal desiderio.
- Babù, ma se tutto è distrutto, noi dove siamo?
Blitzen premette una mano contro la bocca, forte, per soffocare un singhiozzo. Le dita si bagnarono di lacrime. Lui fece per alzarsi e venirle incontro, ma ricadde sulla poltrona sollevando nugoli di polvere: era legato. Una corda spessa quanto un pugno serpeggiava attorno al suo corpo, inchiodandolo dov’era, ma lui sembrava più tormentato dal fatto che la distanza fra loro non fosse diminuita.
Preghiere e maledizioni agli angoli della sua bocca, tutte con il nome che soltanto lui aveva usato per chiamarla. Piegata a quella forza, Blitzen si precipitò davanti a lui a mani tese – la tazza era caduta di nuovo, in un momento che il tempo doveva aver saltato come un graffio su un vinile danneggiato, con le piante dei piedi ne aveva calpestato i frammenti taglienti come lame di coltello, e il suo volto divenne una maschera d’amore e dolore, gli occhi pieni di lacrime per l’uomo seduto di fronte a lei, il sangue coagulato che gli trapuntava pelle e vestiti, e tutti gli anni che erano e sarebbero passati senza che lei scordasse i sapori e gli odori che il mondo aveva assunto, per lei, mentre lui viveva e si addormentava con un braccio stretto attorno ai suoi fianchi, il respiro caldo intrecciato ai capelli che le si incollavano alla fronte.
Il sudore freddo che scoprì sulla sua nuca divenne un liquido denso e bollente sotto le sue dita.
Le  finestre erano in briciole sui tappeti costellati di buchi, permettendo all’aria gelida di irrompere nella stanza: la lampada ad olio oscillava sopra di loro, alterando i lineamenti del suo volto, facendo apparire la pelle un attimo pallida e imperlata di sudore, quello successivo tesa, opaca e disidratata.
- Non ricordo più come facevi a mandare via i topi, Babù. – la sua voce uscì a fatica dalle labbra scorticate. – Adesso sono nella mia testa.
Una mano si infilò fra le sue cosce. Le dita che le accarezzavano la pelle erano di seta; le corde che la sfioravano, carboni ardenti.
Del fumo compatto abbracciava ora la sua visuale periferica, alzandosi in volute grumose dalle assi del pavimento. La stanza sprofondò in un’oscurità umida e verdastra, dove le pareti si persero come in una nebbia di palude. L’odore della putrescenza schiaffeggiò le narici di Blitzen.
- Farà male solo per poco. – balbettò, il petto scosso dai singhiozzi e le guance fredde per le lacrime che lo inondavano e l’aria aspra che le vorticava intorno. Serrò gli occhi di fronte al volto sfigurato dal terrore dell’uomo e lo strinse a sé. Ai rantoli che riversava contro il suo ombelico si aggiunse presto uno stridio acuto, vicino e sempre più alto, come la marea, perso nei secoli e dietro le sue spalle, contro i timpani, percepito da tutti i sensi con un’intensità che la gettava fuori di sé.
Quando iniziò a sentire i morsi nella carne alla base della nuca, si mise ad urlare.
 
 







“Ibis redibis non morieris in bello.”
 




E.m.p.t.i.e.d.
 
 
 
 
 


 
 
