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Autore: ___Ace    27/01/2016    4 recensioni
«E’ come quando dite agli ebrei che è il momento di fare la doccia. Credi che siano un gregge di stupide pecore? Molti di loro sono insegnanti, commercianti, persone intelligenti, sanno che li mandate solo alla morte, prendendovi gioco di loro anche in quel frangente, solo che, dopo tutte le sofferenze subite, preferiscono obbedire fino alla fine. Una volta morti si è liberi, quella è la salvezza per loro.»
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non è facile.
 
 
Uno, due, tre…
Scavare le fosse, nonostante il clima invernale, il terreno duro come la pietra e le mani intirizzite per il freddo, non era difficile. Teneva impegnato il corpo, così si scaldava e faceva movimento; occupava la mente, con i numeri che si susseguivano per segnare i colpi di pala che si abbattevano sulla terra; rendeva gli uomini utili e quindi non bersagli a cui sparare.
Scavare andava bene, non si andava mai troppo a fondo e non si arrivava sfiniti a cena.
Trentadue, trentatré, trentaquattro…
Il difficile era contare la miriade di corpi che ci finivano dentro, ormai inutili, spogliati di ogni cosa, privi persino dell’anima. Erano sempre più numerosi e le buche diventavano ogni giorno più grandi, ma il delirio non smetteva. Continuava senza sosta, costringendo gli uomini a sotterrare i propri compagni senza fiatare, potendo solo recitare silenziosamente qualche preghiera, non sapendo se ai defunti sarebbe servita o meno, ma era tutto ciò che era loro concesso.
Law odiava con tutto se stesso scavare, per quel motivo, alla prima occasione, aveva strillato, in un tedesco striminzito, che era un dottore e che avrebbe potuto ricucire lui il braccio di uno di quei nazisti bastardi tornati dal fronte.
Gli avevano quasi piantato una pallottola in testa, quegli stronzi, credendo che stesse cercando di ribellarsi o di lanciare loro qualche maleficio, da superstiziosi quali erano, ma alla fine, per grazia Divina, qualcuno lo aveva capito e, tradotte le sue parole, era stato portato di peso in un capanno spoglio, munito solo di un paio di brande e qualche cosa utile per effettuare un intervento d’emergenza. Niente che avrebbe comunque garantito la salvezza, ma era di un tedesco, un prescelto, una razza superiore, che si stava parlando, perciò aveva dovuto compiere un miracolo, o nella fossa i suoi compagni avrebbero contato pure il suo corpo quel giorno.
Ad ogni modo, era diventato un Santo e, se non fosse stato un ebreo, i nazisti lo avrebbero di certo sollevato in braccio per festeggiarlo, invece si erano limitati a non freddarlo sul posto, promuovendolo a medico del campo, il giusto ringraziamento per aver salvato il braccio ad una delle loro migliori reclute.
La cosa buffa era che, secondo la schietta e selettiva visione di Law, quello a cui aveva rattoppato buona parte del corpo era ciò che la natura non avrebbe mai dovuto mettere al mondo.
Se aveva vegliato sulla salute del Capitano Eustass Kidd, era stato solo perché lo avevano costretto e, se il diretto interessato non era morto per soffocamento nel sonno, era stato unicamente perché a Law premeva uscire da quell’inferno vivo e vegeto.
Bisognava dire, inoltre, che la sua pazienza era stata messa a dura prova dal soldato, un energumeno di novanta e passa kili, tutto muscoli e niente cervello in quella testa piena di ciuffi rossi, il colore dei figli del Demonio. I nazisti non lo avevano rinchiuso con l’accusa di stregoneria solo perché, dai suoi documenti, risultava che era di sangue puro, ma a Law non fregava un cazzo di quelle stronzate burocratiche e della questione di persone degne o meno di stare al mondo. Per lui quelli che dovevano morire sotto atroci sofferenze erano quei malati che si consideravano migliori di altri solo perché venivano da paesi differenti, o per il colore della pelle, o addirittura per il loro Credo.
Alla fine, sarebbero morti tutti, per un motivo o per un altro, quindi non erano migliori in niente.
Eppure, nonostante l’odio, il rancore, il dolore per la perdita di molti, troppi amici, da un paio di anni continuava a mandare giù bocconi amari, annullandosi totalmente e curando ogni persona che passava per l’infermeria.
I primi mesi erano stati duri, tanto che era arrivato quasi al suicidio, puntandosi una pistola alla tempia, ma sul più bello era stato chiamato per un’emergenza e, se non si fosse trattato di un ebreo malato, avrebbe sparato alla guardia nazista e poi a se stesso.
Ringraziava ogni giorno il Cielo per la piccola fortuna che gli era stata concessa.
