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Autore: Nemainn    30/01/2016    6 recensioni
Donna, strega, regina.
Aislin è la sovrana del suo popolo e si trova davanti a una scelta, una profezia che deve realizzare per evitare che l'orrore estingua la sua gente, cancellando anche la memoria dello stesso.
Del racconto:
“Una regina ha due cuori”, gli aveva detto Aislin una volta. “Uno è della sua gente e batte solo per loro, ma l'altro è il suo, quello che ama, quello di donna.”
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Sei la Cail’ka?»
La domanda sembrò rimanere sospesa nel tempo. Le due donne si guardavano e la nebbia, che bassa sembrava inerpicarsi lungo le loro gambe, rendeva quell’incontro irreale.
Colei che aveva posto il quesito si mise l’arco di tasso in spalla, scrutando la donna vestita di nero davanti a sé. Fischiò piano, un suono sottile e acuto, e immediatamente, come se fosse stato creato dalla foschia stessa, un enorme segugio bianco dagli occhi rossi come braci arrivò, portandosi al suo fianco.
«Quelli che cercano i miei servigi mi chiamano così, quindi sì, direi di sì, che sono io.»
La cacciatrice annuì, accennando appena un sorriso che si intensificò quando la Cail’ka, con un gesto, dissipò la nebbia tra di loro.
«Vi stavamo aspettando.»
«Lo so.»
La cacciatrice si strinse nelle spalle, scuotendo appena la testa. Le Cail’ka erano strane, misteriose, al di fuori di ogni legge, ma, soprattutto, pericolose. La donna davanti a lei vestiva di cuoio rinforzato da capo a piedi e il volto era celato dal cappuccio. Al fianco portava una spada corta dall’aria rozza, e dagli stivali spuntavano le impugnature di un paio di pugnali. Una balestra pendeva dalla spalla e la cacciatrice era certa che quello che vedeva, fosse solo una piccola parte delle armi di quella donna.  
«Seguitemi, allora. La porta del Palazzo di Pietra è poco lontano. Non ho cacciato selvaggina, oggi, ma direi che è stata lo stesso una giornata fruttuosa.»
La cacciatrice s’incamminò con la chioma rossa che ondeggiava libera, piena di treccine a cui erano legate piume di diversi rapaci. Gli abiti erano morbidi, di pelle, comodi, e in vita aveva un’alta cintura a cui erano legate la faretra e un lungo pugnale.
Le due camminarono tra le conifere profumate di resina, dai cui rami lunghi licheni pendevano come festoni. I loro passi non producevano alcun rumore: erano ombre effimere che si confondevano con l’essenza stessa della foresta.

 

 

Il collare era estremamente elaborato; il metallo era inciso finemente e arabeschi e intrecci, con eleganti volute, facevano di quel simbolo di schiavitù un’opera d’arte. L’uomo camminava a testa bassa, fissando con occhi pieni di odio la catena lucida agganciata all’anello che gli cingeva il collo.
«Non sei più così battagliero, ora. Vero, umano?»

