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Autore: Malvagiuo    24/01/2016    1 recensioni
Racconti fantasy che narrano le gesta dei grandi uomini del popolo valigero, devoto a Yngrun, il Dio Drago, Signore delle Creature.
Figlio del fuoco - Un'oscura maledizione perseguita Rolgar, un demone fatto di fuoco e sofferenza che si annida dentro di lui e lo tormenta da quando è nato. La fuga dal villaggio sembra l'unica speranza di una vita migliore, ma c'è chi non è disposto a lasciarlo andare via, qualcuno che cova rancore, e che farà quanto è necessario per fermarlo. Quando una maledizione cessa di essere tale e si trasforma in opportunità?
La volontà del Dio Drago - La vita di Astyr viene distrutta nel modo più tragico: i temuti razziatori devastano il suo villaggio e uccidono sua moglie. Resta solo il figlio Volfin nella sua esistenza, ma Astyr non intende correre il rischio di perdere l'ultima cosa che gli rimane. Un potere oscuro è in agguato, un potere che si alimenta di dolore e di desiderio di vendetta, che può persuadere Astyr a cedere la propria anima in cambio del più terrificante dei poteri.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aldiron si svegliò di soprassalto. Quel mattino le fitte erano lancinanti. Avvertiva un torrente di fuoco scorrergli in  corpo, divampando sotto ogni lembo di pelle dalle gambe alla sommità della testa.
Aveva avuto un altro incubo, quella notte. Ma il dolore continuava a tormentarlo, ricordandogli che il vero incubo era quello in cui era costretto a vivere, giorno dopo giorno.
Tutto era buio, intorno. La coltre di nero lo avvolgeva completamente, celando alla vista qualunque cosa. Il buio più intenso non bastava a celare lo sguardo che lo fissava dalla parete opposta al letto. Sapeva che due occhi, intensi e immobili, lo scrutavano nel silenzio.
Aldiron si strappò le coperte di dosso. Appoggiò il piede a terra, con troppa foga, come si rese subito conto. Una fitta di dolore risalì lungo la schiena, talmente rapida che riuscì a stento a trattenere un grido. Si alzò, avanzando malfermo fino alla parete. Non aveva bisogno di protendere le mani nel buio, per evitare gli ostacoli. La stanza era vuota, non c’erano mobili o altro che potessero farlo inciampare, o che potessero ricordargli la sua vita passata. Delle due cose, non sapeva quale fosse la più sgradevole.
Si arrestò un istante prima di sbattere il naso contro il muro. Ebbe l’impressione di sentire qualcuno respirare, un naso che non poteva essere il suo. Le sue narici non potevano più produrre quel suono regolare, il suono dell’aria che passa morbida attraverso canali intatti. Doveva essere un altro scherzo della sua mente. Il rantolo roco che conosceva bene riempì la stanza, coprendo qualsiasi altro rumore, vero o fittizio che fosse.
– Che cosa vuoi?– disse all’ombra. –Lasciami in pace. Devi lasciarmi in pace.–
Gli rispose il silenzio.
 
Quando scoprì i pesanti tendaggi di velluto, un fiotto di luce dorata penetrò attraverso le vetrate. Il sole del mattino illuminò un luogo spoglio, impolverato, talmente desolato da sembrare abbandonato. La sagoma di Aldiron si stagliava contro la superficie illuminata della finestra dalla punta acuminata. Osservò il cielo oltre il vetro, e il mare di nubi sottostante. Fu tentato di aprire la finestra, ma ricordò che il freddo poteva essergli fatale, a quell’altitudine. Senza contare che avrebbe potuto ispirargli ulteriori propositi, ai quali non si era ancora deciso a cedere.
Stava per allontanarsi, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Una nuvola biancastra, a poca distanza dalla Torre, fu squarciata dal passaggio di un drago in picchiata. Il Dio si era tuffato nella superficie impalpabile della nuvola, scomparendo in meno di un battito di ciglia. Aldiron aveva appena fatto in tempo a scorgere la sfumatura dorata delle sue scaglie.
Poteva essere... lui?
Senza pensare, Aldiron afferrò il Tagliasangue. Produsse un taglio netto sul palmo della mano e spalancò la finestra. Protese la mano verso l’esterno, mentre il sangue iniziava a gocciolare sul bordo di marmo.
Rimase immobile, con il braccio sollevato, per un tempo che parve interminabile.
Non accadde nulla. Il sangue si incrostò sulla nuda pietra.
 
Tornò verso il letto e protese la mano verso il mobiletto a fianco del capezzale. Afferrò la maschera e la indossò. La luce illuminò il volto privo di espressione, bianco come latte, incorniciato dai fluenti boccoli candidi della parrucca. Di fronte allo specchio, diede gli ultimi ritocchi alla capigliatura, sistemandola nella maniera più ordinata possibile. Le labbra rimasero serrate nella loro immutabile linea retta, incise appena al di sotto degli zigomi pronunciati, sui quali si riflettevano i raggi del sole, facendo apparire la maschera come di porcellana.
Poi suonò il campanello, affinché i servitori arrivassero per vestirlo.
L’abito era ricco, uno dei migliori. Elegante, ma non pacchiano. Una giubba nera dai bottoni dorati, che ricopriva una camicia di seta d’argento dai motivi floreali. Sul velluto nero della giubba, una fitta rete di ricami che ritraeva due draghi avvinghiati in una lotta, oppure in un amplesso caotico, a seconda dell’interpretazione di chi guardava.
Aldiron l’aveva scelto con cura. Era davvero magnifico. Abbastanza da distogliere l’attenzione dall’essere deforme che lo indossava.
 