Il ragazzo che aveva curato, un leggero raffreddore, era un giovane arrivato da poco al campo, ancora in forze e pieno di energie, quindi valido per lavorare. Quando erano rimasti soli gli aveva spiegato che si era fatto catturare di proposito per permettere ai più giovani di fuggire, collaborando con alcuni volontari che stavano fuori per mettere in atto una serie di sparizioni un paio di volte al mese, facendo passare i fuggitivi per alcuni tunnel specifici costruiti sotto al campo. Ovviamente, Law gli aveva assicurato tutta la sua disponibilità e, se mai lo avessero beccato, avrebbe negato fino alla morte per proteggerli.
Quella era diventata la sua missione ed era l’unico motivo che lo faceva andare avanti, stringendo i denti, consapevole che, anche se salvava la vita al nemico, contemporaneamente lo fotteva di brutto.
Così, col passare del tempo, l’inverno era diventato estate e poi di nuovo inverno, e il tempo scorreva senza che nessuno se ne accorgesse o senza che qualcosa cambiasse. Vivevano tutti la solita routine: sveglia, appello, la vittima di turno, lavoro, piccola pausa, di nuovo lavoro, infine a dormire. Qualcuno non si sarebbe più svegliato, qualcuno avrebbe tentato invano di andarsene, altri, invece, si sarebbero arresi all’inevitabile, ovvero un’altra giornata orrenda.
Era stato bravo, Law, a resistere due anni. Certo, aveva avuto le sue gatte da pelare, come, ad esempio, i dispetti, le angherie, le botte, gli insulti, ma, alla fine, aveva vinto lui in qualche modo e solo grazie ai suoi studi e al suo sapere. Un nazista stava male? Chiamavano lui. Qualcuno si era beccato un coltello sulla carne da un detenuto? Ci pensava lui. Malattia? Curava tutto lui. Ormai a nessun tedesco faceva più schifo essere toccato da mani ebree e, sempre più spesso, non era nemmeno costretto ad usare i guanti. La maggior parte delle volte gli assicuravano che non serviva, che doveva solo sbrigarsi a far passare il dolore.
E lui eseguiva, anche se avrebbe di gran lunga preferito dare sfogo alla sua vena sadica e sbudellare più di qualche soldato.
«Trafalgar!»
Soprattutto uno.
Si girò con uno sguardo glaciale, fissando immediatamente il nazista sulla porta che bloccava il passaggio con la sua stazza. Ricordava benissimo che, durante la convalescenza, aveva perso un paio di kili, ma, a distanza di anni, li aveva ripresi tutti, con gli interessi pure.
«Cosa vuoi, Eustass-ya? Ti sei di nuovo fatto la bua?»
«Portami rispetto o quell’ago lo uso per cucirti la bocca.» lo minacciò il soldato, entrando nella saletta dove Law operava i casi gravi, ovvero lontano da occhi indiscreti e facilmente impressionabili.
Il dottore guardò l’uomo appena arrivato con palese divertimento. Il rispetto da lui non lo avrebbero mai avuto, specie quando veniva trattato come uno inferiore, come spesso l’uomo in questione si divertiva a fare. Tra tutti i carnefici in quel campo, lui era l’unico che si pentiva amaramente di aver salvato.
«Sempre se non perdi il braccio.» sibilò Law, malevolo. Adorava infierire con quella storia, ricordando al rosso Capitano della guardia quanto fosse andato vicino all’amputazione, quella volta di due anni fa.
Eustass si ritrovò, come gli succedeva da quando aveva incontrato quel bastardo, a dover reprimere l’istinto animale che gli diceva di mandare tutti a farsi fottere e sparargli a sangue freddo per farlo finalmente stare zitto. E, mano a mano che il tempo passava, faceva sempre più fatica a controllarsi.
«Vedi di riposarti.» grugnì infine, svelando il motivo di quella visita non di cortesia. «Stasera fai il turno di notte.»
«Se ti preme così tanto andrò a fare il riposino.» rispose di getto Law, sfarfallando le ciglia e sogghignando malizioso come una sgualdrina di primo ordine. Non che lo fosse, per sua fortuna, e per sfortuna di altri, soddisfare e divertire gli ufficiali non era compito suo. Semplicemente, gli piaceva punzecchiare la precaria pazienza del rosso, il quale gli lanciò un’ultima occhiata omicida prima di uscire dalla stanza per tornarsene in servizio.
Non sopportava il Capitano Eustass, davvero, ma apprezzava il fatto che non temesse di dire apertamente quello che pensava su svariati temi. La maggior parte delle volte si trattava di insulti rivolti verso il prossimo, verso di lui in particolare, ma non lo giudicava male per quello. Dopotutto, lui per primo sputava sentenze contro la fazione dei nazisti, quindi non era nessuno per giudicare chi aveva solamente voglia di sfogarsi, urlando dietro alla gente dalla mattina alla sera. In quello, Eustass era un vero portento.