Platea spalancò la porta con ben poca grazia femminile mandandola a sbattere contro la parete, dove si schiantò con un rumore sordo e una pioggia di schegge di legno e vernice azzurrina. La maniglia roteò furiosamente al centro del disco d’ottone, finendo per svitarsi e planare attraverso la stanza come un’elica impazzita, scomparendo dalla vista. Un sonoro blop giunse da un punto imprecisato della stanza, segno che il pezzo di ottone era probabilmente affondato nella vasca da bagno piena d’acqua bollente di cui Platea indovinava appena la sagoma attraverso la fitta coltre di vapore che riempiva il bagno.
La ragazza rimase per qualche secondo cristallizzata nel gesto repentino di irrompere nella stanza, strizzando le palpebre e cercando di decidere in fretta se voleva insultare la porta, quella casa che cadeva a pezzi, Robespierre o il Creato intero.
- Blitzen. – esclamò soltanto, all’indirizzo della figura snella che emergeva a tratti dalla nube di vapore come la Pizia delfica. – Tornerò vivo dalla guerra?
Senza aspettare una risposta, entrò nella stanza e socchiuse le finestre per far circolare l’aria spessa e soffocante. Quando riuscì ad intravedere il volto dell’amica, le passò qualsiasi voglia di scherzare.
Blitzen non aveva mosso un muscolo. Pareva pietrificata, eretta di fronte al lavandino, pallida come se l’avessero scolpita dallo stesso blocco di marmo. Le labbra esangui erano schiuse, piegate in un’espressione che ammorbava i suoi lineamenti di una profonda, disperata tristezza. Perfino gli occhi, fissi nella superficie offuscata dello specchio, sembravano aver perso colore.
Mentre Platea la osservava ammutolita, Blitzen, con movenze affaticate di fantasma, sollevò un braccio imperlato di minuscole gocce d’acqua. Mentre stendeva la mano verso lo specchio, le sue labbra si mossero, modulando nel vapore una parola che Platea non riuscì a cogliere.
Un nome. Distante infiniti mondi, perso nella nebbia, qualcuno non rispose all’infinita dolcezza di quel richiamo.
- Blitzen, cosa diavolo stai facendo? – con un guizzo Platea le fu accanto. Afferrò quella manina bianca e la strinse. Gli occhi offuscati di Blitzen finirono nei suoi, senza vederli.
- Sei qui? – sussurrò.
Platea si sentì sprofondare. Prese il volto dell’amica fra le mani, con delicatezza. Era bagnato e lucido di lacrime.
Freddo come la pietra sotto i suoi polpastrelli.
Stava per chiamarla ancora, ad alta voce, quando qualcosa le mozzò il respiro fra i denti. Negli occhi spalancati di Blitzen, il suo riflesso non c’era. E non c’erano le mattonelle coperte di una patina di condensa, le alte candele sparse sui ripiani lucidi, la fila di asciugamani pesanti di umidità; niente di ciò che era fermamente saldato a quel piccolo spazio di mondo reale trovava posto e nome, fra le bianche ciglia di Blitzen. Come in uno schermo, la ragazza vide l’ira brutale e primitiva impressa in un volto privo di occhi; in quelle orbite scavate regnava un buio senza dimensioni.
Platea avvicinò l’indice e il medio della mano destra alle pupille di Blitzen, quasi sfiorando i bulbi oculari, e articolò qualcosa di incomprensibile. Quando abbassò la mano, le iridi dell’amica erano tornate del consueto grigio pallido e un respiro affannoso le scuoteva il petto.
- Cos’hai visto? – chiese Platea a bruciapelo. Reggeva ancora l’altra per le spalle e sentiva ogni brivido che serpeggiava sotto i suoi muscoli.