La corte era sempre la stessa. In mezzo ai vestiti sgargianti, alle parrucche dai colori inverosimili, si annidavano le stesse persone che, dietro il velo dell’apparente rispetto e della considerazione, lo osservavano nutrendo il disprezzo riservato agli sconfitti o, nel migliore dei casi, la commiserazione dedicata agli esseri patetici. Aldiron sapeva di essere miserabile e patetico al tempo stesso, informe nella sua menomazione. Maschera, parrucca e abiti maestosi non bastavano a rendere la sua vista sopportabile ai cortigiani della Torre degli Dei.
Torre degli Dei... un nome appropriato per un luogo che non era più casa sua. Se ne sarebbe andato volentieri, se solo avesse avuto un altro posto dove andare.
Il salone delle udienze era più pieno del solito, notò Aldiron. Dovevano essere stati convocati perfino i nobili dei livelli inferiori. Scorse alcuni uomini che sapeva provenire da Sotto le Nubi. Quello di oggi doveva essere un giorno diverso.
Aldiron comprese l’importanza del momento quando vide il Drakonikan in persona apparire nella sala. La schiena lievemente curva, i capelli bianchi raccolti in una lunga treccia, le rughe disseminate sul viso, riusciva ancora a trasmettere la potenza della propria autorità sugli astanti. Quegli occhi grigi inducevano soggezione persino ad Aldiron, nonostante la protezione della maschera.
Il ciambellano scandì tre rintocchi battendo il bastone cerimoniale sul pavimento di marmo, imponendo il silenzio. I sussurri e i mormorii concitati cessarono di colpo. La Voce degli Dei parlò.
–Gli Dei sono eterni, ma i loro vicari devono sottostare alle leggi del tempo– esordì il Drakonikan, rifiutando di sedersi sul proprio seggio, nonostante l’evidente affaticamento. –Il momento della mia Caduta si avvicina. Presto gli Dei avranno un nuovo Drakonikan. Farò del mio meglio per offrire loro il candidato che considero meritevole di succedermi.–
Una tensione vibrante si diffuse tra i nobili. Aldiron scoprì di essere coinvolto da quello stato d’animo. Quante probabilità c’erano per lui di essere scelto? Facendo una rapida considerazione, una possibilità esisteva. Dopotutto, era un Grande nel Fuoco. Non era stata forse la fiamma del drago a ridurlo così? Chi più di lui poteva considerarsi vicino alla vera essenza degli Dei, essendo stato travolto dall’alito del più maestoso tra i draghi della Torre?
Senza pensare, Aldiron avanzò facendosi strada tra la calca, faticando non poco a causa del dolore che gli provocava ogni passo. Ignorò gli sguardi della gente che lo circondava, per la prima volta dopo molto tempo. “Che mi guardino pure, oggi” pensò. “Dovranno imparare a dissimulare meglio il disgusto, quando diventerò il loro signore. Sono stanco di nascondermi.”
Giunto in prima fila, una cintura di guardie impediva l’accesso alla parete nord della sala, quella dove il Drakonikan stava tenendo il suo discorso. Anche se in cuor proprio Aldiron sapeva che la propria presenza non era necessaria a ricordare al proprio signore l’importanza dei servigi che gli aveva reso, ritenne opportuno non trascurare alcun particolare.
Ma il Drakonikan non aggiunse altro. Egli abbassò lo sguardo e si ritirò dalla sala, procedendo lentamente verso l’uscita a lato del trono, scortato da due guardie. La folla non riuscì ad attendere che la porta si chiudesse prima di ridare vita a un vortice di mormorii, sussurri e frasi concitate, il cui argomento era assai facile da indovinare.
Aldiron rimase immobile nella propria posizione, il peso appoggiato per intero sul bastone di osso di drago. I boccoli candidi della parrucca gli ricadevano sulle spalle, ma non fece nulla per scostarli all’indietro, com’era sua abitudine. Ogni suo pensiero era indirizzato verso l’imminente decisione del Drakonikan.
–Pensi così forte che riesco a leggerti nella mente.–
Aldiron non si voltò. In parte perché un movimento brusco gli avrebbe provocato una fitta lancinante al collo, in parte perché aveva riconosciuto la voce. Non era sicuro di volerla guardare in faccia.
–Sono felice che Eliveus abbia colpito la tua attenzione. Era da tempo che non ti vedevo così vivo.–
–A te interessano solo le persone vive. Dico bene, Atwil? I quasi-morti non fanno per te.–
–Non risolleviamo vecchie questioni. Non sono state le tue ferite ad allontanarmi da te.–
–Giusto– disse Aldiron, voltandosi finalmente verso di lei. –Ad allontanarti è stato qualcun altro.–
Atwil indossava un veste scarlatta che Aldiron non aveva mai visto prima di allora. Non era un suo dono. Qualcuno doveva avergliela regalata dopo che si erano separati. Lo stesso poteva dirsi della cintura di draghi d’oro che le ornava i fianchi, e della collana di rubini che le accarezzava il collo, uno dei quali talmente grande da protendersi verso l’incavo dei seni. Era meravigliosa, come sempre. Nonostante si sforzasse con tutto se stesso, Aldiron non riusciva a odiarla.
–Il fuoco non è bastato a cambiarti, vedo.–
–Che cosa vuoi?– disse Aldiron, augurandosi che il suo tono di disprezzo risultasse convincente.
Atwil gli girò intorno. Cinque passi, non di più. Non serviva a nulla spostarsi, Aldiron lo comprese subito. Ma quei passi, lenti e calibrati come solo una donna è in grado di fare, fecero risaltare le morbide curve del suo corpo in movimento, mostrando una grazia i cui ricordi erano sopiti da tempo nella memoria di Aldiron. La maschera nascose i suoi occhi, che per un istante si erano socchiusi, mentre un torrente di immagini inondava la sua vista. Ricordava bene ogni frammento della pelle nascosta sotto quell’abito.
–Avrai bisogno di me, in questi giorni.–
–C’è stato un tempo in cui avevo bisogno di te. Ora è tardi per offrire aiuto.–
–Finiscila. Sono stanca di sentirti sputare fiele. Avveleni solo te stesso, di certo non me– disse Atwil. –Ti voglio offrire una grande opportunità.–
–Di cosa parli?–
–Non qui– bisbigliò Atwil, gettando un’occhiata eloquente verso la folla che li circondava. –Al parco, quando il sole tramonta.–
Senza aggiungere parola, si allontanò. Aldiron rimase a fissarla, impietrito. Una cascata di capelli d’oro, che arrivava a sfiorare i fianchi, avvolgeva una sublime schiena nuda. Sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta in cui l’aveva accarezzata.
 
