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Autore: ThoughtlessPansies    27/01/2016    1 recensioni
Tanti anni fa,dopo la rivolta della Ghiandaia imitatrice, Panem era finalmente libera. Però infondo tutti lo sapevano,dentro la coscienza di ogni abitante c'era una voce che diceva "non durerà". La Paylor quando venne eletta aveva già i suoi anni, e senza di lei nessuno garantiva la durata di una civiltà priva di conflitti. Così,poco dopo la sua morte,nella speranza di trovare il perfetto successore, ci furono le elezioni . Due candidati spiccarono tra gli altri,li acclamavano perchè apparentemente rappresentavano gli ideali della vecchia presidentessa,ma si sbagliavano.
Adrian Melker ed Eugene Gottfridd,i due candidati,diventarono rispettivamente il nuovo presidente di Panem e la prima stratega della nuova generazione di Hunger Games.
Così tutto ricominciò; nuovi tributi,nuove arene,nuovi vincitori. Una nuova crociata sarebbe presto arrivata per gli abitanti di Panem.
Genere: Angst, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Senza-voce, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Sentii pungere lievemente la punta dell'indice. La donna con la divisa bianca mi prese bruscamente la mano e fece ricadere una goccia di sangue su un foglio dove erano presenti i miei dati:
Timberly Whitewood Ds.7, etá: 16.
Era la prima volta che partecipavo alla mietitura, la prima volta che uscivo in pieno giorno, in un luogo che non fosse il bosco di selci subito dietro casa mia.
Era pieno pomeriggio e il sole risplendeva riflettendosi sul biancore dell'edificio in cui probabilmente sarebbero stati momentaneamente accolti i tributi.
Ero sicura di non aver mai visto così tanta gente tutta insieme, così tanti ragazzi dallo sguardo spaventato, più grandi e più piccoli di me.
Il mio nome ci sarebbe stato 50 volte in più del normale. Sapevo come funzionava la mietitura, sapevo come funzionavano gli Hunger Games.
Quando sono nata mio fratello Morous mi nascose in una stanza segreta sotto il pavimento di casa nostra. Mi faceva uscire solo per andare nel bosco insieme a lui. Mi allenavo ogni giorno di nascosto a sopravvivere e a combattere. Quando compii undici anni capii che quella non era la vita che volevo. Mi allenavo perché volevo scappare.
" solo qualche anno, solo qualche anno in più!"
Continuavo a ripetermi. Una volta compiuti diciannove anni sarei stata libera. Non ci sarebbe stato il pericolo di essere estratta come tributo a gli Hunger Games.
Ma a sedici anni non ne potei più. Non ne potei più delle stanze buie e fredde, non ne potei più del costante odore di legno marcio e muffa. Volevo vedere il sole e non solo al tramonto, volevo che i suoi raggi mi baciassero la pelle.
Così sono scappata. Pensai che durante il giorno della mietitura nessuno si sarebbe mai accorto di me. Ma mi sbagliavo. Pensavo di sapere come fosse il mondo, mio fratello me lo aveva detto tante volte che era brutale e difficile, ma non mi sarei mai aspettata che lo fosse tanto.
-" è completamente folle"
Dissero gli uomini vestiti di bianco mentre mi trascinavano fuori dalla porta di casa e la luce del sole mi faceva bruciare gli occhi. I pacificatori erano più crudeli di come me li immaginavo, senza regole e senza timori.
Io non reagii, non battei ciglio quando mi dissero che avrei dovuto partecipare alla mietitura e che il mio nome sarebbe stato moltiplicato innumerevolmente nelle urne per punirmi della mia effrazione. Non battei ciglio nemmeno quando uccisero i miei genitori di fronte a me. Nonostante mio fratello avesse avuto tutte le buone intenzioni, col rinchiudermi dalla nascita in una cantina, non aveva fatto altro che rendermi folle e indifferente. Era come se non provassi nulla, come se ormai il mio cervello si fosse perso nell'oscurità dell'ombra, come se la muffa se lo fosse mangiato non facendone rimanere più niente.
Gli tagliarono la gola, ai miei genitori ,e il loro sangue mi macchiò i vestiti. Gli unici vestititi che avevo e gli stessi vestiti che indossavo quando mi misi in fila in attesa che il mio nome fosse detto.