- Oh, come sono in ritardo. Platea, è meglio se mi passi il cappotto. – Mormorò Blitzen, spostando lo sguardo ansioso per la stanza.
- Prima è meglio se ti asciughi e metti qualcosa addosso. Non vorrai far venire un colpo apoplettico a tutti gli anziani signori del vicinato, andandotene in giro in déshabillé sotto l’impermeabile?
- Prego?
Platea sospirò. Afferrò un morbido asciugamano color indaco e vi avvolse stretta la ragazza tremante.
- Non ricordavo di avere un cappotto di questo colore. Non mi ingrassa un poco? – domandò Blitzen, impensierita.
- Trovo che ti stia a meraviglia. – la rassicurò Platea in maniera sbrigativa, mentre svuotava fuori dal balcone un portasapone pieno di mozziconi zuppi. – Credo che nel tuo armadio troverai anche un paio di mutande in pendant. Fila a vestirti e poi scendi, ti ho versato il tea.
Blitzen rimase lì impalata a gocciolare sulle mattonelle. Si fissava i piedi, corrucciata.
- Mi sembra di aver sognato. Ho un brutto sapore sulla lingua, ma non riesco a capire cosa…
- Sarà quello della menzogna. – Platea si girò per guardarla attentamente. – Qui dentro c’è odore di menta piperita, gelsomino e qualcosa di strano, antico, ma organico. Come un cadavere nascosto in armadio pieno di muffa e polvere nella biblioteca di Uppsala.
 - Sarebbe un buon titolo per il tuo libro di memorie.
- Ricordami di appuntarlo. Per il tuo, invece, suggerisco “Perché diavolo ho invocato visioni e sogni profetici mentre mi insaponavo le ascelle?”
- Stavo solo cercando di capire dove potrebbe essere Ann. – ribatté Blitzen sulla difensiva.
- Ma hai trovato qualcos’altro. Ti ho chiamato per cinque minuti buoni. – Nel tono duro di Platea si insinuò una vena di dolcezza, la stessa che tornava a pungerle i polmoni ogni volta che a Blitzen succedeva qualcosa. - Poi ti ho sentita urlare.
Blitzen tacque. Nella sua mente, si distillavano ricordi degli ultimi minuti che le sembrava di aver vissuto con un altro corpo: da una bizzarra prospettiva angolare, vedeva se stessa immersa nella vasca di ghisa addossata alla parete, circondata di bolle di sapone delle più diverse forme e colori… un sinuoso drago dai riflessi lilla e girasole, volti bulbosi di folletto, lucidi e oblunghi vagoni tremolanti sul pelo dell’acqua correvano intorno alle sue ginocchia… una sigaretta dimenticata esalava un sospiro bianco e sottile che si intrecciava al fumo più denso, penetrante delle erbe annerite in una ciotola d’argento… la voce di Platea che la chiamava dalla cucina…
L’incubo si sovrapponeva alla realtà sfocandone i contorni, come un’interferenza. I rumori esterni si ripetevano, alterandosi improvvisamente mentre un sottofondo greve e roboante cresceva di intensità. Come lampadine bruciate, i colori sfarfallavano e infine si spegnevano, lasciando il posto alla densa oscurità di una stanza che portava i segni evidenti dell’abbandono.
- Somebody catch my breath.
- Che hai detto?
Blitzen sbatté le palpebre e mise a fuoco un paio di occhi dorati, stretti in un’espressione indagatrice.
- Facciamo due passi. Mettiti qualcosa addosso, dobbiamo parlare con Viv.
- Oh, certamente. Tu invece tieni l’asciugamano, fa un contrasto sorprendente con la tua carnagione. – borbottò Platea in risposta, ma l’altra non la udì. Stava già filando verso le scale, lasciando una scia di impronte bagnate sul parquet nero come la notte.
 