Di lui, in sintesi, gli piacevano solo i lunghi battibecchi che intrattenevano, a volte anche per un paio d’ore, in infermeria, quando qualche coglione, buono o cattivo che fosse, si faceva male e il rosso accompagnava da lui, giusto per passare il tempo e tenere allenata la mente con improperi degni di essere citati nei secoli a venire.
Era una catena di insulti gratuiti, minacce a vuoto e maledizioni che divertivano Law e gli facevano dimenticare di avere a che fare con un emerito stronzo. In quei momenti gli pareva quasi di essere in piazza a parlare animatamente con un amico e non con uno che, alla prima occasione, avrebbe potuto ucciderlo senza dare spiegazioni a nessuno.
Perciò ci conviveva, o meglio, si costringeva ad andare avanti senza sgarrare per non rimetterci la pelle e, finché avrebbe funzionato, lui ci avrebbe convissuto senza lamentarsi troppo dato che, senza cambiamenti drastici all’esterno, capaci di capovolgere l’intera mentalità sbagliata di quel periodo, non sarebbe servito a nulla.
 
*
 
Erano circa le dieci di sera e Law si stava sciacquando le mani per lavare via il sangue secco che era rimasto appiccicato ai polsi, fissando il lavandino e muovendosi automaticamente, come se i gesti fossero diventati uno schema rifatto mille e più volte.
Apriva l’acqua corrente, si strofinava la pelle fino ad arrossarla, fissava il lavandino come in trance, chiudeva il rubinetto e si asciugava con un panno grigio. Il tutto durava pochi minuti, ma per il dottore erano una specie di pausa di stallo tra una visita e l’altra che gli permettevano di spegnere il cervello e non pensare a nulla.
Il paziente di prima era arrivato già morto, come spesso e volentieri succedeva. Perché si ostinassero a mandargli gente già trapassata anziché seppellirla direttamente proprio non lo capiva, forse per ricordargli di non fare cavolate, ma potevano risparmiarsi il disturbo. Aveva troppo da perdere per ribellarsi.
Il poveraccio lo avevano portato via da poco, con varie ferite da taglio e il collo spezzato. Come le persone potessero trovare eccitante un corpo morto, proprio non lo capiva, ma non stava a lui fare domande o informarsi, doveva solo fare il suo lavoro e basta.
Si stupì quando trovò una sua conoscenza ad attenderlo per essere visitata.
«Ace?»
«Ehi, Law. Come stai?» chiese allegramente un giovane dai capelli corvini e lunghi ormai fino alle spalle. Non avrebbero durato per molti altri giorni e presto glieli avrebbero tagliati per paura dei pidocchi, poco ma sicuro. Ciò che però stonava non era l’acconciatura, ma il brutto livido sullo zigomo, talmente grosso da sembrare un’insegna.
«Quello cos’è?» chiese atono, calandosi di nuovo nei panni del dottore e iniziando a girare il viso del ragazzo da una parte all’altra per osservare meglio la ferita.
«Solo una botta.» rispose l’altro con un’alzata di spalle.
«E’ un taglio.» gli fece notare allora, sospirando rassegnato e prendendo l’occorrente per disinfettarlo. «Ancora lui?» chiese poi, senza guardare in faccia Ace, il quale sorrise amaramente.
«Già.» ammise, «Ma è stata colpa mia, davvero!» aggiunse subito dopo, anche se sapeva che era inutile tentare di spiegare al medico il suo malato punto di vista.
«Come le costole incrinate e  l’occhio pesto?» ironizzò per l’appunto Law, iniziando a curare quel taglio che, anche se superficiale, andava trattato subito. I colpi dati con i fucili causavano spesso ferite di quel tipo e ormai ne aveva viste a centinaia.
«Te l’ho detto, è tutto di facciata.» borbottò il ragazzo, lamentandosi per il bruciore sulla pelle.
«Certo, e quella macchia rossa sotto la clavicola?»
Ace impallidì e si affrettò a chiudere i lacci del colletto della camicia per coprire il petto. Meno persone vedevano quella macchia, meglio era. «Allergia.» mentì spudoratamente.
Law sogghignò, da bravo bastardo. «Ha marcato il territorio, a quanto pare.»
«Vaffanculo Law.» cantilenò il suo paziente, sorridendogli con finto affetto prima di raccontargli l’ennesima orrenda serata.