Non c’erano uccelli a quell’altitudine. L’unico suono era il fruscio delle foglie, scompigliate dal soffio dei venti gelidi che aleggiavano intorno alla Torre degli Dei. I draghi erano lontani, nelle terre di pietra, impegnati a cacciare. Avvolto nella pelliccia d’orso, Aldiron fu colto da un brivido. Era stata una buona idea, accettare quell’appuntamento? Non poteva fidarsi di Atwil, non più, dopo quello che era successo. Perché si trovava lì, allora?
“Perché non riesco a dimenticarla, nonostante tutto” si ritrovò a pensare. “Lei è più forte di me. Lo è sempre stata, anche se ho sempre cercato di negarlo.”
Un flebile rumore di passi lo costrinse a voltarsi. Atwil era arrivata, ricoperta da un ricco mantello bruno, che nonostante l’avvolgesse per intero, non poteva celare le sue forme armoniose. Aldiron rimase un istante a osservare i suoi occhi. Azzurri come il cielo in primavera, quando le nubi si sciolgono dopo essersi liberate dalla pioggia. Distolse subito lo sguardo, nonostante la maschera lo proteggesse.
“Se la guardi, sarà più difficile rimanere distante. Non lasciare che ti irretisca.”
–Fa sempre freddo, quassù. Per questo adoro venirci.–
Il calore della sua voce era in netto contrasto con il gelo che li circondava.
–Non riesco ad amare il freddo– fu la risposta di Aldiron.
–Non l’avrei detto. Considerando... insomma, considerando quello che...– Atwil non concluse la frase. Aldiron non riusciva a capire se si fosse interrotta in segno di rispetto o per qualche altro motivo. Per evitare di scoppiargli a ridere in faccia, per esempio.
–Tante cose ci provocano dolore. Questo ci impedisce di continuare ad amarle?– disse Aldiron, obbligandosi a mantenere lo sguardo altrove. –Io lo so meglio di chiunque altro.– “Questo non dovevi dirlo, idiota.”
Atwil si avvicinò. Aldiron avvertì il lembo del suo mantello sfiorargli la mano.
–Mi dispiace per quello che ti è successo. Che tu ci creda o no.–
–Di che cosa vuoi parlarmi?–
Una nuvoletta di respiro si condensò appena oltre le sue labbra. Un sbuffo di vapore argenteo, niente di più. Aldiron avrebbe dato qualsiasi cosa per immergersi in quel respiro, e percepire ancora una volta il profumo che emanava da lei.
–Voglio parlare della sola cosa che conti, al mondo. Il futuro.–
–Proprio nessuno è rimasto sordo alle parole di Eliveus, vedo.–
–Saresti stato il suo degno erede, e ti prego di credermi quando lo dico, Aldiron. Non c’è mai stato un Cavaliere che potesse starti alla pari.–
–Uno c’è stato, invece. Dovresti saperlo, dato che dividi il letto con lui ogni notte.–
–È stato favorito dal caso. La sua mediocrità è palese a chiunque abbia un paio di occhi.–
–È stata quella mediocrità a conquistarti? O sei andata da lui perché non sopportavi la puzza di carne bruciata?–
–Non fare l’ingenuo, Aldir. Sai bene come funzionano queste cose.–
Sì, Aldiron lo sapeva. Forse era per questo che non riusciva a fuggire da quella terrazza, voltandole le spalle una volta per sempre. Sapeva che, nei suoi panni, si sarebbe comportato allo stesso modo.
–Smettila di far finta di non capire. So che vuoi diventare Drakonikan, più di ogni altra cosa.–
–Pensi di conoscermi così a fondo?–
–Ti conosco quanto basta per sapere che a tormentarti non sono né il dolore, né la deformità.–
Era vero. Lo conosceva meglio di chiunque altro, ma non l’avrebbe mai ammesso in sua presenza. Non l’aveva ammesso neppure durante i giorni felici, quando la loro unione pareva inscindibile.
–E cos’è a tormentarmi?–
Atwil sorrise. Il sorriso di una donna che sta per infliggere il colpo di grazia.
–Lo sguardo di un nobile di rango inferiore, nel quale leggi pietà e commiserazione. Gli occhi di un alto nobile che, dietro il finto riguardo, ridono di te e ti augurano una lunga vita, in modo tale che la tua sofferenza si protragga ancora per molti, molti anni. Dare ordini a un servo e scoprire che guarda in basso non perché ti teme, ma perché non sopporta la vista del tuo corpo martoriato. Il disgusto negli occhi di una donna. La consapevolezza di non incutere più timore a nessuno. La paura di fronte alla prospettiva di vivere a lungo, senza uno scopo– disse Atwil, schiacciando Aldiron sotto il peso dei suoi occhi azzurri. –Queste sono le cose che ti tormentano.–
Aldiron rimase in silenzio. Non c’era niente che potesse dire.
–Sai che, come Drakonikan, tutto questo sparirebbe.–
Lentamente, Aldiron annuì. Fu un gesto inconscio, una diretta emanazione dei suoi desideri più profondi.
–Ma anche il braccio destro del Drakonikan avrebbe lo stesso potere. Specialmente con un Drakonikan debole.–
Aldiron si voltò di scatto. Ignorò il dolore lancinante scatenato da quel gesto brusco.
–Di cosa stai parlando?–
–Di prospettive. Un tempo ne avevi molte, mentre oggi tutto quello che può portarti il giorno sono sferzate di dolore e occhiate di scherno– disse Atwil. –Davvero non ci arrivi?–
–Parla chiaro, se vuoi che continui ad ascoltarti.–
–Taured sarà scelto come nuovo Drakonikan. Come primo atto, ti affiancherà nelle decisioni di governo.–
Trascorsero pochi attimi di silenzio, interrotti solo da sporadici soffi di vento gelido. Poi, una risata ancor più gelida risuonò nell’aria, talmente roca da sembrare il guaito di un animale morente.
–È veramente la cosa più ridicola che abbia mai sentito.–
–Non diventerai mai Drakonikan, Aldiron. Questo devi saperlo.–
–Ne sei certa?– ribatté Aldiron, senza riuscire a nascondere una sfumatura di astio nella propria voce. –In dieci anni ho servito la Torre e gli Dei meglio di quanto abbiano fatto generazioni di nobili in secoli di inchini e cerimoniali. Eliveus ricorda bene le incursioni della Falange Rossa nelle pianure sotto la Torre, così come ricorda a chi apparteneva la spada conficcata nel petto di Breiveg Corno-di-sangue. Non dimenticherà chi, in più di un’occasione, ha raddrizzato la corona che ha in testa, evitando che cadesse.–
–Non dimenticherà nemmeno che Taured ti ha sconfitto, e che ora sei uno storpio deforme, deriso dal resto della corte.–
Un fiume di collera si riversò nelle membra di Aldiron, animandolo di un’energia che non lo dominava da tanto tempo. Sollevò il braccio, nell’intento di colpire duramente il volto di Atwil. In passato, non avrebbe mai osato un gesto di quella violenza verso la donna che amava. Qualcosa era cambiato in lui, comprese. Ma nemmeno in quel momento riuscì a picchiare Atwil. Non per un ripensamento, ma perché un lampo di dolore lo accecò, bloccandogli il braccio e facendolo quasi cadere a terra.
Non era più padrone del proprio corpo. Ancora tendeva a dimenticarlo.
Atwil lo fissava. Aldiron non riuscì a capire se quello nei suoi occhi fosse disprezzo o pietà. Non sapeva cosa fosse peggio.
–Perdonami– disse Atwil. –Sono stata crudele.–
–Non chiedermi scusa, se devi mentire in maniera così evidente.–
–Non sei stanco di questo?– domandò Atwil. –Di veder calpestato il tuo onore? Di dover subire senza poter reagire? Io ti sto offrendo la Torre degli Dei, e tu esiti.–
–Perché mai dovresti farlo? Cos’hai in mente, in nome del Dio Drago?–
–Non c’è niente da capire, Aldiron. Io voglio il potere. È semplice. E tu sei il modo più facile per ottenerlo.–
–Taured non mi chiamerà mai tra i suoi consiglieri.–
–Lo farà eccome, perché io gli dirò di farlo.–
–Vorresti farmi credere che è il tuo burattino?–
–No, certo che no. Ma è un uomo facile da convincere– disse Atwil, mentre un sorriso indecifrabile si delineava sulle sue labbra sottili. –Il tuo difetto è sempre stato questo: non sei abbastanza stupido da lasciarti convincere. Almeno in questo, Taured è migliore di te: non ama farsi troppe domande.–
Il piano di Atwil continuava a suonare ridicolo alle orecchie di Aldiron. Troppe cose non tornavano. Tuttavia, sentiva il rancore sciogliersi e abbandonare il suo cuore, mano a mano che trascorreva il tempo accanto a lei. Era quasi come essere tornati indietro negli anni, quando si sentiva degno di averla accanto. All’epoca, era certo di essere un uomo di pari valore. Ma adesso, che cos’era diventato? Una creatura orrenda, divorata dalle fiamme, i cui segni mutilavano il suo corpo, al punto da dover indossare maschera e parrucca per celare i tratti inguardabili del suo viso. Dove c’era uno sguardo fiero, ora prendeva posto una faccia priva di espressione, candida come la neve e altrettanto fredda. Quello che era stato un portamento eretto, in grado di indurre soggezione e rispetto in chiunque, si era ridotto a una schiena curva e a un passo malfermo, che gli rendevano necessario l’uso del bastone per sorreggersi. Di ciò che era, era rimasto solo... solo...
–Hai ancora il ritratto, in camera?–
Aldiron, distolto dalla propria meditazione, si obbligò ad assumere un tono di voce impassibile.
–No. Non saprei che farmene.–
Sperò con tutto se stesso che la menzogna suonasse convincente.
–Non l’avrai distrutto, mi auguro. Era una vera opera d’arte.–
–Taured ne ha appeso uno, accanto al letto?–
Atwil sollevò gli occhi, esasperata.
–Fosse solo uno. Sono così tanti che ormai li scambio per tappezzeria.–     
–Preferisce fornicare con se stesso anziché con te?–
–Questi non sono affari che ti riguardano.–
–Mi riguardano eccome– disse Aldiron. –Non ho intenzione di diventare la pedina di uno stupido gioco di vendetta.–
–Non avrei bisogno di pedine, se volessi una vendetta.–
Aldiron cominciava a spazientirsi. Quella conversazione non aveva scopo, decise. Taured non sarebbe diventato Drakonikan: Eliveus era un uomo troppo saggio per commettere un simile errore. Come Cavaliere era senz’altro audace, ma raramente Aldiron aveva osservato un monumento tanto imponente all’ottusità e alla vanagloria. “Ma non può essere così ottuso”, sussurrò subito una vocina insidiosa dentro di lui, “dopotutto, ti ha sconfitto. E anche piuttosto facilmente.”
–Che cosa ci guadagni, Atwil?– chiese Aldiron. –Dimmi la verità, e prometto che penserò alla tua proposta.–
–Te l’ho già detto cosa ci guadagno.–
–Ma perché hai bisogno di me? Non hai detto di poter convincere facilmente Taured a fare qualsiasi cosa tu voglia?–
Atwil attese un momento, prima di rispondere. Il momento necessario a porsi nello spazio fra Aldiron e la balaustra di pietra che li separava dallo strapiombo.
–Perché Taured non durerebbe un anno senza te al suo fianco. Non è in grado di governare, anche se vorrebbe convincere tutti del contrario. Appena diventerà Drakonikan, la sua inettitudine sarà evidente per chiunque. Ha bisogno di qualcuno che sappia proteggerlo dalla sua stessa incapacità, indicandogli le decisioni giuste.–
–E dovrei essere io? Perché non tu?–
–Io non sono stata Cavaliere degli Dei per dieci anni, Aldiron.–
Aldiron comprese finalmente il succo della questione. Atwil gli chiedeva di diventare la balia di Taured, di evitare all’uomo che lo aveva ridotto in fin di vita di scivolare dal trono e andare a sbattere la testa contro un pugnale. In cambio, gli veniva offerto il ritorno alla tavola del potere, da dove sarebbe stato di nuovo padrone delle vite degli altri. A patto di rimanere nell’ombra, osservando i propri meriti che venivano attribuiti a qualcun altro. Per la precisione, a qualcuno che già una volta lo aveva derubato di ogni cosa.
–No.–
L’espressione di Atwil era inesistente. Impossibile dire se a causa del freddo o della risposta ricevuta.
–Pensaci ancora.–
–Ho detto di no.–
Aldiron non aggiunse altro. Si voltò, percorrendo il sentiero di pietra che conduceva all’interno della Torre. Ogni suo passo scricchiolava sotto il sottile strato di neve. Non c’era nessun altro, sulla terrazza. Solo il vento che soffiava, gli alberi che ondeggiavano mollemente e uno sguardo tetro, che lo fissava alle spalle, il cui peso era greve come quello di una colpa.
 