 
 

 
I’m a goner
 

Erano bellissime, eteree e disordinate, non si stavano accanto e non si tenevano per mano, per non perdersi tra i respiri della calca di West End: loro non si sarebbero perse mai. Fossero finite in una fotografia scattata per caso, chiunque, guardandola, avrebbe unito con un filo invisibile – rugiada d’occhi – le due figurine che parevano stare immobili, come gli assi di rotazione terrestre in differita sui marciapiedi di Londra, intorno ai quali l’umanità scorreva e si tramutava in un caleidoscopio al rallentatore.
Platea, intabarrata in una giacca maschile grigio tempesta dalle spalle troppo ampie, mani piantate nelle tasche dei calzoni e naso nella sciarpa che la avvolgeva come una coperta, camminava lieve pochi passi dietro Blitzen, che marciava ad una velocità sorprendente per essere issata sui suoi stivali a tacchi alti. Le falde del sontuoso cappotto color glicine sferzavano l’aria dietro di lei, spazzando via la nebbia che tentava di avvolgerle le caviglie. Nonostante l’aria gelida che spirava sulla via, il suo collo era nudo ed esposto al vento. Aveva le guance infuocate e gli occhi pieni di lacrime.
- È mai possibile che Vivienne debba portare a spasso gli antenati mentre siamo immerse fino alla cintola in un mare di merda?
Una donnina tutta rughe e abiti bordati di candida pelliccia sobbalzò nel cogliere quella frase pronunciata dalla creatura angelica che quasi la investì.
- Tu riempi la mia vita di immagini meravigliose. – Platea allungò il passo, superando la donna rifilandole una spallata assolutamente intenzionale. – Perché stiamo correndo? Non credo che Vivienne abbia trascinato Auntie Antonia a passeggiare fino in Galles. Non con quella sua tallonite.
- Quel vecchio comò sarebbe in grado di trascinarsi in Francia, se si mettesse in testa che tira aria migliore. O che è ora di rinvenire qualche altra mummia di famiglia.
- Cosa non fa un buon paio di calzature ortopediche. Gliele consiglio vivamente! – aggiunse Platea strillando nel cornetto acustico dell’ottuagenario che le ostacolava il passaggio.
Sfilavano lanciandosi parole che avrebbero usato in un qualsiasi giorno di dicembre, sorridendo di nascosto nelle maniche dei maglioni o nei bordi delle tazze da the, come se nulla fosse, forse per quel loro essere giovani e antiche che nessun altro poteva sapere.
Platea forse per sfiorare lieve il volto contratto di Blitzen, e confondere l’odore di tensione che emanava con quello delle bancarelle di dolciumi stemperate in un'unica scia colorata ai lati del suo sguardo, ancora un po’.
Blitzen, per costringersi a non cercarlo fra la folla, nei visi di sconosciuti, nei pozzi d’ombra che le luminarie non riuscivano a dissipare. Per non sperare più.
 
