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Autore: Kimmy_90    31/01/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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6. Gatto




Quando arrivò Isia, il bambino era una palla.

Completamente raggomitolato su se stesso, legato con le casacche dei Magistri, sembrava non compiere un solo movimento se non un lento, impercettibile respiro.

Dapprima, lo osservò perplesso.

“C’è da andarci giù pesante, qui.” gli disse uno dei Magistri, un ragazzotto di forse diciott’anni che parlava sputando tutto l’astio che rincorrere il bambino per mezzo Ludus doveva avergli provocato.

“Valuterò io, Camir1.” precisò Isia, avvicinandosi a Miran. “Cos’è che avrebbe?”

Mal di pancia, è stata l’ultima cosa che ha detto – prima di far bozzolo.”

Camir era altamente scocciato. E altamente giovane. Avrebbe dovuto aver a che fare con bambini di nove o dieci anni, non con una striscia blu.

Ma suddetta striscia blu aveva avuto la brillante idea di raggiungere le zone che solo dalle quattro stelle in su sarebbero state a lui permesse, e così s’era inevitabilmente imbattuto in Camir. E similmente in Phaes2 e in Toti3. Qualche dio Bianco doveva averlo graziato, dato che nella sua rocambolesca fuga aveva di poco sfiorato le zone di Saeb.

Già così, sarebbe stata dura.

Isia vide Camir indietreggiare, senza togliersi dal volto quell’espressione di fastidio che aveva indosso dal momento in cui aveva messo piede nella stanza.

Il bambino, sulla branda, continuava a non muoversi. Teneva gli occhi chiusi, serrati, strizzati in una morsa che da sola sarebbe bastata a procurargli un enorme mal di testa.
“Questo le proverà tutte, per non passar dal gatto.” fece Phaes, scuotendo il capo. “Non farti ingannare.”

Isia non rispose, ispezionando il bambino. Dopo qualche istante di silenzio, e non un fiato da parte dell’altro, Phaes iniziò a volersi mangiar la lingua – per quanto inappropriato era stato il suo commento.

“E il registro medico che dice?”

“Stamattina è andato giù, svenuto –” intervenne Toti “– assieme a un’altra. Ma stava bene – e non ci sono stati altri problemi. Il suo bracciale lo dice sano. Abbiamo fatto un paio di controlli con lo spillo, mai che il sensore fosse rotto – ma no, è a posto. Anzi, ha valori perfetti.”

“E i responsabili del secondo anno?”

“Ci han raccontato appunto di stamane, ma ora sono impegnati. Come gli altri che l’han rincorso – eravamo in dieci, alla fine. Era un bel po’ che non vedevo qualcosa del genere.”

“Miran.” lo chiamò Isia.

Il bambino non rispose.

“Sei già arrivato alle due code, con quel che hai fatto. Te ne rendi conto, vero?”

Lo vide tentare un movimento, non capendo bene di che genere. Ma fu solo un fremito, perché, di nuovo, s’immobilizzò.

“Se pensi d’esser più furbo di noialtri, hai sbagliato clamorosamente.” rimarcò il Magister.

Sentì Camir tossicchiare, soddisfatto.

“Quindi bada bene, striscia blu –” continuò Isia “ – ogni singolo secondo che ci fai perdere, lo pagherai. In toto, a fondo, e in modo che tu non te ne possa mai più dimenticare. Hai capito?”

Ottenne nuovamente un fremito, e nulla più.

“O forse vuoi lasciare il Ludus e basta, per salvarti da quel che ti attende?”

Questa volta ottenne un chiaro cenno della testa: no.

No, certo. Lo aveva visto, il giorno prima – non era il tipo.

Dunque non mentiva.

“Phaes, vai a chiamare un Medicus. Se ne ha uno di riferimento, chiama quello e quello soltanto.”


Saan non si fece attendere, giungendo all’ambulatorio in pochi minuti con una scatola metallica in mano.

Quando Isia lo vide, ebbe inizialmente un senso di stortura. In qualche modo, si aspettava di vedere Shi’ran.

Non che lui fosse al corrente del lavoro della Medicus, né dei protocolli che riguardavano i Philosophi – ma nel parlare al bambino gli era tornata in mente la prima volta in cui lo aveva incontrato, un anno prima, non ancora ufficialmente allievo del Ludus. Stava dando del filo da torcere a Shi’ran, per l’appunto – e proprio perché aveva avuto modo di infastidirla così a lungo, significava che interessava alla donna.

