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Autore: aturiel    01/02/2016    2 recensioni
Dal testo: "Ti amai, ti amai come amai tutti gli altri: profondamente e intensamente.
So di essere una di quelle persone che s'innamorano troppo in fretta di qualcuno, e con ogni probabilità questo è dovuto al fatto che sono un artista. Gli artisti, quelli veri, tendono a lasciarsi catturare da un singolo sguardo, da una curva, dall'accostamento di due o più colori... e boom, s'innamorano. Seguono l'istinto, loro, si bruciano in uno sguardo, in un suono o in un odore. Cercano di riprodurre ciò che sentono senza mai riuscirci, e solo allora capiscono che mai ci riusciranno."
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Seconda classificata al contest "Quando il fantasy è Dark" indetto da Nuel2 sul forum di EFP.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ti amai, ti amai come amai tutti gli altri: profondamente e intensamente.
So di essere una di quelle persone che s'innamorano troppo in fretta di qualcuno, e con ogni probabilità questo è dovuto al fatto che sono un artista. Gli artisti, quelli veri, tendono a lasciarsi catturare da un singolo sguardo, da una curva, dall'accostamento di due o più colori... e boom, s'innamorano. Seguono l'istinto, loro, si bruciano in uno sguardo, in un suono o in un odore. Cercano di riprodurre ciò che sentono senza mai riuscirci, e solo allora capiscono che mai ci riusciranno.

La prima volta che ti vidi è stato quando ti offristi di posare per me: dovevo creare un quadro e, per la prima volta, avevo scelto di provare a dipingere dal vero. Era una cosa che da sempre m'affascinava, ma ritenevo che la solitudine nella pittura fosse di gran lunga preferibile al dover sostenere la presenza, per quanto utile, di qualcun altro oltre quella dei miei colori.
Ma d'altronde ti proponesti tu per primo: avevi una grande autostima e un altrettanto grande bisogno di soldi, quindi l'idea di poter guadagnare qualcosa semplicemente con il tuo corpo ti allettava al punto da lanciarti a capofitto in questo lavoro senza neppure conoscermi, senza sapere quanto fossi affidabile. D'altra parte, appena ti vidi entrare per quella porta cigolante pensai che saresti stato perfetto: mentalmente immaginai il tuo corpo nudo, le ombre scure che avrei dipinto per accentuare i tuoi spigoli, il colore così chiaro dei tuoi occhi sulla tela, i capelli scarmigliati... et voilà, avrei avuto un altro quadro.
Non ci fu bisogno di metterci d'accordo sul prezzo, e tu eri disponibile a posare per me a ogni ora del giorno o della notte: non t'importava nulla del come, ti bastava che io catturassi la tua immagine e, in cambio, ti pagassi.

Ti togliesti i vestiti con sicurezza e un sorriso, li riponesti in un angolo e, del tutto nudo, ti sedesti per terra come ti avevo chiesto. Eri davvero bello con i capelli neri scompigliati e gli occhi che mi fissavano, fiduciosi.
Non è normale che un giovane nudo guardi con una simile tranquillità un uomo mentre lo squadra da capo a piedi, eppure lo facevi con naturalezza, come se fossi nato per questo, ma mi andava bene, più che bene.
Ti chiesi di sederti, di afferrarti la schiena e di far finta di graffiarti le scapole – quelle scapole pungenti che parevano monconi di ali strappate – e quindi di metterti in ginocchio di fronte a me. Tu facesti esattamente tutto ciò che ti ordinai senza fiatare e sempre con quel sorriso stampato sulle labbra, quel sorriso che ormai avevo incominciato a mal sopportare.