Guardando la donna che teneva l'altro capo della catena rimase in silenzio, mentre lei continuava a parlare. «Mi hai dato un sacco di problemi, sai?»
«Morto non saresti stata pagata, immagino.»
«Meno.» La donna in nero sorrise dall'ombra del cappuccio, una ciocca così chiara da sembrare candida si intravedeva tra le pieghe di stoffa alla luce delle torce. «Se mi dai altri problemi, però, non vali lo sforzo che richiede consegnarti vivo, ricordalo. La scelta è tua.»L’uomo non rispose, guardandosi attorno in quella via illuminata a stento. Era poco più di un villaggio con case di pietra e legno dai tetti spioventi da cui l’umidità sembrava gocciolare, mentre la sottile foschia allungava qua e là i suoi tentacoli come dita carezzevoli. La Cail’ka l’aveva trovato pochi giorni prima, nascosto nella foresta e stremato da un lungo inseguimento. Lui era l’ultimo sopravvissuto del suo villaggio ed era scappato dalla legge della Regina delle Corna per mesi, rifugiandosi sempre più in profondità in quel cuore verde e antico del regno.
Da lontano lei l’aveva osservato, invisibile, catturandolo quando si era arreso al sonno. Si era svegliato mentre il collare si chiudeva attorno alla sua gola.
«Quindi mi consegnerai qua?»
La Cail’ka scosse il capo, fermandosi davanti alla porta di una locanda. «No. In questi piccoli insediamenti non c'è nulla di che, se non qualche strega che cerca di vivere in superficie. Sei un umano che la regina stessa vuole vedere. Non capisco perché, avrei fatto un piacere al mondo uccidendoti nella foresta, ma mi paga per averti.» Gli occhi gialli e dalle pupille verticali della donna si posarono su di lui, fissandolo. «Vivo o morto.» Aggiunse con voce bassa e dura.
«Ho capito il messaggio.»
La Cail’ka strattonò la catena, tirandosi dietro l’umano nella locanda semi deserta. Il fuoco era acceso nel camino e qualche lanterna illuminava la stanza. Poche donne dall’aria stanca bevevano e mangiavano e qualche hilm'een serviva ai tavoli, nulla di più. Si sedette in un angolo, costringendo l’umano ad accucciarsi per terra, tra la paglia sporca, legandogli meglio le mani dietro la schiena.
Uno degli hilm'een si avvicinò con aria dimessa, parlando poi con voce rispettosamente bassa: «Cosa desiderate, maestra?»
La Cail’ka fissò l'hilm'een che le aveva parlato. Come tutti i suoi simili era stato un umano, prima di essere mutato. Non gli piacevano, nessuno di loro le piaceva, né umani, né hilm'een, ma una volta addomesticati e addestrati erano utili e, purtroppo, essenziali alla continuazione della loro specie.
«Cibo, abbondante. Niente birra, solo acqua.»
Abbassando il capo in un assenso l’hilm’een se ne andò verso la cucina.
«Potresti avere salva la vita, la regina potrebbe decidere di avere un nuovo hilm'een nel suo palazzo.»
«Preferisco morire che diventare uno di quelli.» Il sibilo pieno di collera e disgusto fece ridere la Cail’ka, che strattonò la catena costringendo l’uomo a fissarla. Aveva occhi verdi, profondi, orgogliosi e pieni di rabbia. Erano però anche colmi di astuzia e lei sapeva quanto fosse abile. Avevano dovuto chiamare lei, la migliore tra le cercatrici, una delle maestre dell’ordine, per trovarlo. Era riuscita a coglierlo di sorpresa, stremato dopo una lunga fuga, inconsapevole che non era una sola Cail'ka a dargli la caccia e, seminata quella che credeva essere l’unica inseguitrice, si era lasciato vincere da un sonno profondo.
Aveva lottato non appena il collare si era chiuso attorno al suo collo, ma la magia aveva iniziato a fare immediatamente effetto, rallentandolo. Con il tempo gli incantesimi del collare avrebbero raggiunto la loro piena potenza, radicandosi in lui ma, fino ad allora, era ancora pericoloso.
«Non sarai tu a scegliere. Domani arriveremo al Palazzo di Pietra, io prenderò i miei soldi e tu scoprirai quello per cui sei tanto desiderato.»
«Uccidimi.» Gli occhi dell’uomo la fissarono, seri. «I soldi li prendi lo stesso, no? Allora fallo.»
«E risparmiarti quello che hanno in mente per te?» Il sorriso della Cail’ka divenne crudele, assaporando il lampo di disgusto e paura che passò negli occhi dell’uomo. «La morte è un premio che meriterai con lunghi anni di fedele servizio alla tua nuova padrona, magari. Ora però taci, voglio mangiare in silenzio.»
«Uccidimi! Cazzo, un po’ di pietà! Ti prego!» Il sibilo dell’uomo aveva un che di disperato, mentre guardava l’hilm'een consegnare il cibo al tavolo. Il collare che portava, gli occhi spenti, i segni della magia sul corpo vagamente androgino che lo legavano e marchiavano al contempo. Una schiavitù a cui tutti i maschi che erano stati mutati dalle streghe dovevano piegarsi, da quando poco più di un centinaio di anni prima le streghe avevano vinto la lotta senza tempo tra le loro specie e avevano iniziato a catturare maschi, senza nessun ritegno. Inizialmente nei piccoli villaggi gli uomini e le donne venivano lasciati vivere in pace, purché pagassero un tributo, ma con il tempo quel dazio era stato versato con sempre più insofferenza e, quando quei piccoli abitati avevano visto i propri figli maschi portati via ancora piccoli, per essere asserviti ed educati come hilm’een, la ribellione era iniziata. Se prima il rapimento dei bambini da parte delle streghe era una spaventosa leggenda, vedere i propri figli sottratti aveva dato il via all'odio più puro. Uomini e donne che non accettavano di diventare schiavi, di vedere quel fato ghermire i loro figli, e ragazze che non volevano mutare e diventare streghe a loro volta. Nel tempo le sacche ribelli erano state cacciate e all’apparenza sterminate; gli uomini che si arrendevano venivano piegati fino a spezzarli con la magia e le donne sottoposte alla mutazione, ma poche sopravvivevano.
Lui stesso aveva visto le streghe dare fuoco al suo villaggio e non credeva a quello che quelle donne avevano detto, che c'era stata una ribellione.
L'uomo aprì la bocca per parlare, ma la Cail’ka lo fulminò con lo sguardo.
«Se non vuoi che ti metta una museruola, stai zitto. Mi stai dando fastidio.»
L’uomo strinse i denti: le minacce della Cail’ka, lo aveva imparato a sue spese, non erano mai a vuoto.