Si era esposto troppo per difendere una ragazza che stava per essere violentata, anche se le donne presenti nelle baracche erano consenzienti e si concedevano per restare in vita e per pochi spiccioli. Ad ogni modo, ad Ace non era andato giù il comportamento di uno dei soldati e non era rimasto zitto a servire da bere, come Law gli intimava sempre, e si era adoperato per dare inizio ad una baruffa che avrebbe visto solo la sua morte. Fortunatamente, a detta sua, era intervenuto un ufficiale che, colpendolo con la base del fucile, lo aveva mezzo tramortito, sedando la rissa e calmando gli animi.
«E’ stato costretto.» stava dicendo il corvino. «Mi avrebbero sparato, altrimenti.»
Law finì di riporre il disinfettante e le garze, voltandosi a guardare il suo unico amico con le braccia strette al petto. Il ragazzo guardava a terra, dondolando i piedi, seduto sulla brandina, coperto solo con qualche straccio raccattato da qualche cadavere. Sembrava stanco ed era molto più magro e meno in forze di quando era arrivato.
«Ace, come fai a sopportarlo?» gli chiese, sinceramente curioso. Se lo era sempre chiesto dopotutto. «Come puoi… volergli bene?»
Ace lo guardò con i suoi occhi grandi nei quali si poteva sempre notare una scintilla di vita, qualcosa che ti faceva credere che ci fosse ancora del buono nel mondo, qualcosa che vedevi solo negli occhi di un bambino troppo buono ed innocente. «Tu come sopporti Eustass?»
«Io non lo sopporto, infatti.» rispose di getto Law, senza riflettere, anche se la domanda gli fece attorcigliare le budella e venire il magone. Aveva capito dove voleva andare a parare Ace, ma non aveva la minima intenzione di psicanalizzare le sue sensazioni a riguardo.
«Sai, Marco mi salva la vita ogni giorno. Se non mi attaccasse, gli altri semplicemente mi sparerebbero. Lui invece non lo fa.»
«Si limita ad usarti come valvola di sfogo.» volle fargli notate il dottore, ancora poco convinto di quella storia.
«Di certo non può andare in giro a dire a tutti che stiamo assieme!»
«Senti Ace, io ci tengo a te, ma sei uno stupido.» fece pacatamente Law, come se stesse parlando ad un moccioso. «Non me ne frega niente se fate sesso o vi frequentate in gran segreto. Ciò che mi da fastidio è che tu sia un pazzo masochista che si fa pestare come se valesse meno di un sacco di patate. Non puoi annullarti fino a questo punto. Non ce l’hai un briciolo di autostima?»
«Non è facile, sai?» sussurrò Ace, torturandosi le labbra screpolate con i denti. «Me lo ripete spesso anche lui. Non vuole che mi esponga fino a questi livelli, ma è più forte di me. Se so che c’é la possibilità di aiutare qualcuno in questo campo, mi sacrifico più che volentieri. E non credere che mi piaccia farmi picchiare da lui, anzi, ma so che potrebbe andarmi peggio. Nemmeno per Marco è semplice, puoi starne certo.»
Law, su ciò, aveva i suoi dubbi, ma non poteva negare che quell’ufficiale provasse un minimo di interesse nei confronti di Ace. Dopotutto, avrebbe potuto ucciderlo, invece continuava a proteggerlo, a modo suo, s’intende, ma era pur qualcosa che contava con i tempi che correvano.
Una volta aveva assistito alla scena, se la ricordava benissimo: Ace aveva attraversato il campo dove stava lavorando, mollando la zappa per soccorrere un vecchio che si era accasciato al suolo, stremato, e, quando Marco era tempestivamente intervenuto per trattenerlo mentre uno dei soldati si apprestava a mettere fine alle sofferenze dell’uomo, Ace lo aveva colpito apertamente, davanti a tutti.
C’era stato un momento in cui non si era mosso più nessuno ed era calato il silenzio. In quell’atimo, Law aveva seriamente creduto di veder morire due persone a distanza di pochi attimi.
Grazie al Cielo, Marco aveva reagito quasi subito, precedendo un suo compagno ed evitando ad Ace una pallottola nel cranio, ma non risparmiandogli una serie di pugni e colpi che lo avevano steso ugualmente al suolo, in condizioni pietose.
Era stato straziante vederli l’uno contro l’altro, conoscendo cosa nascondevano e cosa li rendeva complici la notte, oltre alla buona azione di far fuggire i più fortunati di tanto in tanto.
Ace aveva tenuto gli occhi serrati tutto il tempo e non aveva reagito, mentre la faccia di Marco era stata il ritratto della pura disperazione. Pareva voler essere ovunque, fuori che lì, in quel campo, a sporcarsi le mani del sangue di un detenuto a cui, ironia della sorte, si era affezionato contro ogni regola.
Almeno c’era stato quell’impiastro di Eustass Kidd che lo aveva afferrato e sbattuto contro la parete prima che provasse a correre verso Ace per aiutarlo, altrimenti non aveva proprio idea di cosa sarebbe successo se si fosse messo in mezzo.