 
Antonia Coralise Lucrèce Eulalie Blanchard Guckville era l’unica donna che Vivienne conoscesse ad indossare un corsetto per passeggiare ad Holland Park.
Un corsetto nero, un mantello scuro come la notte che si avvicinava, dalle ampie maniche ricamate in fili spessi d’argento in motivi che s’accendevano alla luce soffice di un lampione dalle braccia torte, un cappellino trapuntato di lunghe piume corvine adagiato sulle ventitré su una corona di ricci color pervinca, un oblungo bastone d’ebano dalla testa di cigno stretto fra le mani guantate ed immote come i solchi sul suo volto severo.
- Eugenia Blanchard, lascia in pace quell’elleboro.
Vivienne sorrise e alzò lo sguardo sull’anziana zia, seduta impettita sull’orlo della panchina come se trovasse sul trono d’Inghilterra.
- Zia, sono Vivienne. – le rammentò, tornando ad incantare con le dita gli steli d’elleboro, che presero a torcersi con grazia, emanando una luce dorata e polverosa. – Eugenia ha dodici anni, sta facendo i compiti di matematica e in questo momento si trova dall’altra parte della città.
Antonia strizzò le palpebre, riuscendo a farlo sembrare un moto sdegnoso e non il tentativo di mettere a fuoco la nipote seduta sull’erba.
- Perdonami, cara. Ma dimmi, Eugenia non è neanche uno fra i tuoi nomi?
La ragazza guardò un punto nel cielo e contò per qualche secondo sottovoce, giocando distrattamente con la tesa del cappello.
- Forse il dodicesimo o il tredicesimo.
- Naturale, naturale! – Antonia strinse il bastone con soddisfazione. – Non ti sei sposata l’anno scorso, vero? – aggiunse dopo qualche attimo di perplessità.
- No, zia. Si sono sposate Cassandre, Isabeau e Noémie… - snocciolò Vivienne, contando in punta di guanti. – Non sono sicura se Aubépine si fosse solo fidanzata con quel tipo alto e scuro, ricordi? Lui non era molto contento quando scoprì che lei preparava filtri in cantina.
- Tua cugina è una sconsiderata! Se scoprissero qualcosa su quel suo negozio di sciroppi e essenze medicinali, saremmo tutti nei guai. E dire che le basterebbe essere un minimo più discreta, usare meno belladonna e gelsomino tigrato, e magari togliere quel ridicolo drago di Normandia dall’insegna!
- Io lo trovo meraviglioso! – Vivienne scoppiò a ridere. – Avvicina i bambini al magico mondo dei farmaci.
Antonia la fulminò con un’occhiata di puro gelo.
- Quando arrostirà qualcuno riderai meno, bambina! Anche se suppongo che tua cugina Aubépine offrirebbe prontamente un miracoloso unguento di erbe per le ustioni…
- Già, Aubépine non si fa mai prendere dal panico. Una venditrice nata. – considerò Vivienne. – Zia, inizia a fare davvero freddo, vuoi che ti accompagni a casa?
- Per lasciarmi in mezzo a quelle papere delle tue parenti alle prese con il tacchino della Vigilia? Preferirei diventare una statua di ghiaccio su questa stessa panchina. Mai, mai la stirpe dei Blanchard rinunciò alle danze nei cieli fitti di stelle della notte di Natale per infilare un pennuto ripieno nel forno! – le narici di Antonia fremevano come quelle del drago di Normandia acciambellato sull’insegna del negozio di Aubépine. – Fuochi verdi dalla punta delle dita, coltri di lampi e gelo per capelli, usavamo volare come granelli di sabbia nei vortici tempestosi. Gli animali del buio erano i nostri destrieri e insieme al vento assordante intonavamo il cantico di Mohr-ja-Ggon…
- Oh, certo, certo. Quanti secoli fa, esattamente?
Pallida di stizza in volto, Antonia ammutolì la nipote con lo sguardo. Stava per ribattere qualcosa quando una voce la interruppe.
- Auntie, che bello trovarti qui. Ti hanno addobbata per le feste? Quel cappellino è adorabile.
Platea si stravaccò malamente accanto all’anziana signora, a braccia conserte e gambe larghe, un’espressione felina stampata sul viso.
Blitzen si avvicinò a sua volta, aggraziata, lasciando una carezza fra i capelli di Vivienne.
- Allora, zia, stavi ancora parlando di remote tradizioni? Anche io e Blitzen ne avremmo un paio da raccontare. Dovremmo dedicare una serata a rimpiangere tutti quei riti folli a cui prendemmo parte in gioventù…
- Ti prego, Platea, di parlare per quanto ti concerne. Io sono ancora nel fiore degli anni, se confrontata con due anticaglie come voi. – la rimbeccò Antonia, assumendo, se possibile, una postura ancora più rigida. L’avrebbe negato sempre, ma all’angolo delle sue labbra severe tremava un sorriso. – E siediti composta!
- Avete notizie? – chiese Vivienne, facendo saettare lo sguardo da Blitzen a Platea. Il viso di ques’ultima si ricompose, facendosi cupo come i cipressi che svettavano alle loro spalle.
- Nulla. – mormorò Blitzen. – Non un urlo, non un soffio è giunto fino a noi.
- E se provassimo con la divinazione?
La bionda allontanò l’idea con un gesto morbido della mano. – Abbiamo tentato, ma siamo rimaste cieche.
- Tu hai tentato. – rimarcò Platea, polemica. – Ci vuole una mente pura, per vedere chiaramente fra le trasparenze dei sogni.
- Certo, se ti ci fossi messa tu sarebbe andata diversamente. Una mente tanto pura, la tua, che avrebbe risvegliato il…
- Blitzen ha avuto delle visioni? Quando? E perché non mi avete aspettata?
- Lei non ha aspettato nessuno! E se solo avesse avuto la grazia di avvisarmi, invece di chiudersi lì dentro e…
- Silenzio! – Antonia picchiò il terreno con il bastone con inimmaginata energia. La sua voce avrebbe arricciato il pelo di un gatto e fatto cadere le piume di un pavone. – Urla, sogni, divinazione, che razza di carnevale è mai questo? Ora una di voi mi spieghi tutto per filo e per segno, per cortesia, e le altre non fiatino.
Le ragazze si scambiarono sguardi veloci e irrequieti. Infine, Blitzen sollevò altera il mento, si inumidì le labbra e parlò.
- Ricordi Annika, zia?
- Quanto ricordo le guerre e i sovrapprezzi dell’uva candita, purtroppo. Quella vagabonda ha saccheggiato la mia soffitta più di una volta, ed è sempre riuscita a scampare alla mia scopa di saggina.
- Annika ci disse di aver spesso avuto delle visioni, durante le quali un demone le appariva. A suo dire, si trattava del proprietario del suo cuore. Noi la avvisammo subito che era necessario liberarsene immediatamente, ma… - Incapace all’improvviso di proseguire, Blitzen chiuse le palpebre. Nel buio che vi incontrò dietro, udì la voce di Platea completare la frase al posto suo.
- Disse di esserne innamorata e che ucciderlo le sarebbe stato impossibile. Ci ha impedito di intervenire in qualsasi modo quando, la notte scorsa, è uscita per incontrarlo.
-  E da allora non è tornata. – Terminò Antonia, lenta, grave.
 