–Non accetterò una cosa simile. È inutile anche starne a parlare. Taured non sarà mai scelto come nuovo Drakonikan.–
Aldiron era vagamente consapevole di parlare ad alta voce da solo, ma la cosa non lo turbava. I suoi servi ci erano abituati. Inoltre, non era davvero solo. C’era il ritratto ad ascoltarlo, e la sua opinione era l’unica che contasse davvero.
–L’uomo che mi ha quasi ucciso e la donna che mi ha tradito... perché dovrei aiutarli? Non possono darmi niente. Niente!–
Il bel volto del ritratto lo fissò con sguardo gelido. L’alta uniforme gli conferiva un portamento altero, rispecchiando perfettamente il prestigio di chi la indossava.
–Eliveus non lo sceglierà mai. Sono io che devo essere scelto. Nessuno lo merita più di me. Ho dato ogni cosa alla Torre, questo Eliveus non può ignorarlo.–
Lo farà.
–Non oserà!–
Avrebbe scelto me. Ma tu non sei me. Non più. Sei uno storpio deforme.
–Questo storpio deforme rimane Aldiron il Fiammeggiante, il più grande cavaliere di draghi che la storia ricordi!–
Aldiron il Fiammeggiante è un ritratto appeso a una parete. Qui ci sono solo ceneri fumanti che urlano al muro.
–Sarà Eliveus a deciderlo, non tu.–
Il buio rimase silenzioso. –Mi hai sentito? Non sei tu a deciderlo! È il Drakonikan che decide, non tu!–
Un vaso di terracotta attraversò in volo la stanza, infrangendosi contro la pietra. Ancora silenzio.
–Solo il Drakonikan! Il Drakonikan, il Drakonikan, il Drakonikan!–
 