Come e perché, non era affar suo.

Ad ogni modo, Saan entrò salutando tutti loro, e poi avvicinandosi al piccolo. Non certo quel che avrebbe fatto Shi’ran in una situazione simile.

“Riesci a parlare?” chiese il Medicus a Miran, mentre con inaudita delicatezza gli infilava un ago sottocutaneo sulla nuca. I quattro Magistri lo osservarono mentre collegava il cavetto dell’ago alla scatola che portava con sé.

Il bambino continuava a non far nulla.

“Lo prendo per un no.” concluse Saan.

Miran ricordava la voce di quel Medicus. Come molti suoi coetanei, stava diventando bravo a riconoscere le persone in tutto quel marasma di sconosciuti in cui lo avevano piazzato. Certo non sapeva quale fosse il suo Nomen, ma poteva facilmente richiamare alla mente i suo volto, un po’ passato, i capelli biondicci e radi, una statura non eccezionale ma le spalle, quelle sì, vaste.

Aveva una voce morbida, ed era insolitamente gentile.

Stava diventando naturale, per Miran, diffidare della gentilezza. I Magistri più gentili potevano rivelarsi i più saldi punitori – meglio non farsi abbindolare.

Avvolto nel dolore, cercò a fatica di emettere un qualche suono, senza riuscirci.

“Adesso vediamo.” disse il Medicus. “Controlliamo ogni singolo valore.” Era di quelli a cui piaceva parlare. Manteneva un tono calmo, quieto, a tratti rassicurante. “Vediamo quanto sei bravo a mentire, Miran.” Qualunque fosse il punto della frase.

“Camir, Phaes, potete andare.” Li congedò Isia. “Toti, se non hai da fare mi serviresti qua.”

I due, ch’erano i più giovani, lasciarono volentieri l’ambulatorio. Toti si affiancò invece a Isia, ed entrambi rimasero a guardare il lento e metodico trafficare di Saan. In due, lì, sarebbero bastati a braccare la striscia blu, se mai avesse avuto la forza e la genialità di ritentar la fuga.

Da cosa, poi?

Erano sempre illogici, i bambini. Isia lo ben sapeva, con tutto quel che gli capitava di vedere nella saletta delle punizioni. Certo Miran era leggermente… oltre.

“Forse ho capito, sai?” disse Saan, rivolgendosi al bambino. “Adesso proviamo questo, e vediamo se riesco a srotolarti.”

Con la stessa delicatezza che aveva usato prima, l’uomo infilò un secondo ago, questa volta sul collo, di Miran. La zona, riconobbe Isia, era particolarmente delicata. L’ago scese a fondo, forse addirittura nella carotide.

Il bambino ancora non accennava a muoversi.

“Dovrebbe farti bene, Miran.” spiegò il Medicus. “Ma se fai dei movimenti inconsulti con quest’ago addosso, rischi di strapparlo – e muori qui, seduta stante. Quindi non fare nulla di stupido. Non sarebbe una bella morte, io preferirei comunque il gatto, fossi in te.”

Isia e Toti si avvicinarono, pronti a tener fermo il bambino – ma Saan, come li vide spostarsi, fece un cenno di diniego col capo. “Non c’è bisogno.”

Quel che arrivò in corpo a Miran era freddo, gelido.

Ma non reagì.

Si sforzò di accettare quell’ennesima cosa che gli veniva iniettata in corpo, come decine di altre volte aveva fatto.

E scomparve.

Quel crampo, quel dolore lancinante, quella contrazione che gli impediva qualsiasi altro movimento – sparito. Tutto.

Di colpo.

Era di nuovo vivo.

Videro il bambino rilassare lentamente tutti i muscoli del corpo, lasciando la presa dal ventre, afflosciandosi. Riaprì gli occhi, osservando la parete di fronte a lui come fosse un oggetto dai profondi significati. Iniziò a fare lenti e larghi respiri, ed anche le lacrime, finalmente libere, presero a fluirgli sulle guance – che andavano arrossandosi.

“Allora, Miran? Come stai?”

“Bene.” rispose.

Saan annuì. “Ora non ti muovere.”

“Sì.”

Lentamente l’uomo sfilò gli aghi – prima il più profondo, poi il sottocutaneo. Tamponò, curandosi di bloccare bene il flusso di sangue.