Pensavano che fosse loro la colpa, non immaginavano chi invece fosse il mostro.

Erano così dannatamente sicuri che fossi io il tributo femminile di quell'anno.
Sentivo i mietotori parlare tra loro, mentre mi portavano nella piazza dove avveniva la mietitura. Dicevano che avrei pagato, che tanto non sarei riuscita a sopravvivere. Parlavano di me come se fossi già morta, come se avessero già estratto il mio nome dalle urne.

Mi sistemai tra le altre persone in attesa, con la speranza di non sentire il proprio nome pronunciato dall'uomo dai capelli verdi come le foglie dei tigli in primavera. Mi chiesi quanta differenza ci potesse essere nell'uccidere la persona accanto a te e nel desiderare di sentir pronunciare il suo nome invece che il tuo.
Io non avevo alcuna speranza di essere risparmiata, sapevo che avrei dovuto uccidere. Pensavo che uccidere qualcuno per vivere fosse meglio che non vivere e basta. Perché io non avevo mai vissuto, non ero mai esistita.
-" non c'è differenza tra giochi e realtà. In entrambi i casi devi lottare per sopravvivere."
Mi ripeteva mio fratello tutte le volte che gli confidavo di avere paura, di avere paura di morire.
Così quella rimase l'unica cosa di cui non ebbi più timore. La morte, al contrario della vita, non mi spaventava.
Paradossalmente, desideravo ciò che temevo di più e respingevo con tutte le mie forze ciò che consideravo una liberazione.
In quel momento nessuno mi guardava. Nonostante fossi bianca come i petali dei fiori del mughetto e sembrassi altrettanto delicata. Nessuno mi guardava non ostante puzzassi di muffa e i miei vestiti fossero macchiati di rosso scarlatto. Un rosso tanto intenso e unico, quello del sangue, che si ritrova solo nelle rose più rare e belle. Erano tutti troppo preoccupati a sperare di non essere scelti per notarmi.

"Timberly Whitewood"
Sentii dire. Nessuno oltre alla mia famiglia aveva mai pronunciato il mio nome. Alzai la testa verso l'uomo verde: i suoi occhi erano di uno strano colore innaturale e le sue ciglia tinte di un arancione intenso.
Tutti mi guardavano, tutti si erano girati verso la bizzarra ragazza che aveva vissuto probabilmente tutta la sua vita in una cantina.
Sapevo con certezza quello che pensava la gente di me. Sapevo che tutti si chiedevano se anche solo fossi mai potuta arrivare viva a Capitol City. Come poteva sopravvivere una ragazzina magra e dall'aspetto malaticcio a gli Hunger Games? come sarebbe anche solo potuta arrivare a compiere sedici anni?

Salii gli scalini tenendo perennemente lo sguardo fisso davanti a me, senza guardare niente in particolare.
L'uomo, che ormai non ero più tanto sicura fosse un uomo, con la parrucca verde mi prese una mano. Era calda e morbida, diversa dalle mani di mio fratello piene di calli e dalla perenne tensione dei nervi.
Da quell'altezza vedevo i volti delle ragazze che prima mi circondavano. Si erano stranamente illuminati di un sollievo che volevano nascondere a tutti i costi.
' siete felici che i vostri genitori per ora non debbano prepararvi il funerale? siete felici che L'uomo verde abbia scelto la povera pazza ragazzina ?'
Disse una voce nella mia testa che non riuscii a far stare zitta.
-" ed ecco a voi la ragazza dello scantinato! La misteriosa ragazza che ha voluto sfidare Capitol adesso lotterà per diventarne il precario simbolo."
Disse sempre l'uomo accanto a me.
-" e adesso vediamo chi sarà il fortunato Giovane uomo che parteciperà ai giochi."
Continuò usando un tono di voce fin troppo acuto e spavaldo per la situazione, risultando fuoriluogo e ridicolo. Esattamente come sembravano fuoriluogo e ridicoli i suoi vestiti color pastello in confronto a quelli da boscaiolo di ogni altra persona presente nel distretto.
Mia madre diceva che il nostro, il sette, era il distretto dei forti d'animo e dei coraggiosi, ma anche degli uomini orgogliosi e delle donne imprudenti. Ovunque ti girassi nel distretto sette, vedevi uomini e donne dalle possenti muscolature, dagli occhi seri e precisi e dalle mascelle tese in un perenne grugno di disapprovazione.