Lei non era nella sala. Aldiron la cercò a lungo con lo sguardo, ma non la vide. Non sapeva come interpretare la sua assenza. Un segno di resa, forse? Conosceva troppo bene Atwil per cullarsi in quell’illusione.
Eliveus non aveva ancora raggiunto il grande salone, dove meno di un mese prima aveva dato il suo annuncio. La convocazione aveva raggiunto tutti in maniera inaspettata, poiché nessuno credeva sarebbe trascorso così poco tempo fino al momento della sua decisione.
Che cosa avrebbe detto, il suo antico signore? E se, dopotutto, Atwil avesse avuto ragione? Se davvero ogni impresa che aveva compiuto, ogni sacrificio sopportato, si fossero dimostrati inutili di fronte a Taured? Aldiron non sapeva come avrebbe reagito. Quella situazione stava solleticando un lato di sé di cui egli stesso aveva paura.
Il portale di legno massiccio lungo il lato nord della stanza venne spalancato, ed Eliveus fece lentamente il proprio ingresso. Il suo aspetto non era migliorato affatto dall’ultima volta che era stato visto in pubblico. Pareva anzi ancora più emaciato, più claudicante nella sua andatura. Appena un mese era passato, ma sul suo corpo aveva avuto il peso di almeno dieci anni.
Una malattia, comprese Aldiron. Ecco spiegata la ragione della nomina di un successore.
Il banditore sbatté l’estremità inferiore del bastone sul duro pavimento di marmo, il tonfo secco che risuonò impose il silenzio tra tutti gli astanti.
–Ho fatto la mia scelta– esordì Eliveus, la cui voce era appena udibile, nonostante il silenzio. –Ho pregato a lungo il Dio Drago affinché mi concedesse la saggezza necessaria. Sperando che le mie preghiere siano state esaudite, annuncio che a succedermi sarà Taured Tilgwandar.–
Un brusio concitato animò la folla, mentre il torrente di commenti veniva a stento represso.
–Prego che saprà essere un degno Drakonikan, e che gli Dei lo accettino al più presto come loro Entramite.–
Atwil era nella sala, da qualche parte. Non c’erano dubbi, ma non c’era motivo di cercarla. Aldiron si allontanò, zoppicando. Parecchi corpi lo urtarono, incuranti della sua menomazione, badando a malapena alla sua presenza. Un uomo per poco non gli fece perdere l’equilibrio, mentre avanzava precipitoso verso il centro della sala, dove la maggior parte dei presenti stava convergendo. Era là che doveva trovarsi Taured. E Atwil. Cercò di allontanarsi più rapidamente che poté, ma qualcuno gli pestò il piede destro. Il suo urlo di dolore fu schiacciato dal tumulto della calca, che aveva cominciato a inneggiare al futuro Drakonikan.
Aldiron tenne stretto il bastone, con cui arrancò fino all’uscita, fuggendo verso la propria dimora.
 