Alla fine sospirò, consapevole che Ace non avrebbe smesso di cacciarsi nei guai. Sperava solo che fosse abbastanza intelligente da sapersi controllare e che Marco fosse altrettanto bravo a non farlo ammazzare.
«Qualsiasi cosa ci sia tra voi, non farti fottere, d’accordo?» disse, facendogli cenno di alzarsi e di andarsene a dormire.
«Non capisco se è un doppio senso o un modo contorto per dirmi di stare attento.» rifletté ad alta voce Ace, sorridendogli amichevolmente prima di uscire dall’infermeria e farsi riaccompagnare al dormitorio dal secondino di turno che, guarda caso, aveva una zazzera di capelli biondi come quelli del tanto nominato Marco.
Finse di non notare le dita dell’ufficiale che sfiorarono lo zigomo ferito in un silenzioso tentativo di scuse e se ne tornò a lavoro, sperando che nessun altro si cacciasse nei guai per quella sera.
 
*
 
Faceva freddo quella notte, più freddo del solito nella sua camera spoglia e grigia, senza nessuna luce ad illuminarla. Le candele si erano consumate e l’alba era ancora lontana di almeno un paio d’ore durante le quali, sicuramente, non avrebbe preso sonno.
Le orecchie fischiavano ancora per il rumore degli spari e delle grida; le mani avevano ancora il sangue rappreso, così come i vestiti; il viso era sporco di terra e polvere e c’erano alcuni graffi sulla guancia che era stata premuta sul terreno quando lo avevano immobilizzato; gli occhi erano secchi, senza più una lacrima, anche se sapeva che avrebbe pianto ancora, era solo questione di tempo.
Perché Ace era morto. Davanti a lui. Un attimo prima lo aveva guardato respirare e l’attimo dopo aveva smesso.
Era stata una giornata infernale, dall’inizio alla fine. Lo avevano buttato giù dal letto, o meglio, Eustass lo aveva svegliato senza grazia, urlandogli addosso che alcuni uomini erano da ricucire perché tornati dal fronte, e da lì in avanti era tutto andato peggiorando. Non aveva pranzato, aveva visitato un sacco di pazienti e decretato che circa cinque suoi consanguinei erano malati gravemente, perciò considerati inutili. Si era sentito uno schifo per averli praticamente resi ancora più dei bersagli che era a malapena arrivato a sera con la mente ancora intatta e lucida.
Poi c’erano state le urla fuori e a poco era servito correre in cortile per poter fare qualcosa.
Aveva visto Ace con un pugnale in mano e il corpo di un nazista ai suoi piedi senza vita e aveva capito che non ci sarebbe stato nulla da fare, che nemmeno Marco lo avrebbe potuto proteggere, quella volta.
Come ad averlo chiamato, l’ufficiale in questione si era fatto avanti, l’aria impassibile e fredda, con un’espressione tra il funereo, l’arrabbiato e, per l’ennesima volta, il disperato. Si era fermato a pochi passi dal ragazzo e, dopo uno scambio di sguardi fugace, aveva alzato il braccio con in mano una pistola e gli aveva sparato. Due volte.
E Law  aveva superato il limite che in due anni non aveva mai raggiunto.
Era riuscito a raggiungere il corpo di Ace senza beccarsi nemmeno una pallottola, sollevandogli il busto da terra e chiamandolo a gran voce, non rendendosi nemmeno conto di aver iniziato a piangere. Lui, che di lacrime non ne versava mai, nemmeno una piccola, piccola, giusto per sentirsi un po’ più umano quando qualche ebreo con una triste storia moriva. Era di Ace, però, che si trattava, dell’unica persona amica che aveva trovato lì dentro, di quella che gli aveva dato uno scopo per andare avanti, aiutando, quando poteva, gli ebrei a fuggire. Ace, quel giovane eroe che aveva sempre sorriso da quando era arrivato, anche dopo le frustate e le umiliazioni, anche dopo che gli avevano tatuato addosso un numero qualsiasi che non aveva mai pronunciato bene, solo per ripicca.
Ace, che aveva continuato a sanguinare e che non gli avevano permesso di aiutare e salvare, trascinandolo via e sbattendolo nella sua stanza, chiudendolo dentro a chiave e lasciandolo da solo a urlare e a battere i pugni sulla porta, sgolandosi per farsi sentire da tutti quanto li odiasse, quanto meritavano di andare tutti all’inferno, quando fossero peggiori di qualsiasi bestia esistente sulla terra.
Poi aveva perso le forze, era sceso il buio e si era raggomitolato in un angolo, con una logora coperta sulle spalle a fissare il vuoto, aspettando che qualcuno andasse ad uccidere anche lui.