Ecco perché era strano vedere una come me, ecco perché risultavo tanto diversa da gli altri, ecco perché in quel momento mi sembrava che l'unica persona che mi potesse capire fosse l'uomo verde accanto a me.
Si avvicinò lentamente all'urna e ne estrasse un biglietto. Lo aprì con le unghie smaltate di arancione fluorescente e ne lesse il contenuto.
"Darcy OakHeart"
Disse. E subito notai la testa di un ragazzo alzarsi di scatto e puntare i suoi occhi neri ,come il bosco di notte, sull'uomo verde.
Mi sembrò eterno l'attimo che impiegò il ragazzo a salire sulla struttura in muratura e raggiungere il mio fianco.
Era l'unico ragazzo che vedevo da vicino che non fosse mio fratello e non potei fare altro che notare quanto fossero diversi.
-" perfetto. Adesso abbiamo entrambi i tributi del distretto sette. Timberly Whitewood e Darcy Oakheart. Coraggio datevi la mano...."
Il ragazzo si voltò verso di me e allungò la mano in modo brusco e deciso. Io esitai a stringerla, ma lentamente mi sforzai e sentii il calore di una stretta forte, la stretta di una persona che stringe il suo unico appiglio per evitare di precipitare nel vuoto.
-" E che la sorte possa essere sempre a vostro favore!"
Disse l'uomo verde in fine. Subito dopo sentii una mano inguantata stringermi il braccio e trascinarmi nell' edificio retrostante.

Le pareti della stanza erano completamente ricoperte con assi di quercia. Sopra di esse era stato passata in modo grossolano la vernice protettiva. I nodi nel legno sembravano volti disperati o occhi che ti scrutano l'anima.
Mi alzai dalla sedia imbottita e ricoperta da una stoffa di ciniglia rossa. Mi avvicinai all'unica finestra della stanza. Le persiane erano aperte e riuscivo a vedere l'esterno. Scostai le tende bianche con un gesto della mano. Tremava, tutto il mio corpo tremava. Ogni nervo del mio corpo era attraversato da spasmi: Forse per il freddo, forse per la debolezza o per la paura.....
No. No, io non avevo paura. Strinsi con tutte le mie forze i merletti che bordavano le candide tende. Rischiai di strappare la stoffa. Mollai la presa e feci ricadere in grembo le mani. Erano ruvide e graffiate, le unghie mangiate e spezzate...Alzai lo sguardo sul paesaggio: L'edificio era rialzato e si vedeva l'immensità dei boschi, I colori sgargianti delle folte chiome, le zone di radura più chiare....
Il mio sguardo si perse all'orizzonte. L'infinitá si sciolse nei colori azzurri del cielo e là, oltre il confine del distretto, dove il verde intenso degli alberi si unisce ai colori pastello del cielo, là ci sarebbe stata casa mia. Io sarei stata finalmente libera.
Dovevo solo partecipare agli Hunger Games, dovevo solo sopravvivere. Vincere e andarmene oltre i confini, là dove la gente pensa che vivano solo le bestie. Ma la verità è che è qui che vivono le bestie, Panem è il grande zoo e io sono un animale che non riesce più a vivere dietro le sbarre.
Ma forse era vero che non sapevo nulla del mondo.
-" Non Sapresti sopravvivere là fuori Timber!, non senza di me. Tu non sai nulla di com'è il mondo. Tu sarai la prima a morire, e guarda poi cosa hai fatto! Hai fatto uccidere i nostri genitori. proprio non riuscivi a reggerli un altro paio di anni vero? Ti dava così fastidio essere al sicuro?"
Disse mio fratello, quando mi venne a salutare. Era triste, anche se voleva sembrare arrabbiato, era soltanto immensamente disperato. Lui mi urlava contro e io ascoltavo ma non reagivo, nemmeno lo guardavo.
Vorrei averlo fatto perché ormai ero diventata apatica. Ma se c'era una persona sulla terra per cui provavo affetto, quella era mio fratello.
Non l'ho guardato, perché non riuscivo nemmeno a immaginare il dolore rinchiuso nei suoi occhi color nocciola. Non sarei mai riuscita a vederlo piangere.