Le fiamme lambivano la cornice. La parte inferiore del ritratto cominciava a screpolarsi, i colori sulla tela sbiadivano e gonfiavano, formando grottesche bolle in procinto di scoppiare.
–Hai smesso di esistere. Per tutti loro non ci sei più. Rimango solo io. Lo storpio. Il deforme. Aldiron il Bruciato. Aldiron l’Incenerito.–
Il fumo riempiva la stanza. Una serie di colpi secchi alla porta interruppe il crepitio delle fiamme. Aldiron rimase seduto sulla poltrona, fissando indifferente l’incendio alla base della parete, le lingue di fuoco che accarezzavano il dipinto.
Ci fu un colpo violento. Poi un altro. I tonfi si ripeterono a lungo, finché la porta venne abbattuta. I servitori si precipitarono all’interno, uno di loro urlò qualcosa e in tre si precipitarono a spegnere le fiamme, sferzandole con le proprie livree.
Aldiron badava appena a quello che succedeva. Non era nemmeno seccato per il fatto che avessero osato violare la sua dimora, o interferire nei suoi intenti. Non badò neppure alla mano vellutata che si era appoggiata sulla sua spalla. Una mano che emanava un profumo di lavanda.
–Che cosa stai facendo, Aldiron?– Non c’era alcun rimprovero nella sua voce. Era un sussurro intriso di una dolcezza che non udiva da lungo tempo.
–Ho paura.–
L’aveva detto a voce bassa, ma chiunque sarebbe stato in grado di sentirlo. Compresi i servi impegnati a salvare il ritratto.
–Di che cosa?–
–Di essere morto, in qualche punto della mia vita, e di non essermene reso conto. Che cosa resta di me, se non quell’uomo che sta bruciando? O forse nemmeno lui è rimasto, dal momento che nessuno sembra ricordarlo.–
Atwil si voltò verso il ritratto. Le fiamme erano state domate, i servitori stavano rimettendo a posto il disordine che si era creato. –Andatevene.–
I servi alzarono lo sguardo, ma nessuno accennò a ribattere. Il loro signore non sembrava avere intenzione di contraddire l’ordine. Abbandonarono quello che stavano facendo e uscirono dalla stanza, in fila silenziosa, come fantasmi che abbandonano un maniero spettrale.
Atwil afferrò i bordi della maschera di Aldiron, che d’istinto sollevò le mani, nel tentativo di impedirglielo. Ma la sua presa era debole, e la volontà vacillante. Che senso aveva nascondersi, ormai? Era chiaro a tutti quanto poco contasse nella Torre. Anche senza maschera, nessuno si sarebbe accorto della sua esistenza. Aldiron il Fiammeggiante era morto, non aveva più senso negarlo. Che cosa stava cercando di nascondere, esattamente?
–Non farlo.–
–Hai portato questa troppo a lungo.–
Il bianco volto di porcellana volò sul letto, atterrando con un morbido tonfo. Atwil rimase impassibile. Doveva essere preparata a quello che avrebbe visto. O forse, davvero non le faceva impressione ciò che vedeva? Se mai un volto era stato orrendo, era il suo. Inguardabile, insostenibile, una mostruosità tale per cui era naturale essere rifiutati dai propri simili.
Atwil si abbassò. Le sue labbra toccarono prima la sua fronte. Si appoggiarono, nulla di più. Un fremito percorse Aldiron, mentre la bocca di Atwil scendeva in basso, verso i suoi denti. Non aveva più labbra con cui offrire un bacio, rimanevano solo due file di denti bianchi, con saltuarie tracce di gengive. Atwil le baciò, un bacio vero, lento, amorevole. Prolungato. Non c’era passione, in quell’atto, ma c’era la ferma intenzione di amare.
–Credi che bacerei un morto?–
Gli occhi di Aldiron rimasero fissi su di lei, senza sapere dove guardare. Una fiamma nuova, diversa da ogni altra, bruciava nel suo petto, ravvivata dopo un gelo durato anni.
–Sono vivo, dunque?–
–Lo sarai, sei verrai con me.–
Sostenendosi sui bracciali della poltrona, Aldiron si alzò. Per un attimo, sembrò del tutto eretto, alto come era stato un tempo. La guardò negli occhi.
Aveva preso la sua decisione.
 