Fu lo scatto della serratura a fargli rendere conto che era arrivato qualcuno, anche se non si scompose per alzare il capo e vedere a chi avessero dato l’ordine di eliminarlo. Notò solo un paio di anfibi avvicinarsi dopo che la porta venne richiusa e rimase ad attendere che il tizio gli puntasse la pistola alla testa.
Si irritò parecchio quando non successe nulla e non era il caso di dargli altri motivi per incazzarsi, altrimenti l’omicidio lo avrebbe compiuto lui.
«Non perdiamo tempo e facciamola finita.» sentenziò glaciale, stringendo i pugni quando non ottenne alcuna reazione. Aspettò qualche altro secondo e, quando gli fu chiaro che il bastardo lo stava prendendo per il culo, si alzò di scatto, lasciandosi contro il soldato, sperando che un’aggressione lo avrebbe costretto ad aprire il fuoco.
Invece si ritrovò con il corpo schiacciato contro la parete e la faccia di Eustass Kidd a pochi centimetri dalla sua.
Non sapeva se mettersi a ridere o maledire il Cielo. «Proprio tu dovevi capitarmi, figlio di puttana.»
Era fastidioso ammetterlo, ma aveva sempre sperato di non doversi mai trovare a dover affrontare quell’idiota dai capelli rossi. Primo, perché sapeva benissimo che, in quanto a statura e fisicità, lui era nettamente in svantaggio; secondo motivo e di gran lunga più insidioso, era la ragione sulla quale non voleva mettersi a riflettere per trovare una determinata risposta. forse, però, era arrivato il momento di affrontarla una volta per tutte.
Sapeva di per certo di odiarlo, ma davvero tanto, anzi, era un miracolo se non lo aveva già ucciso. Non avevano niente in comune e non voleva avere nulla a che fare con quello stronzo, già erano abbastanza le volte in cui lo vedeva per motivi lavorativi. Non lo riteneva nemmeno tanto intelligente da essere una piacevole compagnia con cui chiacchierare del più e del meno, anche se di voglia di dare aria alla bocca per niente non ne aveva mai avuta. Era egoista, borioso, fastidioso, ignorante, presuntuoso e violento, senza nessun pregio che potesse spingerlo a renderlo interessante.
C’era, comunque, qualcosa che continuava a tenerlo legato a quell’energumeno senza principio e morale che ancora non era riuscito a definire. Forse era la sua insana attrazione per l’orrido, come i cadaveri, o il suo dovere da salvatore di vite umane. Forse la sua missione era far tornare lucido quel decerebrato.
Kidd lo guardava con un misto di fastidio e indecisione, non allentando la presa sulle braccia e tenendolo premuto contro il muro, facendo scricchiolare le ossa del troppo magro dottore.
«Mi spari o mi dai un addio romantico prima?» lo sfotté Law, accompagnando la frase sarcastica con una smorfia di dolore.
Il rosso strinse di più la presa. «Non farmi fare cazzate prima del previsto, Trafalgar.»
«Avanti, Eustass-ya, un colpo qui.» spiegò il moro, indicandosi la testa, «E finirà tutto.»
Inaspettatamente, il Capitano lo lasciò andare, guardandolo accasciarsi al suolo per la sorpresa, dato che Law aveva persino smesso di reggersi in piedi con le proprie gambe. «Per quanto mi piacerebbe, non sono qui per farti fuori.» disse Kidd, ghignando spavaldo e godendosi lo stupore sul viso di Law che, sbigottito, rimaneva per la prima volta senza nulla da dire.
Recuperò presto, troppo presto per i gusti di Kidd, il suo caratteraccio.
«E quindi cosa cazzo vuoi, di grazia?»
«Abbassa i toni, infermiere.»
«Eustass-ya, bada che come ti ho ricucito il braccio posso anche strappartelo.»
«Come se potessi davvero… ehi, fermo! Che cazzo fai?»
Law aveva approfittato del fatto che Kidd gli avesse voltato le spalle per saltargli addosso, passandogli un braccio attorno al collo per soffocarlo, mentre con le gambe cercava di fargli perdere l’equilibrio. Cosa gli fosse saltato in mente non lo sapeva e si stava dando del pazzo suicida, ma la situazione si capovolse a suo vantaggio quando riuscì a far ruzzolare a terra il rosso, piazzandosi sopra di lui e continuando a stringere alla base della gola con tutte e due le mani.
Aveva seriamente intenzione di soffocarlo e si stava impegnando, ma la voce calma, quasi annoiata di Kidd che gli domandava per quanto ancora sarebbe andato avanti, lo fece incazzare talmente tanto da distrarsi e non accorgersi che il bastardo gli aveva afferrato i polsi in una morsa ferrea, ribaltando le posizione con un colpo di reni e facendolo così diventare un tutt’uno col pavimento.