Così lui aspettò un po' e poi uscì dalla stanza. Così, senza dirsi ciao, senza dirsi addio.
Non avrei mai più rivisto mio fratello, che vincessi o perdessi gli Hunger Games era uguale. Non avrei più avuto la fortuna di poter guardare il suo amore per me nei suoi occhi.

I miei pensieri furono interrotti dal rumore dei cardini della porta che si stava aprendo. Era un fastidioso cigolio, come lo stridore di un passero morente.
Da dietro la porta comparve una testa dai capelli castano chiaro, quasi biondo. Le ciocche erano spettinate sulla fronte del ragazzo, alcune raggiungevano gli occhi di quel colore così incredibilmente inesistente da far pensare che quel corpo fosse solo un involucro vuoto, il corpo di una bambola senz'anima. Invece l'anima l'aveva, era riflessa nel sorriso storto che in quel momento mi rivolgeva. Un sorriso imbarazzato e sincero.
-" non è venuto nessuno neanche da te?"
Chiese il ragazzo entrando nella stanza e chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
-" mio fratello."
Risposi in modo brusco e imbarazzante. Non sapevo come si parlasse alle persone.
-" bhe almeno tu una famiglia ce l'hai..."
Rispose lui in modo tranquillo.
-" sei...allegro!"
dissi, senza sapere bene se fosse una domanda.
-" e perché non dovrei esserlo! mi mancavano solo pochi mesi per scampare agli Hunger Games!"
Disse lui in modo sarcastico avvicinandosi sempre di più a me.
-" hai diciotto anni..."
Bisbigliai tra me e me.
-" e tu sei perspicace Timberly, complimenti!"
-" perché non è venuto nessuno a salutarti?"
Chiesi incuriosita dal motivo per cui un ragazzo come lui non avesse nessuno che lo amasse.
-" i miei genitori mi hanno abbandonato, o sono morti...non lo so, non li ho mai conosciuti. Mi ha cresciuto una vicina di casa che mi trovò sulla soglia della sua porta. Zia Maple è morta due settimane fa...e io ho venduto il mio nome per comprarle medicine che non le sono servite a nulla..."
Cominciò a raccontare appoggiandosi con la schiena al muro accanto alla finestra.
-" io non ho mai visto il sole, non davvero. Non ho mai sentito il vento sulla pelle, mai stata sotto la pioggia...."
Dissi io mentre fissavo la finestra, quasi assorta nei miei pensieri.
-" Bhe tranquilla, farò in modo che tu viva al meglio prima di morire."

Il treno scorreva silenzioso verso Capitol. Le immagini fuori dal finestrino scorrevano senza sosta. Ero seduta su una poltrona rivestita di una stoffa liscia e di un azzurro tenue. Stavo immobile a fissare l'esterno, come se le pareti mi sopprimessero e io avessi un continuo bisogno di stare all'aperto. Come se agognassi quella tanta attesa libertà ogni volta che mi ritrovavo rinchiusa in una stanza.
Di fronte a me era seduto Darcy. Era un nome elegante se pur facesse trapelare crudeltà nei suoni delle sue lettere. La D come il colpo di un'ascia sul legno, La R come il rumore della sega a mano usata per tagliare gli alberi, l'accostamento della C con la Y ricordava il suono del vento fra le foglie. Non che io avessi mai sentito bene almeno uno di questi suoni.
Ogni tanto mio fratello Morous mi portava nel boschetto dietro casa, alla sera, quando il cielo è tinto dal caldo arancione e l'aria comincia a pizzicare di freschezza. Mi faceva sedere su il ceppo di un vecchio albero, e mentre lavorava mi parlava di quanto fosse bello il bosco al mattino, di come si illuminano le foglie quando i teneri raggi le colpiscono, dell'odore della terra umida e dello scrocchiare delle foglie sotto ai passi che infrangono il silenzio.
Era così che sentivo i suoni. Sentivo i suoni che producevano gli attrezzi di mio fratello all'impatto con i tronchi degli alberi, sentivo la lieve brezza scuotere leggermente le foglie dei faggi. Ma ogni volta che rientravo nella mia gabbia, i suoni scomparivano, rimaneva solo il silenzio e nemmeno il ricordo di ciò che avevo sentito mi tranquillizzava. Odiavo il silenzio. Temevo il silenzio come temevo quel momento.