***
 
La salma di Eliveus giaceva, composta, al centro dell’Ultima Torre, solitaria in mezzo alla superficie piatta in cima all’edificio. I quattro pinnacoli la sovrastavano, ospitando i nobili giunti ad assistere.
Faceva freddo, il cielo era carico di neve. Gli abitanti della Torre non dovettero attendere molto prima che uno degli Dei, un drago rosso dalle ali giallo oro, atterrasse sulla sommità dell’Ultima Torre, incombendo su Eliveus. Annusò il corpo a lungo, sovrastandolo con la propria ombra possente. Dopo quella che parve un’attesa interminabile, le fauci si spalancarono e il cadavere venne dilaniato. Spruzzi di sangue circondarono il luogo delle esequie. Nessuno respirò mentre il Dio portava a compimento il rito. Quando fu sazio della carne del proprio Entramite, si incuneò nello spazio tra due dei pinnacoli e spiccò il volo, aleggiando sopra il baratro di rocce innevate e valli color ossidiana. Aveva ricominciato a nevicare.
Il rito era quasi terminato. Mancava solo l’atto di successione.
La botola dell’Ultima Torre si aprì sul pavimento, rivelando l’accesso alla rampa sottostante. Dalla scalinata emerse Taured. Si fece strada attraverso i resti martoriati di Eliveus, mentre la corte osservava in silenzio. Si fermò in prossimità di quello che forse era un braccio. Da quella distanza, era difficile distinguere i dettagli.
–Eliveus è ora carne della carne del Dio Drago. Possa vegliare su di noi e benedirci con la sua fiamma.–
La sua voce si era alzata forte, baritonale, chiara a tutti nonostante la lontananza. Si inginocchiò, intingendo le mani nel sangue sgorgato dalle carni dilaniate di Eliveus. Premette i palmi insanguinati sul proprio viso, sulle guance e sulla fronte, tingendo i suoi lineamenti di rosso.
–Il sangue non muore mai. Il sangue continua a scorrere!–
Il silenzio fu rotto da un’acclamazione festosa. Duecento voci si alzarono all’unisono per festeggiare il nuovo signore della Torre degli Dei. I fiocchi di neve ricadevano sul suo volto, inumidendo il sangue che aveva cominciato a seccarsi. Sarebbe stato un giorno dei giorni, se una seconda figura non fosse emersa dall’apertura sulla sommità dell’Ultima Torre. Un uomo curvo, zoppicante, sostenuto da un bastone.
Taured si accorse di lui quasi subito. Non ebbe difficoltà a riconoscerlo. Un fremito di collera si impadronì immediatamente di lui. Come osava interrompere il rito, quel relitto umano?
Si impose di controllarsi. Ricordò le parole di Atwil, riconoscendo di aver bisogno di quell’uomo. Ma non poteva permettergli di prendersi simili libertà. Era chiaro ciò che intendeva fare: sottolineare il loro legame fin da subito, in modo tale da incutere rispetto nel resto della nobiltà. Che razza di individuo! Non era neppure in grado di aspettare il giorno successivo, quando Taured avrebbe nominato i suoi consiglieri.
–Che ci fai qui? Ti rendi conto di quello che stai facendo?–
–Meglio di quanto tu possa immaginare, mio signore.–
–Hai interrotto il cerimoniale. Pensi che mi dimenticherò di questo?–
–Mi auguro di no, con tutto il cuore.–
 
Atwil osservava dal Terzo Pinnacolo. Il suo cuore batteva all’impazzata. Che cosa stava facendo Aldiron? Stava rovinando tutto. Quello stupido non poteva avere idea della fatica che le era costata convincere Taured a prenderlo sotto la propria ala. Pregò che non fosse impazzito, e che avesse in mente qualcosa che andasse a beneficio di tutti e tre. Atwil, tuttavia, non riusciva a intuire che cosa. Taured sarebbe andato su tutte le furie. Placarlo non sarebbe stata un’impresa facile.
Aldiron stava frugando nel proprio mantello. Estrasse qualcosa di piccolo, impossibile distinguerne i dettagli da così lontano. Tuttavia, sembrava un...
No.
Non stava per succedere. Non davanti ai suoi occhi.
 