Miran, muto, cercava di fermar le lacrime.

“Per favore, se lo riuscite a slegare…” chiese ai due Magistri. “Mi sembra piuttosto collaborativo.”

Eseguirono.

Da lì, Saan si spostò più volte fra la branda e gli armadietti, mandando ogni tanto Toti a recuperare siringhe e medicine altrove. Ci misero quasi tutto il pomeriggio, in quel che agli occhi di Isia era un intervento insolitamente lungo – per non essere chirurgico.

Miran non mentiva. Stava davvero male.

I Medici di riferimento servivano a questo, d’altronde. Ma da quant’era che non perdevano così tanto tempo dietro a una striscia blu? Se si ammalavano, se si facevano male, se avevano problemi gravi che necessitassero di una tale attenzione, venivano spediti alla palazzina dei Medici e messi in degenza insieme a gli altri – ce n’erano sempre una ventina, di studenti, lì. Far perdere tutto quel tempo a un Medicus e due Magistri era insolito. Ma Saan non faceva una piega, mentre continuava a lavorare sul bambino, iniettando sieri ed estraendo sangue da analizzare, in un flusso continuo.

Quando Miran si addormentò, lasciò libero anche Toti. Verso sera, finalmente, lo portarono in degenza.

“Domani passerò a ricontrollarlo, ma penso che in un paio di giorni sarà abbastanza in forma per riprendere le attività.” spiegò Saan.

“Lo attende una punizione pesante. Devo sapere esattamente quando potrà affrontare il gatto senza avere ricadute dovute a questo… mal di pancia.”

“Quattro giorni, direi. Ma ti aggiornerò. Ora mi congedo.”

Isia lo salutò con un cenno del capo, portando poi il pugno al petto.


Miran passò il primo giorno di degenza rintontito, mentre cercava di capire dove si trovava e che cosa facevano tutti quei bambini stesi, assieme a lui, su dei grandi letti.

Gli sfiorò la mente l’idea di esser morto, ma quando iniziò a sentire i crampi della fame dovette rapidamente ricredersi. I morti non mangiano. Si sollevò a sedere, cercando poi di scendere dal letto – del tutto intenzionato ad andare al refettorio.

Non era molto in sé.

“Fermo, tu.” lo ammonì una voce: il bambino si voltò, cercando di comprenderne la fonte. Un ragazzo, in veste da Medicus, gli si avvicinò in fretta: lo prese per i fianchi e lo ripiazzò sul letto. “Devi far qualcosa?” chiese.

In effetti, aveva anche bisogno di espellere. Si guardò attorno, muto, domandandosi se ci fosse una latrina, da quelle parti. O addirittura il lusso di un bagno intero.

“Allora?”

Miran annuì.

“Allora seguimi.”

Lo accompagnò al bagno, facendolo poi lavare a fondo, e lo riportò indietro. Miran non era mai stato in degenza, non aveva la più pallida idea del trattamento che si poteva aspettare. Seguiva mogio le indicazioni del Medicus – che, peraltro, era davvero giovane. Non aveva mai visto qualcuno di così giovane. C’erano gli studenti, e poi i Magistri – che potevan sì esser giovani, ma non così tanto.

Di quel che succedeva in mezzo, non ne aveva idea.

“Siediti, e resta sveglio, così mangi.”

Miran annuì, issandosi senza gran fatica nel letto alto quasi quanto lui.

Gli portarono un pasto ancor più abbondante del solito, metà del quale era costituito da creme e puree che non aveva mai visto in precedenza.

Appena finito di mangiare lo fecero muovere – camminare dapprima, poi correre lungo i corridoi dell’edificio. Su e giù per le scale.

Lo rimisero a letto, lo rifecero mangiare, si addormentò.

Rimase in quello strano limbo in un tempo indefinito, finché, riaprendo gli occhi, non trovò sul comò al suo fianco la divisa e la sopravveste.

Si vestì, e attese.

“Scendi, Miran.” gli disse il giovane Medicus, entrando nella sala. “Tieni questo.”

Gli mise in mano una borraccia nera, da forse mezzo litro.

“Tre sorsi all’inizio della prima, seconda, terza e quarta ora. Sei prima dell’ora quinta, a meno che tu non debba star sveglio oltre l’ora sesta. In tal caso, tre alla quinta e tre alla sesta. Se stai in piedi tutta la notte, altri tre a metà della sesta.”