«Sei stato coraggioso, te lo concedo.» ghignò Kidd, coprendo la bocca di Law con una mano per evitare che qualcuno sentisse i suoi coloriti insulti. «Ora stammi a sentire: fuori ci sono alcuni dei miei uomini fidati che stanno facendo evadere i prigionieri.» sussurrò a bassa voce, guardando il medico negli occhi per assicurarsi di avere la sua completa attenzione, notando per la prima volta che non erano grigi come li aveva sempre creduti, ma azzurri. «Ti porterò da loro e, una volta attraversato il tunnel, ti ritroverai fuori. Degli americani vi aspettano per mettervi al sicuro prima di attaccare il campo.»
Law lo fissò, incapace di reagire, per una manciata di minuti, il tempo che Kidd impiegò per decidere di togliere la mano e lasciarlo libero di respirare e assimilare l’informazione.
«Tu come sai dei tunnel?» domandò infine il moro, in un sussurro.
«Lo so da prima che tu mi mettessi le tue zampacce addosso.» rispose burbero l’altro, guardandolo storto. «Cosa credi, che sia così coglione da non capire che tutto questo è pura follia?»
Law non sapeva se restare immobile senza esprimere nulla o se dar vita al sorriso che sentiva premere insistentemente sulle labbra per essere rilasciato. Optò infine per una mezza via, sogghignando come faceva di solito e punzecchiando l’ufficiale.
«In effetti si, ti credevo, e ti credo tutt’ora, un coglione.»
Kidd lo guardò minaccioso. «Non farmi pentire subito di aver deciso di salvarti il culo, Trafalgar.»
«Sei stato molto nobile, te lo concedo, Eustass-ya.» lo citò Law, muovendosi per alzarsi, visto che Kidd si era spostato per dargli modo di rimettersi in piedi e seguirlo fuori.
«Tutto qui?» disse ad un tratto il rosso, fermandolo prima di uscire dalla stanza. «Io ti dico che sei ad un passo dalla salvezza e tu mi credi senza nessun dubbio?»
Law lo osservò per un istante, prima di rispondere. «E’ come quando dite agli ebrei che è il momento di fare la doccia. Credi che siano un gregge di stupide pecore? Molti di loro sono insegnanti, commercianti, persone intelligenti, sanno che li mandate solo alla morte, prendendovi gioco di loro anche in quel frangente, solo che, dopo tutte le sofferenze subite, preferiscono obbedire fino alla fine. Una volta morti si è liberi, quella è la salvezza per loro.»
Kidd rimase in silenzio, non sapendo come ribattere, sentendosi solamente in colpa come gli succedeva da anni, più precisamente da quando si era arruolato, convinto di essere dalla parte del giusto, quando, dopo appena un paio di giorni di servizio, si era reso conto che la realtà era ben diversa da come gliel’avevano raccontata. Non aveva mai smesso di sentirsi una merda per quello che era costretto a fare, ma da quando aveva deciso di aiutare quelle persone uguali a lui, si era sentito un pochino meglio e voleva dimostrare a quel sapientone di Trafalgar che lui non era uno dei cattivi e che meritava, seppur in una minima parte, il rispetto che sempre gli aveva chiesto di portargli.
«C’è davvero una via di fuga. Per te.» mormorò, privo di quella solita acidità che lo caratterizzava.
«Lo so. Ti credo.» asserì Law.
E, sorprendentemente, ne era convinto.
 
*
 
Gli americani erano dei cazzoni. Era quella l’idea che gli avevano dato ad una prima occhiata.
Tutti portavano armi anche dentro le mutande, sfoggiando le divise immacolate e sbraitando ordini a destra e a manca ai loro sottoposti, mentre tiravano fuori uno ad uno quelli come me dal tunnel, portandoli in salvo e mettendoli al sicuro come meglio potevano.
Una volta fuori, avevano spintonato Law fino ad un furgoncino in moto, chiedendogli i dati anagrafici e curiosando se gli era rimasto qualche parente o conoscente che avrebbero potuto cercare di rintracciare.
No, erano morti tutti, quella era stata la sua risposta schietta, zittendoli con quel tono gelido. Li aveva disturbati solo con una richiesta, ovvero che, se l’avessero trovato in vita, non uccidessero il Capitano Eustass Kidd, spigando brevemente che da tempo erano d’accordo per far passare i prigionieri del campo dai vari tunnel, nel tentativo di salvarli.
«Oh, quindi sei tu il medico che supporta Ace.» aveva detto un tizio castano con una cicatrice sotto all’occhio ad un tratto, dopo averlo ascoltato.