 

 

Lo avevano chiamato Palazzo di Pietra perché scendeva nelle viscere della terra, serpeggiando attraverso la roccia con le sue sale rischiarate da torce, lanterne, ed enormi colonie di funghi luminosi. I pavimenti erano lisci, le pareti piene di dipinti e bassorilievi, sale enormi si aprivano ospitando veri e propri villaggi sotterranei. Colonne di stalattiti che univano soffitto e pavimento erano scalpellate in forme che ricordavano gli alberi, mentre piccoli animali delle profondità, simili a farfalle luminescenti, volavano tra i tronchi di quella foresta di pietra. Ovunque l'uomo guardasse c'erano solo streghe dagli occhi dalle pupille verticali e pervasi di magia, dall'aspetto fiero e selvaggio.
Camminava strattonato dalla catena, guardandosi attorno in quella scarsa penombra e incontrando raramente la sagoma di un hilm'een.

Si addentrarono sempre di più, fino a quando la luce non divenne abbagliante come quella del giorno e il suono di acqua corrente non giunse alle orecchie dell'uomo. Una guardia, una strega con indosso un'armatura nera e in mano una lunga lancia, si fece avanti. Lanciò solo un'occhiata alla Cail'ka e fece loro cenno di proseguire.
In quella parte delle caverne, nella zona del palazzo vera e propria, non c'era una chiara fonte per quella luminosità; sembrava semplicemente esistere, delicata e dorata, illuminando ogni cosa a giorno. Attraversarono un'arcata scolpita e in cui sbocciavano fiori d'oro e di gemme colorate, proseguendo lungo corridoi e stanze dove guardie e alcune streghe vagavano, fino ad arrivare davanti a una porta di piccole dimensioni, modesta in confronto a molte altre che avevano oltrepassato. Una guardia era sull'attenti davanti a essa e nel vedere la Cail'ka bussò all'entrata, per poi aprirla per permettere loro di entrare.
«Avete fatto un ottimo lavoro, maestra.»
La Cail'ka si tolse il cappuccio mettendo in mostra la chioma candida, chinando il capo in un assenso rispettoso a colei che l'aveva apostrofata. «Ho solo fatto quello che mi avete ordinato, mia regina.»
«Lo avete fatto in fretta, portandolo vivo. Avete meritato ogni grammo del vostro oro.»
Nella stanza di pietra chiara, con il soffitto a volta dipinto come un cielo stellato, la donna era seduta su una panca, accanto a un braciere magico che spandeva calore senza produrre fumo. L'uomo non poté fare a meno di fissarla: se l'era immaginata più imponente, con lo sguardo crudele, malvagio, una donna che si poteva odiare e temere con una sola occhiata. Quello che vedeva, invece, era una donna minuta, dall'aria seria e con un portamento fiero e nobile. Aveva come ogni strega le pupille verticali, ma aveva occhi di un azzurro profondo, vibrante, e una chioma corvina a cui erano intrecciate piume e pietre preziose, sulla cui sommità piccole corna di cervo spuntavano. L'uomo non poté fare a meno di chiedersi se fossero della strega o un ornamento ben camuffato dall'acconciatura.Uno strattone lo costrinse a inginocchiarsi e il piede della Cail'ka dietro il collo lo fece abbassare fino a schiacciargli il viso sul pavimento.
«Posso chiedervi perché lo volevate vivo?»
«Sì, potete. Non avrete risposta, però. Il vostro lavoro è concluso, il compenso vi aspetta nella sala delle guardie. Andate e sentitevi libera di rifocillarvi nelle cucine.»
L'uomo sentì la pressione sul collo svanire e la porta chiudersi un attimo dopo. Alzò la testa, notando come l'altra estremità della catena del collare pareva fusa con il pavimento, di sicuro non avrebbe potuto andarsene a piacimento. Lentamente drizzò la schiena, quello poteva farlo, ma la lunghezza di quel guinzaglio era appena sufficiente per quel movimento e mettersi in piedi era fuori discussione.
«Sei uno degli ultimi umani dei nuclei ribelli, un esemplare degno di nota, nonostante lo sporco che hai addosso.»
«Non immaginavo la cosa potesse disturbarvi, a saperlo avrei sicuramente fatto un bagno e mi sarei sistemato la barba.» La voce dell'uomo era ironica, tagliente, e la strega sorrise. Nuda dalla cintola in su, portava una collana di denti e zanne con al centro un teschio di corvo. I seni erano dipinti con una fascia nera, orizzontale, che passava sui capezzoli e le braccia erano tatuate con dei rampicanti che sembravano nascere dalle mani. Sorrideva appena, fredda, continuando a studiarlo.
«Come ti chiami?»
Scostando con un soffio i ciuffi di capelli rossi dagli occhi, l'uomo fissò quella strega, la regina di quelle maledette creature che avevano vinto la guerra cent'anni prima. «Iraen.»
«Bene, Iraen, hai idea del perché ti ho voluto qua?» L'uomo scosse il capo, stringendo gli occhi. «Una malattia, diciamo. A quanto pare nessuno degli hilm'een è in grado di generare una figlia con me. Tu, invece, sembra che ne sarai in grado. Stando a quello che mostra l'oracolo, almeno.»