Dopo un po' mi dicesti che non avevi mai posato per nessuno, che non ti ritenevi troppo bello, ma particolare sì, almeno un po'. Non eri cosciente di come i tuoi occhi potessero catturare, o di quale sensazione provocasse in me la vista dei tuoi zigomi appuntiti, di come i tuoi capelli scuri e ricci emanassero un richiamo misterioso, tanto potente da farmi desiderare affondarci le dita, i palmi, i polsi, il viso intero. E nella tua ingenuità sorridevi, senza alcun imbarazzo o pudore. Sorridevi piegando solo leggermente le labbra, facendomi intravedere il bianco dei denti ma senza mai mostrarlo del tutto.
Stolto ragazzo, per quale motivo sorridevi così?

Per fortuna il disegno non prevedeva ancora il ritrarre il tuo volto: prima dovevo dipingere la tua schiena arcuata con nero, grigio e bianco, solo poi sarei dovuto passare alla parte superiore, al profilo acuminato che mi mostravi.
Era bello osservare la tua pelle così chiara e riprodurla sulla tela e, allo stesso tempo, era dannatamente difficile concentrarmi: ogni volta mi perdevo nelle ombre create dalla luce soffusa e dalle ossa sporgenti e mi dimenticavo di doverle dipingere, quasi avessi tutto d'un colpo perso la mia professionalità e non sentissi più il bisogno impellente di impossessarmi di tutta quella bellezza. Alla fine di quel giorno di lavoro, per questo motivo, avevo portato a termine solamente la metà di ciò che mi ero prefissato, ma in compenso avrei potuto dire di conoscere alla perfezione ogni più piccola sfumatura di quella schiena e delle mani ad essa aggrappate.
Dopo essere trascorse le ore che avevamo pattuito, ti dissi di alzarti e tu lo facesti senza esitazione, mostrandomi di nuovo il tuo corpo all'apparenza così fragile ma stando eretto e sicuro in piedi di fronte a me, quindi ti rivestisti senza porti troppi problemi. Non avevamo parlato troppo quel giorno, ti domandai solamente il tuo nome – Roberto –, i tuoi anni – ventitré – e cosa facevi nella vita – studente al mattino e barista di sera. Tu non ricambiasti nemmeno le domande eccetto quella del nome, ma non mi infastidì per nulla questo tuo fare scostante.
Ti salutai quindi con un semplice “ciao, a domani” che, se estrapolato dal suo contesto, pareva molto simile alla promessa di un amante affettuoso, e in fondo era proprio di questo che si trattava: mi ero già innamorato di te, t'amavo come lo fa un artista.