A Law gli si era rivotato lo stomaco. «Supportavo.» lo corresse. Forse non avevano avuto la notizia che il loro compagno li aveva lasciati il giorno prima. Se solo avessero mosso il culo in anticipo, a quell’ora sarebbe stato li con lui a sorridere.
L’uomo alto si accigliò, guardandolo stranito. «Che dici? Ace è vivo. Sta in infermeria e sembra uno scolapasta, ma poteva andargli peggio.» fece in tempo a chiarire, prima di venire richiamato da uno dei suoi superiori, scusandosi e lasciandolo lì, con la bocca aperta e l’aria stravolta di chi ha appena passato l’inferno, arrivando al capolinea.
Non ce l’aveva più fatta e, dopo due anni di sentimenti repressi, si era lasciato andare, permettendosi di essere lui la vittima almeno per una volta e perdendo i sensi in mezzo al campo americano improvvisato.
 
*
 
Dopo la guerra era stata dura rimettere in piedi quella che era stata un tempo la sua vita ed era stato altrettanto difficile per il resto del mondo, ma, si sapeva, il tempo curava qualsiasi ferita e, alla fine, aveva ritrovato un equilibrio stabile, aprendo uno studio medico e facendo quello che aveva sempre fatto e che lo faceva sentire in qualche modo utile alla comunità.
Ogni tanto guardava la piccola medaglia che gli avevano assegnato per essersi impegnato nell’aiutare come poteva gli ebrei nel campo di concentramento, così come avevano ringraziato il suo amico miracolato Ace e altri ufficiali coinvolti in quell’opera. Persino alcuni ufficiali tedeschi erano stati graziati per avervi partecipato.
di tutti quelli che conosceva aveva mantenuto i contatti solo con Ace, che vedeva di tanto in tanto assieme a Marco che, a distanza di anni, ancora insisteva nel voler espiare le sue colpe e farsi perdonare per tutte le volte che era stato obbligato a infierire su Ace. Si era offerto persino di fargli da psicologo, quando proprio il biondo aveva raggiunto il limite ed era stato costruttivo per entrambi: Law lo odiava di meno e Marco si accettava un pochino di più.
Eustass Kidd, invece, lo aveva perso di vista e l’ultimo ricordo che gli era rimasto di lui erano i suoi capelli che uscivano dall’aula del tribunale quando aveva partecipato al processo dei vari ufficiali, testimoniando a favore suo e di Marco e risparmiandogli una vita in carcere.
Non lo aveva seguito, quel giorno di cinque anni prima e non sapeva se, tornando indietro, avrebbe agito diversamente. Non aveva più importanza, dato che era riuscito a rintracciarlo un paio di mesi prima, decidendo di fargli una visita di cortesia, giusto per ricordare i bei vecchi tempi, quando erano solo loro due in compagnia di una bottiglia di liquore e tanta fantasia da permettere loro di insultarsi tranquillamente per tutta la notte.
«Ho fatto davvero un ottimo lavoro col tuo braccio, Eustass-ya.»
Kidd alzò di scatto la testa che sbatté violentemente contro il bordo in legno del bancone situato al centro del locale che aveva aperto, una piccola bettola abbastanza economica dove chiunque poteva entrare e servirsi senza preoccuparsi di essere giudicato.
«Dottore del mio cazzo!» sbraitò, massaggiandosi la fronte inviperito e con un diavolo per capello, mentre il ghigno di Law si ingrandiva. «Sei ancora vivo?»
«E tu sei ancora tutto intero.»
«Beh, che ti aspettavi?» sbottò il rosso, prendendo un paio di bicchieri e poggiandoli sul banco, stappando poi una bottiglia di qualcosa, riempiendoli.
«Mah, un occhio di vetro, una gamba di legno, un moncherino, cose così.» fece Law, accomodandosi sullo sgabello di fronte a lui e appropriandosi di un bicchiere.
Kidd alzò il suo per brindare, sorridendo borioso. «Felice di non aver perso pezzi per strada, Trafalgar.»
Il moro lo imitò. «Lieto di essere ancora al mondo, Eustass-ya.»
I vetri cozzarono e poi i due bevvero di schiena, osservandosi attentamente e notando i vari cambiamenti avvenuti in entrambi durante quel lasso di tempo durante il quale si erano chiesti ogni giorno come sarebbe andata a finire se le cose fossero state diverse; se si fossero incontrati altrove e non in un campo di sterminio; se non ci fossero state differenze e se fossero stati liberi di scegliere.
Poi la bottiglia fu messa da parte e le labbra di Kidd trovarono quelle di Law per la prima volta, lentamente e senza fretta.
A differenza di altri, avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per ricominciare, leccandosi le ferite.
 
 
 
 
Per non dimenticare.
  
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