La porta che separava i vagoni si aprì, e il silenzio cessò. Il sollievo mi invase i polmoni sotto forma di un respiro profondo che trattenevo da troppo tempo.
Dalla porta entrò un uomo, non avrà avuto più di venticinque anni; portava i capelli lunghi e castani, quasi neri legati in un basso codino dietro la nuca. I suoi occhi erano particolarmente brillanti, verdi, come immaginavo potessero esserlo solo i germogli di un albero poco prima della primavera. Il volto era stanco e ricoperto da una corta barba scura lasciata crescere per noncuranza. I suoi vestiti parevano l'incrocio tra quelli dell'uomo verde e quelli di qualsiasi persona del distretto sette: stravaganti ma sobri.
Si sedette accanto a Darcy, ma nessuno parlò, nessuno si presentò.
-" Che dici Darcy, riuscirebbe a batterti?"
Il ragazzo conosceva Darcy Oakheart. Sembrava conoscerlo da tempo e sembrava che chiedesse informazioni su di me, che in quel momento li stavo guardando con gli occhi sgranati.
-" Non saprei, sembra magra e malaticcia, ma ha un non so che nello sguardo...come se fosse vuoto...e si sa che le persone vuote non hanno problemi ha uccidere."
Rispose Darcy tirandosi sù dalla posizione strabaccata con cui si era sistemato sulla poltrona di fronte alla mia.
-" Lo sai che non si vincono gli Hunger Games solo con gli occhi."
Rispose il ragazzo da gli occhi verdi girandosi verso l'amico e rivolgendogli un sorriso a metà tra il dubbioso, il dispiaciuto e il divertito.
-" Ah no? credevo fosse per quello che tu gli hai vinti invece!"
Rispose il ragazzo più giovane rispondendo all'altro con un sorriso identico, come se si fosse allenato anni per imitarlo al meglio.
-" Diciamo che lo considererò un complimento Darcy Oakheart!"
Rispose tornando a studiarmi con lo sguardo.
-" sono sicuro che ti batterebbe...con un po' di allenamento certo...ma ti batterebbe..."
Continuò.
-" potete smetterla di parlare di me come se non ci fossi?"
Chiesi stizzita sotto un incontrollabile impulso di farli tacere.
-" Scusami, io sono William Willow e sono il vostro mentore. Tu devi essere Timberly,Giusto? Bhe io e Darcy ci conosciamo da tempo ormai...ci siamo visti due settimane fa al funerale di Zia Maple no?"
Disse cominciando rivolgendosi a me e finendo tornando a rivolgersi a Darcy.
-"Già... Io e Will siamo praticamente fratelli...siamo cresciuti insieme, due case separate, ma pur sempre vicine."
Mi disse Darcy. In quel momento capii che probabilmente William, prima di diventare vincitore, abitava in una casa vicina a quella di Darcy e che così erano diventati amici.
-" Io...Io posso batterlo."
Dissi.
-" ottimo, almeno crede in se stessa."
Rispose il mentore ma rivolgendosi sempre all'amico, come se non riuscisse a rivolgersi direttamente a me.
-" è cresciuta in una cantina. È stata la sua prima mietitura. Ne ha scampate quattro...La vogliono morta, Capitol la vuole morta, anche se riuscisse a battermi non sopravviverebbe allo stratega."
Disse Darcy.
-" Allora faremo in modo che la gente tifi per lei e che gli sponsor le diano tutto il loro sostegno. Se il popolo la ama, Capitol non può ucciderla."
Disse William.
-" Non sarà facile farla piacere al pubblico... non ha mai interagito con nessuno che non fosse suo fratello... La gente la reputa folle..."
A quelle parole venni colta da una fitta al cuore. La gente mi reputava folle, pazza... e magari lo ero davvero. Abbassai lo sguardo sulle mani rovinate e poi sulle macchie di sangue sui pantaloni.
-" non devi preoccuparti di essere folle Timberly. In questo mondo se non lo sei già prima, lo diventi dopo aver partecipato a gli Hunger Games. Sempre che tu riesca a sopravvivere."
   
 
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