Il secondo giorno mi salutasti con il mio nome – Ezra – e questo mi fece molto piacere: era bello sentirlo uscire dalle tue labbra piene.
Per evitare la mancanza di concentrazione del giorno prima, decisi di mettere sul mio giradischi un vinile: la musica aveva il magico potere di donarmi ispirazione e, allo stesso tempo, di non farmi perdere in inutili divagazioni che, in quel momento, potevano solo consistere nell'analisi dettagliata dell'intrico di muscoli della tua schiena.
Ti spogliasti di nuovo con il solito sorriso, poi ti mettesti nella posa che ti indicai. Iniziai a dipingerti, ma questa volta la musica rock anni Ottanta che si diffuse nell'aria mi permise di riempire quasi la metà della tela. Ero soddisfatto, quindi a pochi minuti dalla fine esclamai, preso dall'entusiasmo:
«Non è male dipingerti».
Ricordo benissimo la reazione che provocarono in te queste quattro parole: i tuoi muscoli si tesero, la tua schiena che tanto a lungo avevo osservato si allungò, e sentii – n'ero certo – il tuo sorriso tremare. Poi con una finta indifferenza mi rispondesti:
«Grazie, Ezra».
Ma quella volta non volli lasciar cadere la conversazione appena iniziata e forzai un po' la mano.
«Dev'essere faticoso rimanere per ore nella stessa posizione; se ti va, puoi alzarti un po' e sgranchirti le gambe».
«Manca solo mezz'ora alla fine, non voglio farti perdere tempo».
«Non è una perdita di tempo. Se vuoi ti vado a prendere un asciugamano».
«Non c'è niente che tu non abbia visto, e non sono una persona così pudica» esclamasti, fingendoti divertito, e detto questo ti alzasti con la tua solita sicurezza. Era bello guardare di nuovo il tuo corpo e il tuo viso per intero, anche se con quel fastidioso sorriso tranquillo e fiducioso: ho sempre preferito chi non sorride spesso, o comunque dei piegamenti di labbra diversi, come quelli che si fanno per conquistare, quelli che preludono una risata, quelli tipici di un ghigno, ma non i tuoi. Nonostante ciò l'azzurro chiarissimo delle tue iridi faceva in modo che tutto sembrasse più sopportabile e, a suo modo, piacevole.
«Allora, come mai hai scelto proprio me per il tuo dipinto?»
«In realtà non lo so, avevi il corpo e gli occhi giusti» risposi.
Ti avvicinasti ancora di qualche passo, abbastanza da accorgermi del tuo pungente profumo di agrumi: in effetti non avrei potuto immaginare odore migliore di quello, per te, e mi resi conto che mi piaceva moltissimo, tanto da farmi implorare la possibilità di racchiuderlo in una boccetta di vetro per poterlo odorare quando ne avessi sentito il desiderio.
Intanto la musica continuava a suonare, e io ero sempre più attratto da quei tuoi occhi gelidi e gentili allo stesso tempo. Mi sembrava strano pensare che davvero non stessi immaginando cosa avrei potuto fare con i nostri corpi a quella distanza così piccola: non eri così puro, così sprovveduto e ingenuo da non prendere nemmeno in considerazione l'ipotesi che un pittore neanche troppo giovane ti avesse scelto non solo per lavoro. Eppure non ti spostasti, non chiedesti un asciugamano e non staccasti lo sguardo dal mio. E nemmeno parlarsti.
«Lo sai che non parlare e fissare così intensamente un uomo è il modo migliore per apparire sensuale?» sussurrai con un sorriso malizioso e scherzoso, curioso di vedere la tua reazione.
Tu scoppiasti a ridere, quasi come se la sola ipotesi che io stessi provando a sedurti fosse inconcepibile. Eri davvero stupido, Roberto.
«Non provare a farmi credere di essere un maniaco, Ezra. Non mi sembri il tipo».
«E che tipo sarei?»
«Quello che dipinge e basta, e che ti guarda come si guarderebbe un oggetto, non una persona».
Era strano il tuo modo di descrivermi, eppure un poco avevi indovinato: mentre ti dipingevo, mi concentravo sui dettagli e mi scordavo della tua carne che, nonostante tutto quello che credevi, mi attirava terribilmente. Ma non avevi compreso proprio nulla di ciò che non riguardava la pittura e si dava il caso che in quel momento non stessi dipingendo. Mi sarei potuto trasformare in chiunque, in un uomo succube della violenza e bramoso del tuo corpo di giovane inesperto e acerbo, o avrei potuto forzarti a cadere nelle mie braccia, se solo non avessi avuto tanto a cuore che fossi tu a socchiudere la tua anima per me.
«Forse hai ragione» dissi, nascondendo i miei reali pensieri dietro ad un sorriso, uno dei tanti.
Quindi ti rimettesti in posa e io continuai a dipingerti fino a quando venne il momento di salutarci, per quel giorno. Ma io aspettavo già quello dopo.