Miran annuì.

“Ripeti.” gli disse il Medicus.

Miran, preciso, ripeté le indicazioni.

“Troverai nella tua camera una scatola e altre dieci borracce. Vedi di averne sempre pronte, e non sognarti di saltare una sola dose. Se pensi di non tornare in camera per più di cinque giorni, prendi una borraccia grande, oppure prendi le bustine che trovi nella scatola. C’è scritto come utilizzarle, leggi bene. Quando stai per finirle, vai dal responsabile del dormitorio.”

Il bambino osservò la borraccia a lungo, mentre quello continuava a parlare.

Ripeti.” gli disse il Magister.

Quello, ancora, ripeté. Tutto, dall’inizio.

“Bene. Vai.”


Miran scoprì d’aver perso ben tre giorni di lezione: a stento seguiva le parole del Magister Pa’i, nella prima mattina in cui rimise piede in aula.

Quand’era che si era ritrovato in una situazione del genere?

Anzi, era mai successo?

No. Non era mai stato male.

Ma altri, sì. Le assenze per influenza non erano affatto rare. Cosa succedeva, dopo?

Era così che si svuotavano le sedie?

No, non avrebbe mai accettato una cosa del genere. Non sopportava di non star dietro a quel che dicevano i Magistri.

Si mise in testa un’idea ardita, ma l’unica per lui attuabile.

Doveva farsi avanti.

Costasse quel che costasse.

E poi…

Poi c’era quello spettro che aleggiava, tra le testa il corpo: l’inquietudine, il tormento. L’attesa.

Non era stupido.

Sarebbe dovuto andar dal gatto, per quel che aveva fatto.

Quando sarebbe successo? Quando lo avrebbero chiamato nello stanzino?

Al gatto non si scappava. Mai si sarebbe sognato di salvarsi da una punizione.

Restava l’attesa.

Due code, aveva detto il Magister Isia. Per questo poteva azzardarsi a fare una sciocchezza in più che una in meno – in confronto alla corsa lungo il Ludus, allo spiare i bambini nuovi, all’urlare in presenza dell’Helios, sarebbe comunque stata un’inezia.

Così non si fece scrupoli ad andar a chiedere aiuto al Magister. Tant’era, provò.

Quando vennero lasciati liberi per andare al refettorio, Miran corse giù, nel punto più basso dell’anfiteatro – verso Pa’i. Raggiunto il Magister, si trovò davanti una bambina con i corti capelli biondicci, più alta di lui – parecchio più alta di lui. Teneva in mano la sopravveste, le braccia tese: gliela stava porgendo, ecco che faceva.

Miran vide l’uomo prendere l’oggetto, e come questo passò da una mano all’altra sentì un rumore anomalo – un tintinnio sommesso. Poi Pa’i appoggiò la sopravveste sulla cattedra, ed allora il bambino lo vide: un campanello.

Lo stesso campanello che aveva avuto in mano qualche giorno prima – quello da poggiare nella conca. Quello che lui non aveva, ma lei sì.

Il bambino collegò in fretta tutti i puntini: l’altra era più grande di lui – l’altra aveva il campanello.

Chiaro: avrebbe dovuto essere coi tre stelle, lei – non con loro.

Se ne stava andando.

“Aspetta un istante, Hosi.4” le disse il Magister Pa’i, portando poi lo sguardo su di lui. “Che vuoi?”

Miran sentì il sangue rigettarglisi violentemente nelle guance, bollendo. Rimase muto qualche istante, colto alla sprovvista – s’era fatto prendere dai ragionamenti, che ora non era affatto pronto a rispondere. Che dire – da dove iniziare?

Avanti.

“Magister, sono stato mal –”

“Lo so. Vuoi appunti?”

Era la prima volta in vita sua che sentiva quella parola. Appunti. Suonava bene.

Annuì.

“Bene. Te li farò avere in camera. Muoviti ad andare a mangiare.”

Non era sicuro di cosa fosse appena successo, ma preferì defilarsi. Gettò un’ultima occhiata alla bambina bionda, mentre correva su per le scale a recuperare la sua sopravveste. Ah, giusto. Anche la borraccia.

La borraccia.

Non c’era più.