E da allora, mi leggi negli occhi, sono nel fumo che odora di terra, cenere come piume al tatto, colori vibranti nella camera oscura ricavata fra le costole sospese nel buio di un essere di cui non scorgo il volto, nemmeno domandando con dolcezza ai venti e alle loro figlie dai capelli intrecciati di ortiche, ai buchi scavati nel terreno, al muschio verdeazzurro, che s’accendeva al ritmo di un respiro quando la vista del presente si snebbiava, e fremeva la foschia al lento borbottio della sua arcana voce…
 
- Lo vedo, bambina, che hai interrogato le occhieggianti piante della tua terra per avere indizi su dove dirigere lo sguardo. Non è servito, vero?
Blitzen scosse brevemente il capo.
- E tutte voi non credete che la strega sia fuggita con il demone di sua spontanea volontà.
- Bere il sangue di neonati e dare intere città alle fiamme non risultavano fra i sogni erotici di Annika, se posso dire di conoscerla un poco.
- Non possiamo non provare nemmeno a riportarla a casa. – dichiarò Blitzen, la voce fremente. – Siamo state delle stupide.
- Le hai persino prestato un vestito. – precisò Platea, che aveva il dono bizzarro di pronunciare, con sintetica esattezza, la frase che avrebbe mandato un suo qualunque interlocutore su tutte le furie.
Dalla rabbia Blitzen si fece, se possibile, ancora più pallida.
- Platea, vai nel luogo in cui Annika è scomparsa. La mia tallonite non mi permette di andarmene dove voglio, e Cicerbitha Robbins non è una donna che ama le visite inaspettate.
Le ragazze la guardarono con tanto d’occhi.
- Perché devo andarci? – fece Platea.
- Perché dobbiamo andarci? -, le altre due, in lieve differita.
- Esamina il terreno, ascolta l’acqua, presta orecchio allo scricchiolio dei ciottoli. La terra ricorda l’orrore quanto noi; ci dirà qualcosa che non sappiamo ancora sulla vostra amica scomparsa. E Cicerbitha Robbins fa un ottimo tea agli agrumi.
 
 
 
 
Cicerbitha Robbins non amava le visite, punto.
Caratteristica piuttosto bizzarra, pensò Vivienne, dato che possedeva una sala da tea la quale, come dichiarava un grazioso cartello appeso alla porta in legno e vetro completamente appannato, era aperta tutti i giorni dalle otto alle undici del mattino, e dalle due, recitavano frettolose parole in corsivo, fino a che un cliente avrebbe desiderato una tazza del miglior tea d’Inghilterra.
Una spessa patina di condensa ricopriva le ampie vetrine, rendendo indistinto l’interno dell’antico locale da cui filtrava soltanto la luce soffusa delle lampade a parete; l’impressione era, però, che non ci fosse anima viva.
- Coraggio, ragazze, non ho intenzione di compiere ottantaquattro anni su questo marciapiede.
Al di sopra del cappellino piumato di Antonia, Vivienne e Blitzen si scambiarono uno sguardo perplesso.
- Novantaquattro, zia. – si sentì in dovere di precisare Viv.
Ci vollero quattro mani per spingere la porta, che ugualmente non si mosse di un millimetro. A guardarla meglio, il suo contorno pareva semplicemente un rettangolo tracciato con un carboncino; il vapore che chiazzava il vetro si rivelò essere, in realtà, polvere, che aveva tutta l’aria di starsene lì da un bel pezzo. Blitzen pensò vagamente a quanto tutto desse l’impressione di essere appiattito, senza dimensione: più lasciava correre lo sguardo dalle snelle maniglie d’ottone agli stipiti di quercia, più la facciata della sala da tea le pareva un disegno schizzato su di un foglio ingiallito dal tempo, il colore sparso dalla punta delicata di un dito che lasciava intravedere la grana della carta. A toccarla, ora, tutta la superficie si deformava, proprio come un foglio, accompagnata da un crepitio sommesso, lasciando sui guanti di Vivienne impronte di sanguigna.
- Oggi non capisco un cazzo. – sentenziò Blitzen a mezza voce.
- Oh, santissimi numi. – sussurrò Vivienne, rapita, indicandole il cartello che dondolava davanti ai loro nasi congestionati.
Un carboncino invisibile stava tracciando nuovi arzigogoli in un corsivo appuntito.



 
Io sono di zucchero.
 























 
 
 
 
 
 
 
Gatto Magro si è fermata
davanti ad uno scorcio del labirinto
che non aveva previsto.
Questo è forse un enigma di seconda mano,
che le Sfingi iniziarono a comporre per noia
pochi istanti prima di sprofondare;
un’illusione ottica,
un errore di calcolo.
Gatto Magro si siede sull’erba
e inizia a schioccare le dita.
La chiave è di due colori e cinque lettere e mezzo,
pensa per scherzo.
Quasi.
 
 












 

 
 

 
 
 
 
 
 
 
   
 
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