Il giorno successivo dovevo dipingere le tue mani: erano bianchissime e lunghe, scheletriche e un po' femminili, con le unghie poco curate eppure non spezzate o rovinate, come se le accudissi senza però troppa cura. Affondavano nella pelle e l'afferravano, quasi a voler strappare davvero lembi di carne, e questo mi piaceva.
Non parlammo quel pomeriggio, eccezion fatta per i vari convenevoli, e di nuovo grazie ai vinili della mia collezione riuscii a concentrarmi e a finire la parte di te che mi ero prefissato. Ti rivestisti in fretta, probabilmente perché avevi qualcosa di piuttosto importante da fare da lì a poco, e proprio per questo dimenticasti la tua collana d'argento sottile sul tavolino. Io non me ne accorsi, e nemmeno tu, quindi scendesti le scale velocemente e solo alla fine delle tre rampe, toccandoti il collo, ti rendesti conto di non averla con te. Quindi ti bloccasti e, dopo qualche secondo di smarrimento, incominciasti a correre per ritornare nella mia stanza.
«Dov'è?» mi domandasti allora, con gli occhi così spalancati da parere terrorizzati.
«Dov'è cosa?» risposi io, sinceramente – e stranamente – innocente.
«La mia collana, ovviamente. Non fare il finto tonto, lo so che me l'hai presa».
«Io non ti ho preso proprio nessuna collana, ragazzo. Cosa stai dicendo?»
Quindi mi saltasti addosso e afferrasti i lembi della mia giacca, spingendomi con violenza contro il muro. Sembravi folle in quel momento, e forse era proprio questa parte di te quella che ogni volta traspariva dal sorriso tanto fastidioso che sempre sfoggiavi.
«Dimmi dove l'hai messa, o ti ammazzo».
Ricordo che io, preso dall'ira, ti afferrai un polso e te lo torsi tanto forte da costringerti a lasciare la presa, quindi ti tirai un pugno sullo zigomo e tu, dolorante, ti accasciasti a terra. Quindi dissi, glaciale: «Ragazzino, non usare questo tono con me. Cerca la tua collana, ché io non l'ho presa. E datti una controllata se vuoi lavorare ancora per me».
Perciò, di nuovo in te, ti alzasti piano e con cautela, massaggiandoti il volto ferito. Quindi recuperasti a fatica il contegno che perdere quell'oggetto all'apparenza inutile ti aveva strappato. Iniziasti a cercarlo con lo sguardo e, quando lo scorgesti sul tavolino, tirasti un sospiro di sollievo e lo indossasti.
«Scusami, Ezra... solo che questa collana è davvero importante per me e...-»
«Non scusarti».
«Grazie mille, sei davvero gentile. Ora io vado...-»
«Mi devi una spiegazione, però. Dimmi perché questa inutile collana è così importante, e ti lascerò andare» e sorrisi dicendolo, già pregustando la sensazione che assaggiare una parte così oscura della tua anima poteva provocarmi.
Tu mi guardasti spaesato, ma poi, convinto che si trattasse solo di un modo per conversare, acconsentisti. Mi raccontasti che una volta avevi una sorella, una di quelle un po' pestifere ma a cui si vuole molto bene, e che lei un giorno si era ammalata e che, poco tempo prima di morire, ti aveva regalato per il compleanno quella collana. Non era una storia molto originale, ma capii che ti sentivi in colpa per ciò che le era successo, o almeno di non averle dimostrato l'affetto che avresti dovuto e che, anche se non volevi ammetterlo, non ti sarebbe dispiaciuto essere morto tu al suo posto. Forse era prematuro da dire, ma io capisco sempre molto bene le persone, e quel sorriso finto che era sempre montato sul tuo viso parlava quasi al tuo posto.
Non appena concludesti il racconto, in qualche modo ti sentisti in dovere di aprirti ulteriormente a me, mostrandomi il tuo cuore palpitante di una giovane vita e annebbiato dai dolori passati. E io l'afferrai subito, cogliendo l'occasione propizia, mentre tu cadevi nella mia trappola, tessuta con attenzione e cura dalle mie dita di ragno.
Perciò, mentre tu scoppiavi a piangere come un bambino sulla mia spalla, io ti catturai il viso e ti consolai, fingendo una compassione che non provavo del tutto e accettando la tua malinconia. E come, fin dall'inizio, fosti tu a presentarti da me, anche in quel momento decidesti di offrirti in dono: socchiudesti nella mia direzione la bocca morbida e accogliente, dove il sapore salato delle tue lacrime si era diffuso assieme al tuo odore di agrumi, e io risposi a quel gesto abbassando le mie labbra sulle tue, facendo serpeggiare la mia lingua nello spazio che mi avevi concesso. C'era tutta la tua essenza in quel bacio, tanto che mi sembrò di star assaporando un'intera parte di te.
E quando morsi il lembo più esposto della tua anima, tu non sussultasti nemmeno e ti abbandonasti a me, completamente.