Nei giorni che seguirono Miran scoprì quanto la sua borraccia potesse essere interessante agli occhi degli altri. Non cercò di capire chi gli aveva rubato la prima, ma corse in camera a prenderne un’altra, che – come saggiamente gli aveva detto di fare il giovane Medicus – aveva già preparato il giorno prima.

Tempo che il sole tramontasse, e gli avevano rubato anche la seconda.

Iniziò a montargli una rabbia ignota, e l’idea di fare a botte lo stuzzicava sempre più. Sarebbe stato disposto a darle anche a uno a caso, pur di sfogarsi – anzi, ai suoi occhi erano tutti colpevoli.

La terza la tenne sempre stretta, finché non fu costretto ad abbandonarla per l’allenamento: cercò dapprima di correre tenendosela in mano, ma quando iniziò ad aver bisogno di tutti gli arti liberi non seppe più come fare, e l’appoggiò vicino a un albero.

Così anche la terza sparì.

L’idea di dover già chiederne di nuove lo scocciava. Era sicuro che sarebbe stato un richiamo coi fiocchi: pura negligenza.

Ma a dirla tutta il problema non era tanto la punizione, quanto l’umiliazione e la rabbia che gli montavano in corpo.

Passò la notte seguente sveglio, a pensare sul da farsi.

Qualche idea gli venne. Sarebbe stato più furbo degli altri – di chiunque si trattasse.

Fare a botte era soddisfacente, sì, ma fargliela sotto il naso a quegli sciagurati avrebbe provocato in loro la stessa rabbia che loro avevano provocato in lui – e quest’idea in particolare, a Miran, piaceva assai.

Non appena suonò la prima sveglia, schizzò fuori dalla camera per andare a fare colazione, pronto a mettere in atto le trovate della notte – la borraccia ben salda in mano. Ingurgitò in fretta il cibo, senza più prestare attenzione alle dosi o a quel che gli mettevano nel vassoio: sul punto di avviarsi verso l’aula, però, venne bloccato.

Davanti a lui, Isia.

“È ora.”

Gli avevano dato giusto il tempo di lasciarsi passar di mente tutte le efferatezze che aveva fatto, così da potergliele ricordare.

Precisi.

La precisione era qualcosa di perenne ed immanente, al Ludus. Miran evitò di stupirsi: dopo una minuscola perplessità, annuì grevemente col capo e seguì il Magister senza fare un fiato.


“Dunque tu vuoi restare al Ludus.” Disse Isia, aprendo le ante dell’armadio di metallo che adornava lo stanzino delle punizioni.

Miran, in mutande, annuì.

“Togliti il bracciale.”

Mentre il bambino eseguiva il Magister gli si avvicinò, porgendogli il gatto a due code.

“Tieni.”

Miran lasciò che l’uomo gli appoggiasse l’oggetto sui palmi delle mani, e, come aveva fatto più di un anno prima, lo tastò.

La frusta era pesante, spessa e liscia. Ebbe esattamente la stessa sensazione che aveva avuto allora – con la differenza che lui, nel frattempo, era cresciuto: il che significava che anche il gatto era cresciuto, insieme a lui. Altrimenti, in mano, avrebbe dovuto sembrargli molto più leggero.

Aveva già sperimentato, una decina di giorni prima, la consistenza dell’oggetto – direttamente sulla schiena. Vederlo in mano dava un senso di coerenza al tutto.

“Vuoi sapere quante frustate sono?” Domandò, affatto sarcastico, l’uomo.

Miran non rispose.

“Vuoi che le conti?” continuò a chiedere Isia, mentre preparava i bracciali e il moschettone per appenderlo.

“No.” rispose, con un filo di voce.

“Allora – prima che ti tiri su: vuoi restare al Ludus?”

Miran annuì.

“Quando sarai su, se vorrai lasciare, dovrò chiederti conferma per tre volte.” gli spiegò. “Quindi pensaci bene, perché sarà una cosa lunga.”

Miran scosse la testa, ritmicamente, in un diniego continuo.

“Che significa quel gesto?” chiese l’uomo.

“Non voglio andare via.” spiegò quello, stringendo con forza il gatto.

“Perfetto. Assumersi le proprie responsabilità è una buona cosa, per un Custos.”

Quello gli bastò a diradare ogni dubbio.

Avrebbe resistito, costasse quel costasse. Perché sì, aveva fatto una cosa sciocca. Si era comportato da Agricola, e, se non voleva diventare tale, avrebbe dovuto vedersela col gatto.