«Mi taglio l'uccello, piuttosto.» Iraen ringhiò, fissando con odio la strega. «Cosa ti fa pensare che lo farò?»
La Regina rise, avvicinandosi e sfiorando con un dito il volto dell'uomo. «Quando avrò finito con te, farai qualunque cosa, per me. Obbedirai, come ogni hilm'een non avrai scelta, o altro posto dove andare. Una volta trasformati la vostra stessa razza vi disprezza, ricordalo.» L'uomo cercò di sottrarsi al tocco di lei, ma la catena era già tesa al massimo e dovette stringere i denti. «Perché credi che abbia personalmente fornito il collare alla Cail'ka? Ho infuso in questo pezzo di ferro molti incantesimi, semi che già iniziano a mettere radici in te. Mi amerai, o magari mi odierai, eppure non saprai vivere senza di me.» Il dito continuò il suo percorso fino a toccare il collare che divenne improvvisamente gelido attorno al collo di Iraen. «I mutamenti hanno già iniziato a prendere piede, presto sarai un hilm'een e non avrai altra scelta che piegarti al tuo destino.»
«Siete tutte delle schifose puttane!» L'uomo alzò la mano per colpire quella della regina, ma un'improvvisa scossa di dolore gli attraversò il braccio lasciandolo come morto a penzolare dalla spalla.
«Vedi, inizia già. Non alzerai la mano sulla tua padrona, come su nessuna strega. Non importa quanto ci proverai, quanto lotterai e ti opporrai. Lo sai, vero? Non sarà solo il dolore a piegarti, non potrai mangiare, o bere, o fare nulla se non sarò io a dartene il permesso.»
La regina si alzò sorridendo, osservando l'uomo. Sulla sua pelle già iniziavano ad apparire i primi segni bluastri, le pupille stavano prendendo una forma vagamente ovale e con il tempo il corpo si sarebbe fatto più sottile. Avrebbe perso molto dell'aspetto di un tipico maschio, ma del resto per loro l'accoppiamento con un umano di razza pura era infecondo; avevano bisogno di rendere quei maschi dei mezzi sangue, per far sì che fosse loro possibile generare. Ogni hilm'een assumeva un aspetto quasi androgino nel perdere parte della sua umanità, manteneva una forza fisica mediamente superiore a quella di una strega, ma non era in grado di entrare in contatto con le forze che scorrevano nella terra e da cui la sua gente traeva l'energia magica.
«Preferisco morire che diventare il tuo cane!»
«Lo dicono in molti, quasi tutti a dire la verità. Però, sai, alla fine non si lascia morire nessuno. Forse uno su cento, gli altri muoiono perché non sopportano il mutamento, il loro corpo marcisce e cede. In pochi però scelgono volontariamente la morte. Essa è la fine di tutto, mentre nella vita c'è sempre la speranza; essere un hilm'een non è la peggiore delle disgrazie.»
«Morire è meglio che vivere da schiavo.» Iraen ringhiò, fissando con odio la strega. «Cosa ti fa credere che io vivrò e che ti accontenterò?»
«La profezia.» Passandogli accanto con passo leggero la strega si diresse alla porta. Con la mano posata sulla maniglia voltò il capo verso l'umano. «D'ora in poi non parlerai con nessuno, solo con me e solo se vorrò sentire la tua voce.»
La strega uscì e Iraen alzò gli occhi a quel soffitto che riproduceva la volta celeste.
Quanto tempo passerà prima che possa rivedere il cielo vero? So che quello che devo fare è importante, ma il sacrificio che mi è stato chiesto è enorme.”
Passandosi la mano dietro l'orecchio sentì sotto la pelle del lobo la piccola pallina. Quella minuscola cosa era la sua speranza, in quella pietra che si nascondeva sotto la sua pelle c'era un incantesimo. Gli avrebbe consentito di mantenere intatta la sua anima, nonostante il mutamento inevitabile, in modo da poter agire quando ormai l'avrebbero creduto innocuo.
Ho giurato sulle ceneri del mio villaggio e sulla tomba di mia moglie che l'avrei vendicata, che avrei avuto giustizia per tutti loro. Avrei dovuto morire con lei, difendendola, invece ero lontano a caccia. È morta senza di me, da sola. Ero così disperato... è stato allora che quel vecchio si è fatto avanti e mi ha portato dalla resistenza. Anche gli uomini hanno la magia, lo credevo impossibile, ma c'è e grazie a essa abbiamo una possibilità. È stata quasi dimenticata, eppure quel vecchio sa il fatto suo, devo solo sperare funzioni.”
La luce della stanza lentamente si abbassò, lasciando solo un vago chiarore e all'uomo non rimase altra scelta, dopo un po', che raggomitolarsi sul pavimento di pietra. Passarono le ore e si trovò ad addormentarsi, per poi svegliarsi, assetato e affamato, molto tempo dopo. Era ancora solo, in penombra, e il bisogno di acqua e cibo non era il più grande dei problemi.
La sabbia della clessidra continuò a scorrere e quando la porta si aprì la luce divenne improvvisamente forte, abbagliandolo. Una strega vestita con un abito nero, bordato da un ricamo di viticci verdi e oro, gli si avvicinò, sfiorò la catena che scivolò fuori dal pavimento e lo guardò, inespressiva.