Non c'è mai stata vittima più accondiscendente di te, Roberto: di tutte le persone a cui ho divorato l'anima in un momento di debolezza, tu sei stato l'unico a desiderare davvero che lo facessi, a bramare che ne gustassi appieno sapore e consistenza. Tentano di fuggire nel momento in cui affondo per la prima volta i miei denti nel loro essere, solo tu non l'hai fatto. Ciononostante questo non ti rende speciale, solo più umano: tutti si rivolgono al Male, tutti sono attratti dalla parte più oscura del mondo, tutti sono curiosi d'incontrarla, convinti poi di poterla dominare, domare, vincere. E tutti, tentando l'impossibile, cadono inesorabilmente nell'errore e periscono, catturati come stolte falene da quella luce ingannevole che le brucerà senza alcuna pietà. Il Bene non vincerà mai il Male se superbo e troppo sicuro di sé, ma – purtroppo per lui – è proprio della sua natura arroccarsi nel luogo più alto del Cielo, credendo che basti lasciarmi nelle viscere della Terra per sconfiggermi.
Così io, il Diavolo, rubai ogni più piccola parte di te, mi nutrii della tua fiducia, dei tuoi tormenti, della tua stoltezza e del tuo sorriso indefinito, e poi ti abbandonai come corpo senza vita sul pavimento di quella stanza, vicino ai pennelli e ai colori.
Ti amai, Roberto, amai te forse più degli altri, e sono felice di averlo fatto, di aver saziato – almeno per un poco – la mia eterna fame con la dolcezza della tua anima. Sognerò per molto tempo il tuo profumo, e completerò il tuo dipinto per non lasciare nell'oblio la tua memoria. Sì, sarà questo il mio ultimo gesto per te.
Che tu sia dannato, Roberto.







 
Note autrice:
Allora, visto che mi sono ridotta un po' all'ultimo a consegnare la storia per il contest – come al mio solito, d'altronde –, ho deciso di riesumare un racconto scritto un po' di tempo fa. La sua storia non è particolarmente felice perché, anche se l'idea non mi dispiaceva del tutto, l'avevo scritto di fretta e quindi era pieno di errori, refusi, salti di trama eccetera. L'avevo comunque pubblicato e fatto partecipare a un contest (“Academy Emotions”, indetto da Giuns e FairLady@EFP sul forum), ma ovviamente mi ero classificata tipo ultima e, in preda allo sconforto – anche perché tenevo particolarmente al giudizio di queste due giudiciE – l'ho cancellata da EFP.
Questa è una versione ovviamente molto rivisitata dell'altra, da cui in pratica ho preso solo l'idea precedente e qualche pezzetto qua e là, anche perché, mi vergogno un po' a dirlo, la prima versione era davvero indecente.
Detto ciò, spero di essere riuscita ad aggiustare tutto quello che non andava!
Comunque sia, la versione attuale è iscritta al contest “Quando il fantasy è Dark” indetto da Nuel2, sempre sul forum di EFP, dove veniva chiesto di scrivere una fic il cui genere fosse, appunto, il fantasy Dark e dove il cattivo avesse il POV principale, e doveva essere proprio lui a vincere. Ne è uscito questo, sperando che vi piaccia!
Alla prossima,
Aturiel
   
 
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