Lui era uno studente del Ludus, non un Agricola.

Una volta su, appeso per i polsi, fece un profondo respiro e strinse forte la schiena.

Sì, quello aveva imparato a farlo. Chiuse gli occhi. Attese.

La prima fu un singulto.

Fece per urlare, ma con forza ricacciò l’aria dentro i polmoni: aprì gli occhi, fissando il muro. Il respiro gli si era già fatto pesante.

La seconda l’accolse.

Fece un profondo respiro, sentendo il fischio nell’aria.

Iniziarono a sfuggirgli le lacrime dagli occhi.

La terza aprì la pelle.

Da allora, fu un peggiorando continuo. All’inizio, Miran ebbe l’infelice idea di contare: quando però il numero iniziò a toccare cifre che iniziavano a fargli dubitare della sua capacità di sopportazione, gettandolo nello sconforto, smise.

Venne prima il caldo – quello, subito. Poi il sangue.

Il bruciore violento.

Ma lui era uno studente del Ludus, avrebbe resistito. Costasse quel che costasse.

Isia controllò ben due volte che fosse vigile: entrambe le volte si ritrovò davanti uno sguardo serio, concentrato, il volto scarlatto e sudato che lasciava intendere bene quanto dolore provasse.

Ma Miran non mollava, non diceva una sillaba, non fiatava se non per respirare e tossire ogni tanto. Il Magister poteva sentire le urla morirgli in gola, non per stanchezza, ma per testarda ostinazione.

Quando lo tirò giù quello barcollò, riappropriandosi con qualche fatica dell’equilibrio. Faceva lenti e profondi respiri, gli occhi rossi, lacrime e sudore sulle guance.

Isia lo raddrizzò tenendolo per le spalle, per poi sfilargli i bracciali di metallo: gli avevano provocato una striscia di vesciche sui polsi, alcune delle quali aperte e sanguinanti. Gli posò una mano sulla fronte, bollente, ed una sul cuore. Rimase così, flesso, ad aspettare che si calmasse e raffreddasse. I minuti scorsero lenti, abitati solo dal respiro affannato di Miran.

“Bene.”

Ce l’aveva fatta.

“Rimettiti il bracciale. Stai attento ai movimenti che fai.”

Controllò il battito dalla carotide, i dati del bracciale, gli guardò gli occhi e gli fece seguire l’indice con lo sguardo, mentre lo spostava davanti al suo volto.

“Bene.”

Non era stato semplice. No.

Era stato atroce.

Ma era finito.

E soprattutto, quand’era stato issato, sapeva che sarebbe finito – forse dopo poco tempo, forse dopo molto, ma le frustate che s’era meritato, fossero anche state tante, erano limitate.

A differenza di quell’atroce mal di pancia.

Nulla lo poteva battere, pensò Miran.

Nemmeno le frustate.

Miran aveva vinto.

Sorrise, rendendosi conto che sarebbe stato capace di affrontare qualsiasi punizione.

“Vai in camera. Il responsabile di dormitorio ti aiuterà a medicarti.”

Isia guardò il bambino allontanarsi con i vestiti in mano, la schiena sanguinante. Lo vide camminare dritto, dopo quel sorriso assurdo che gli si era lento e inesorabile allargato sul volto.

Avrebbe voluto dirgli bravo, ma non poteva. Sarebbe stato fuori luogo, e didatticamente sbagliato.

Rimaneva innegabile che fosse uno dei pochissimi a gestire così bene una punizione così grossa, a quell’età.

Il Magister ne era a tratti ammirato.









[1] Pronuncia: Càmir

[2] Pronuncia: Fæs

[3] Pronuncia: Tòti

[4] Pronuncia: Hòsï



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Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Grazie a chi ha messo la storia fra seguite e preferite, siete un supporto notevole :)

e ovviamente vi ringrazio per le recensioni, cui comunque cerco di rispondere sempre, visto che uno fa la fatica di recensire… =)

.

Spero di aver iniziato a dare qualche scopetta qua e là, anche se la faccenda è lunga. Risalgo lentamente la china, i momenti epici verranno molto più avanti, purtroppo. Spero non troppo in là.
Spero anche che non ci sia nulla che urti troppo.


Grazie a tutti e al prossimo capitolo :D



Pandi


   
 
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