«La regina ordina che tu sia portato in un luogo più appropriato, seguimi.»
A quelle parole rabbrividì. Voleva chiedere dove, ma le labbra parevano cucite tra loro. Riuscì ad alzarsi e seguì la donna lungo molti passaggi e scale che andavano verso il basso, fino ad arrivare a quello che sembrava un corridoio, dove a intervalli regolari profonde nicchie si aprivano. Avanzarono di poco, la donna gliene indicò una con un gesto annoiato. «Lì, quello è il tuo posto.»
Iraen strinse i pugni, fissando con odio la strega. Avrebbe volentieri reagito, ma se solo cercava di muoversi con intenti aggressivi verso di lei il suo corpo si rifiutava di obbedirgli. Con gli occhi pieni di rabbia entrò in quella specie di stanza senza porta, la catena che spinta dalla donna nel pavimento ancora una volta si fuse con esso. Senza dire altro lei si allontanò e, una volta solo, Iraen scoprì nella poca luce che in un angolo c'era un secchio vuoto. Almeno una delle necessità venne soddisfatta, lasciandogli solo la fame e la sete.
Il tempo scorreva, ma l'uomo ne aveva perso la percezione. Notte, giorno, ore... tutto era uguale. A volte vedeva la regina in piedi contro il leggero chiarore del corridoio: lo studiava, valutava, poi se ne andava.
Aveva continui dolori al corpo, sentiva che cambiava sotto l'influenza della magia delle streghe e la sete, ancor più della fame, lo torturava. Sentiva i denti così secchi da scricchiolare, la lingua gonfia e deglutire era inutile: il suo corpo pareva secco come la sabbia del deserto.
Come posso essere vivo? Sono passati giorni senza una sola goccia d'acqua, ma sono ancora qua. Che faccia parte del mutamento che trasforma un uomo in un hilm'een?”
Nel buio non poteva vedersi, ma passandosi le mani sul volto aveva sentito la pelle liscia; la barba non c'era più e le sue braccia sembravano diventate più esili.
Sto cambiando, sapevo sarebbe successo, mi sono lasciato catturare per quello. Ho dovuto fingere di fuggire, essere convincente. Ho obbedito al vecchio druido, ma non mi ha detto tutto. La regina ha parlato di una profezia. Lui doveva sapere, ma non ha detto nulla, mi ha solo detto che io ero l'uomo giusto, che nel mio futuro c'era la possibilità di far crollare la tirannia delle streghe.”
«Iraen.»
Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque, l'aveva sentita solo per pochi minuti, ma sapeva che era lei, la regina. Aprì gli occhi: non l'aveva sentita arrivare eppure, nella penombra, la figura della donna coronata di corna era davanti a lui. Un bagliore delicato, che non gli feriva gli occhi, prese forma sul palmo di lei che lo posò, come fosse stato un oggetto, sulla parete. Il quel chiarore argenteo la vide prendere una grossa ampolla da una sacca che aveva con sé, vuotando il liquido in una coppa che aveva estratto da quello stesso contenitore.
La sete dell'uomo sembrò farsi di colpo più intensa e la sua attenzione fu completamente calamitata dai movimenti della strega. Agitò il liquido con un sottile rametto d'edera con ancora alcune foglie attaccate, poi con un falcetto di pietra si ferì il palmo della mano e tre gocce di sangue caddero nel liquido.
«La mano, Iraen.» Senza una vera intenzione si trovò a porgere il palmo alla regina, che lo incise e fece cadere lo stesso numero di gocce del suo sangue. Lei mescolò di nuovo, soffiando poi sulla superficie e mormorando parole che lui non comprese, poi sorrise. «Sei pronto. Lo sento e lo vedo, la trasformazione è compiuta e tu sei vivo, come mi aspettavo. Bevi, così sarai mio. Bevi, Iraen, e potrai rivedere il cielo, mangiare e bere.»