–Mi stai minacciando?– Una nota di divertimento si era insinuata nella voce di Taured.
La lama era corta, un sottile pugnale istoriato con l’effigie di un drago. Non un pugnale qualsiasi, si rese conto Taured.
Un Tagliasangue da Cavaliere.
Solo i benedetti dagli Dei potevano possederne uno, ma quello di Aldiron era rimasto inutilizzato da... quanto tempo era passato dalla sconfitta? Tre anni, forse. Un tempo troppo lungo per essere ancora efficace.
–Atwil mi ha voluto tra i tuoi consiglieri. Lascia che ti dia il mio primo consiglio. Abbandona la Torre.–
–Non so cosa sia passato per la testa di Atwil quando ha proposto il tuo nome, ma so per certo quello che farò io. Ti butterò giù dalla Torre entro un istante, se non te ne vai immediatamente. Sia maledetto il giorno in cui ho dato retta a quella donna.–
Uno sprizzo di sangue schizzò dalla mano di Aldiron. Una miriade di puntini rossi si sparsero sulla pietra imbiancata dalla neve. Aldiron sollevò la mano, lasciando che rivoli purpurei colassero lungo l’avambraccio.
–Che ti salta in mente, razza di...–
Taured ammutolì di colpo. Era ovvio ciò che Aldiron stesse facendo.
Stava Chiamando.
Per poco non scoppiò a ridere.
–Mi fai una gran pena, Aldiron– disse Taured. –Gli Dei non rispondono agli sconfitti. Sei caduto e sei stato bruciato. Hai perso il tuo...–
Taured ammutolì di nuovo. Un ruggito spezzò il silenzio dell’aria. Una sagoma gigantesca emerse in volo dalle nubi, discendendo dalle vette insondabili della montagna. L’ombra oscurò di nuovo la cima dell’Ultima Torre.
Un paio di possenti zampe posteriori si aggrapparono sull’orlo del precipizio, mentre le ali lambivano le pareti del Secondo e del Terzo Pinnacolo. Due occhi dorati scrutavano le esili figure in attesa, mentre un cupo brontolio, amplificato dalle pareti di roccia che circondavano la Torre, veniva amplificato al punto da sembrare una valanga.
Il drago li scrutava entrambi, dilatando le narici, riconoscendo l’odore del sangue. Di quel sangue, in particolare. Chissà da quanto non lo percepiva. Tre anni, forse di più.
–Cosa serve, Taured, per cavalcare un Dio?–
Taured udì a malapena la domanda. La sua attenzione era rivolta unicamente al drago. Non aveva il controllo della situazione. Doveva andarsene da lì il prima possibile. Era troppo rischioso usare il proprio Tagliasangue. Con un drago così vicino, la reazione sarebbe stata imprevedibile.
–L’avevo dimenticato, quando fui bruciato. Bastò un istante, ma fu sufficiente per distruggermi– mormorava Aldiron. –Avevo dimenticato che non bisogna avere paura.–
–Che cosa hai in mente di fare?–
–Liberarmi della paura. Per sempre.–
Aldiron avanzò spedito verso il drago. Zoppicava, ma la sua andatura era risoluta. Procedeva verso quella creatura possente senza la minima esitazione, alzando lo sguardo quanto glielo consentiva la schiena curva. Il drago lo fissava di rimando, e Taured fu certo che gli si sarebbe avventato addosso entro breve. Ma così non fu. Il Dio continuava a osservare quell’essere patetico che si avvicinava, senza accennare ad attaccarlo. Sembrava che lo riconoscesse. Solo in quel momento, Taured intuì l’orrenda verità dietro quella situazione.
Il drago sull’Ultima Torre era l’ultima cavalcatura di Aldiron. Era la belva che lo aveva ridotto in fin di vita, che nessuno aveva più visto dopo la sua caduta. Era tornato, contro ogni aspettativa. I draghi degli sconfitti non tornavano mai.
Cos’era cambiato?
–Per tutti questi anni, ho sperato che tornassi da me– Taured sentì sussurrare Aldiron, rivolto al Dio. –Ti ho deluso, non è vero? All’ultimo, ho avuto paura. E tu lo hai sentito. Mi sono illuso di potertelo nascondere, ma non potevo farlo. Non potevo, no. E alla fine te ne sei accorto, e mi hai allontanato. Cos’è che ti ha offeso di più? La mia paura, o il fatto che abbia tentato di nascondertela? Ma le cose sono cambiate. Non sono più quello di prima. Sono diverso, lo senti che il mio sangue è diverso? C’è qualcosa di nuovo. Qualcosa che mancava da tanto tempo, da prima che cadessi.–
Un ringhio sommesso fece rabbrividire l’intera corte, ammutolita ad assistere.
–Ho trascorso anni a chiedermi come fosse successo. Come avessi cominciato ad avere paura– continuò a sussurrare Aldiron. –Passavo i giorni a guardare me stesso, l’immagine di me tracciata su una tela, chiedendomi perché fosse scomparso. Poi ho capito che non era scomparso. Io l’avevo lasciato andare. Le persone si allontanano, quando dai la loro presenza per scontata. Ora so cos’ero diventato, e l’ho allontanato da me. Sono tornato quello di prima. Sono tornato a credere in me stesso, a sperare in quello che potremmo realizzare, uno accanto all’altro. Non lascerò un’altra volta che la mia meschinità ci divida. No, questa volta andremo fino in fondo.–
La mano di Aldiron si appoggiò sul muso del drago. Nemmeno i Cavalieri più esperti osavano un contatto con le fauci dei propri draghi. Quello che Taured vedeva non aveva senso.
–La paura ti rende prigioniero, la speranza può renderti libero. Io voglio essere libero.–
 
Lentamente, il Dio sollevò il collo massiccio, squadrando ogni cosa dall’alto della sua mole gigantesca. In quell’attimo, il tempo si congelò, in attesa che il destino dei signori della torre si compisse. Ciò avvenne, nell’unico modo consentito nel dominio del Dio Drago.
Un torrente di fuoco si sprigionò dalle fauci del drago, investendo l’Ultima Torre e i Quattro Pinnacoli. Le fiamme si levarono alte, inghiottendo mura, scale, pietra e carne. Centinaia di nobili, di sguardi alteri, di occhiate di spregio, cancellate in meno di un istante.
Un ruggito furioso echeggiò tra le montagne, mentre uno stormo di draghi si sollevava per danzare intorno alla Torre degli Dei, trasformata in una torcia solitaria in mezzo agli strapiombi della valle nascosta.
 
Il fuoco non si placò per anni. Quando le prime piogge caddero, per molto tempo le gocce evaporarono, al contatto con la pietra rovente.
Dalle macerie, una figura esile, stretta nel suo mantello grigio, si stagliava su quella che era stata la sommità dell’Ultima Torre. La pioggia cadeva su di lei, il volto rigato da innumerevoli gocce.
–Cercavi la libertà, Aldiron– disse la donna. Dicevano che fosse folle, perché nessuno comprendeva i suoi discorsi. –Non avevo capito fin dove eri disposto ad arrivare, per averla. Non avevo capito, quanto pesanti fossero quegli sguardi per te.–
Non c’era più nessuno ad ascoltarla. Solo un’immagine confusa e bruciata, appesa a un muro diroccato, che un tempo doveva essere stata il ritratto di qualcuno. Ma di chi, nessuno avrebbe saputo dire.
 
   
 
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