Lui la guardò per un lungo istante, passandosi la lingua sulle labbra piene di tagli e secche.
Bere, quella prospettiva lo monopolizzava.
Gli sembrava di sentire il liquido scendere lungo la gola, dissetarlo.
Bere.
La regina inghiottì un sorso, poi gli porse il calice e lui lo afferrò; un vago profumo di spezie gli sfiorò l'olfatto. Sapeva che quello era il punto di non ritorno.
Non ritorno a cosa, però? A una vita senza felicità, senza Ynis, perennemente nascosto per paura di vedere di nuovo la morte attorno a me e su chi amo. Se accetto avrò la mia vendetta e porterò la fine della tirannia delle streghe. Il druido ha detto così. Non mentono, mi hanno detto. Quelli come lui non dicono mai bugie, ma non è detto che dicano tutta la verità, però.”
Guardò per un istante ancora le iridi della regina, azzurre come il cielo, e si decise.
Per i dubbi è tardi, non ho scelta.”
Si portò la coppa alle labbra e il liquido scese dolce e fresco lungo la gola. Sembrò dissetare ogni parte del suo corpo, dissolvendo la sete e la fame, come se non ci fossero mai state. Finì di bere e si passò la lingua non più gonfia sulle labbra ora sane.
«Dimmi il mio nome, Iraen.»
Lui la fissò, vedendoci in quella luce lunare come se fosse giorno. Lo sapeva, conosceva il nome di lei. «Aislin.»

La strega sorrise, avvicinandosi fino a sfiorare la catena attaccata al collare, che si aprì. «Seguimi.»
E così Iraen fece, conservando desta una parte della sua antica natura umana che si mescolava a quella che gli aveva inoculato la strega.
Era un hilm'een, ora. Eppure, allo stesso tempo, non lo era.

 


Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, se vi piace fatemelo sapere, fa bene alla mia autostima!
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